Un Mondo Accanto

Ottavo cerchio

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view post Posted on 9/4/2010, 08:30     +1   -1
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Il diavolo è sicuramente donna.

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Ottavo cerchio

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L'ottavo cerchio punisce ancora i peccatori che usarono la malizia, ma questa volta in modo fraudolento contro chi non si fida. Esso ha una forma molto particolare che Dante descrive con cura: si trova infatti in un fosso molto profondo, nel mezzo del quale c'è un pozzo (la parte più profonda dell'Inferno); tra la ripa e il pozzo sono scavati dieci immensi fossati collegati tra loro da scogli rocciosi che fungono da ponti (i quali ponti però sono crollati a causa del terremoto che seguì la morte di Cristo): questi dieci fossati sono le bolge dell'ottavo cerchio, detto complessivamente "Malebolge", termine coniato da Dante così come i nomi dei diavoli che custodiscono alcune bolge, come i Malebranche della quinta (bolgia in origine significava "borsa", mentre il suo uso moderno naturalmente è derivato dalla Divina Commedia). Il custode di Malebolge è Gerione, simbolo della frode secondo le parole stesse del poeta che lo presenta al canto XVII (v. 7 «sozza immagine di froda»): infatti ha «faccia d'uom giusto» e corpo di serpente (altra immagine emblematica del male sin dalle prime pagine della Bibbia); la sua coda biforcuta rappresenta la suddivisione tra ottavo e nono cerchio, cioè la frode praticata rispettivamente contro chi non si fida e contro chi invece si fida, mentre la sua pelle multicolore rappresenta la multiformità dell'inganno, come vediamo nelle dieci bolge:


Gerione


Inferno_Canto_17_verse_117



Gerione è una figura della mitologia greca, figlio di Crisaore e di Calliroe. Era un fortissimo gigante con tre teste, tre busti e due sole braccia, proprietario d'un regno esteso fino ai confini della mitica Tartesso. Possedeva dei bellissimi buoi e Euristeo ordinò a Eracle di catturarlo. Eracle partì e vide la barca dorata di Helios e se la fece dare in prestito. Arrivò nell'isola di Gerione e uccidendo il mostro si prese i buoi. Era arrabbiata mandò uno sciame di mosche a uccidere i buoi ma Eracle affrontò pure loro e vinse.

2. Divina Commedia

Nella Divina Commedia Dante introduce Gerione come mostro demoniaco dal volto di uomo, corpo di drago e coda di scorpione, che lo conduce in Malebolge.

Gerione è nominato in Inferno XVII, 1; Inferno XVII, 97 (la sua figura comunque è spalmata sui canti dal sedicesimo al diciannovesimo dell'Inferno) e citato in Purgatorio XXVII, 23

Edited by demon quaid - 12/12/2015, 22:34
 
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Descrizione di Malebolge - versi 1-21

Luogo è in Inferno detto Malebolge


Il canto inizia con una descrizione delle Malebolge, neologismo dantesco che originariamente doveva suonare come sacche del male. Bolgia infatti era sinonimo di borsa e solo dopo i passi della Divina Commedia iniziò a significare, per traslazione dal carattere di questi dieci fossati dell'VIII cerchio, luogo stipato di gente turbolenta e chiassosa.

Dante inizia a parlare di questo luogo con una precisa ricognizione descrittiva e topografica: le "Malebolge" sono di pietra "color ferrigno" cioè grigio scuro, come la rocca che egli ha appena disceso in groppa a Gerione; hanno forma circolare con al centro un pozzo "assai largo e profondo", del quale Dante ci parlerà "suo loco" cioè a tempo debito; questi fossati assomigliano in tutto e per tutto a quelli dei castelli, anche per i ponticelli che li attraversano e che "tagliano" le rocce di divisione tra fossa e fossa.

Dante e Virgilio iniziano quindi il loro viaggio nel luogo sopra descritto girando, come quasi sempre nell'Inferno, verso sinistra.

2. 2. Ruffiani e seduttori - vv. 22-39


Guardando verso destra Dante può già vedere i primi dannati dell'VIII cerchio:

« A la man destra vidi nova pieta,
novo tormento e novi frustatori,

di che la prima bolgia era repleta. »

(vv. 22-24)

I dannati sono nudi (condizione che Dante ripete solo quando vuole sottolinearne la miseria) e stanno sul fondo della "bolgia". Essi si muovono in due file, una che scorre verso Dante lungo il perimetro esterno e una che gira radente alla parete interna nella sua stessa direzione e a passo più sostenuto, ricordando al poeta i pellegrini che nel Natale del 1299 per il Giubileo del 1300 (lo stesso anno del viaggio ultraterreno immaginario) viaggiavano su due file sul Ponte Sant'Angelo per raggiungere o andarsene dalla Basilica di San Pietro, da una lato andando verso Castel Sant'Angelo, dall'altro verso "il monte", ovvero verso la città (non è chiaro quale monte o colle Dante volesse qui intendere; probabilmente si tratta di quel monticello formato da antiche rovine chiamato poi Monte Giordano, sul quale oggi c'è Palazzo Taverna e dove la toponomastica riporta ancora i nomi di Via di Monte Giordano e Vicolo del Montonaccio). Questo passo da taluni è indicato come una prova della partecipazione dell'Alighieri al Giubileo, ma ciò non è unanimemente accettato per scarsità di notizie.

Sui massi attorno al fossato Dante vede dei diavoli cornuti che con lunghe fruste colpiscono i dannati sulla schiena e sulle natiche, con una pena che è più umiliante che dolorosa e che richiama le pene ingiurianti che nel medioevo si infliggevano ad alcuni rei. Forse Dante la riprese dalla tradizione di un qualche statuto comunale a lui conosciuto. Anche la visione dei diavoli, così statici e non minacciosi è tipicamente medievale e ricorda le figure che si potevano vedere negli affreschi delle basiliche. Dante sottolinea che le frustate facevano scappare a gambe levate i dannati ("facevano lor levar le berze") e che nessuno stesse fermo a aspettare la seconda o la terza frustata.

2. 3. Venedico Caccianemico - vv. 40-66

In questa masnada Dante crede di riconoscere un dannato tra quelli che hanno il volto girato verso dove sta lui ora, sul ciglio del fossato nell'atto di iniziare a attraversare il ponticello. Il poeta si ferma e altrettanto fa Virgilio, poi Dante arretra un poco per scorgere meglio di chi si tratti. Il dannato allora si accorge di essere al centro dell'attenzione e si nasconde il volto abbassando il viso vergognosamente. Il tema della vergogna di trovarsi in tale luogo è uno dei sentimenti salienti delle Malebolge.

Dante però non demorde, anzi chiama il dannato indicandolo chiaramente per nome e per cognome, Venedico Caccianemico e gli chiede cosa ci faccia in questo luogo di tormento ("a sì pungenti salse", forse echeggiando le "salse" bolognesi che erano fosse comuni per criminali non degni di sepoltura in terra consacrata. Questo Venedico è un personaggio molto importante, tra i più importanti cittadini di Bologna ai tempi di Dante (morirà solo nel 1303, Dante, in realtà scrive il poema nel 1305-6, e quindi sapeva della morte) e la sua invettiva fu molto coraggiosa verso un personaggio tanto in vista.

Il dannato risponde "mal volentieri", ma non può negarsi al sentire la voce di chi l'ha riconosciuto. Rivela che lui fece prostituire la sorella Ghisolabella alle voglie del marchese (Obizzo II d'Este o, meno probabilmente, suo figlio Azzo VIII d'Este). Apprendiamo così che in questo fosso sono puniti i ruffiani. Inoltre Venedico dice che lì non è l'unico bolognese, anzi ve ne sono di più in quel luogo dell'Inferno che in vita tra il Savena e il Reno, i due fiumi che circondano Bologna. Per indicare i suoi concittadini egli usa una parafrasi linguistica, indicandoli come coloro che dicono "sipa" ("scipa") invece di "sia". Infine egli rincara la dose dicendo che se non ci si credesse, basti pensare all'avarizia del loro cuore. La gravità delle accuse a Bologna è particolarmente forte se si pensa che Dante mentre scriveva l'Inferno si trovava in esilio e che fu anche invitato nella città emiliana per ricevere l'incoronazione d'alloro di sommo poeta, ma egli declinò forse per il fatto di sentire quanto la sua presenza potesse essere sgradita.

La scena è chiusa da un demonio, che rincara ulteriormente la dose di accuse contro Venedico, frustandolo e urlandogli contro: "Via, / ruffian! qui non son femmine da conio", cioè non ci sono donne da traviare, da far prostituire.

2. 4. Giasone - vv. 67-99

Dante allora prosegue e sale sul ponticello con Virgilio; quando sono al centro (dove la pietra "vaneggia di sotto" cioè dove passa sopra al vuoto) Virgilio dice di girarsi anche a vedere la seconda schiera di dannati che gira nell'altro senso. In quella fila di dannati il maestro indica un grande (di statura o di animo?) che viene incontro e che mantiene un aspetto da re senza piangere nonostante il bruciante dolore. Si tratta di Giasone, il protagonista del recupero del Vello d'oro (preso ai Colchi, come dice Virgilio) nella spedizione degli Argonauti. Il poeta latino descrive, segnalando alcuni passi di quanto narrato da Ovidio nelle Metamorfosi, di come Giasone passò da Lemno dove le donne avevano ucciso tutti gli uomini; qui ingannò Ipsipile seducendola (lei che aveva già ingannato le altre donne facendo salvare suo padre, unico uomo superstite sull'isola) e la abbandonò gravida; per tale colpa è condannato a questo martirio che fa inoltre vendetta di Medea, anch'ella sedotta e abbandonata da Giasone: "Lasciolla quivi, gravida, soletta; tal colpa a tal martirio lui condanna; e anche di Medea si fa vendetta." (vv. 94-96). In questa seconda parte della bolgia sono quindi puniti i seduttori, e Virgilio chiude bruscamente dicendo che questo basti per trattare coloro che sono "azzannati" (come una gigantesca bocca) nella prima bolgia.

2. 5. Adulatori: Alessio Interminelli - vv. 100-126

In questo canto la narrazione procede spedita e già i due poeti entrano nella bolgia successiva. Qui innanzitutto Dante inizia a cambiare registro del linguaggio, abbassandolo al livello del dialetto popolare più basso, con rime create da doppie consonanti racchiuse da vocali, come -uffa, -icchia, -osso, -utti, -ucca, suoni duri, allitterazioni e scelte di vocaboli bisillabici e spesso "volgari" nel senso più dispregiativo (merdose, puttaneggiare). La poesia in questo canto, a volte criticata e minimizzata nell'Ottocento, raggiunge vertici di vitalità e plasticità che oggi godono di notevole credito nella critica. Dante dopotutto, "battezzando" il volgare italiano nella prima grande opera scritta in questa lingua, voleva esplorare, e ci riuscì con successo duraturo, tutte le possibilità delle sue applicazioni, dal più basso linguaggio scurrile alla descrizione dei più alti temi angelici e teologici del Paradiso: si sono già incontrati passi dove egli modificava la scelta dei vocaboli, la sintassi e lo stile a seconda del personaggio con il quale dialogava, come negli episodi di Pier della Vigna e Brunetto Latini. Inoltre in questo canto Dante esplora il linguaggio e lo stile comico (per così dire), con situazioni che sembrano trasposizioni immediate della lingua parlata nello scritto.

Dante quindi inizia a descrivere i dannati che si nicchia, si rannicchiano, e che scuffano col muso, cioè sbuffano, e si picchiano con le loro stesse mani. Le pareti del fosso sono coperte da muffa per i vaporacci che vi si "appastano" dal fondo, dove è così buio che Dante deve salire proprio sopra, sul ponticello, per vedere qualcosa. Solo allora riconosce la gente tuffata nello sterco, che pareva provenire da tutte le latrine del mondo (privadi, francesismo per indicare le latrine). Dante scruta e vede uno che ha il capo "sì di merda lordo" che non si capiva nemmeno come avesse i capelli, se normali da laico o con la chierica se religioso. E il dannato gli si rivolge insolentemente: "Perché se' tu sì gordo / di riguardar più me che li altri brutti?" (vv. 118-119), al quale Dante risponde che lo fissa "Perché, se ben ricordo / già t' ho veduto coi capelli asciutti, / e se' Alessio Interminei da Lucca" (vv. 120-122). Anche qui un dannato di nuovo descritto con tono infamante e con la menzione completa del nome, per non lasciare dubbi. Il dannato dice solo che si trova lì per via di tutte le lusinghe che disse, delle quali la sua bocca non si "stuccò" mai, cioè non fu mai stanca. Apprendiamo così di essere nella bolgia dedicata agli adulatori. Viene così a delinearsi anche il contrappasso, sebbene anche in questo caso la pena abbia più un senso di infamia che di punizione dolorosa. Basti pensare come oggi si indichino volgarmente gli adulatori come "leccaculo" per capire una possibile connessione con gli escrementi.

Curiosamente la gerarchia di peccati sempre più gravi via via che Dante si avvicina al centro dell'Inferno è qui ben lontana dai nostri canoni moderni: un adulatore sarebbe più reo di un omicida o di un tiranno secondo la logica dantesca per esempio. Nelle Malebolge in particolare questa regola della gravità dei peccati sarà contraddetta da Dante stesso (per esempio metterà gli odiati simoniaci ben prima di altri peccatori ordinari come i barattieri o i falsari, per questo da alcuni commentatori è stato opinato il fatto che questa regola non sia seguita perché le Malebolge si troverebbero sostanzialmente in pianura o quasi, quindi tutti i dannati puniti sarebbero da considerarsi a pari livello).

2. 6. Taide - vv. 127-136

Infine, in questa rapida carrellata di dannati di questo canto, Virgilio richiama l'attenzione di Dante su una dannata "sozza e scapigliata", che "si graffia con l'unghie merdose" e si alza e siede continuamente senza trovare pace. Essa è Taide, la "puttana" che al suo amante (drudo) quando egli le chiese se avesse grazie presso (apo, latinismo da apud) di lei, essa gli rispose "Maravigliose", eccedendo in lusinghe.

Sul personaggio vanno fatte alcune considerazioni. La prima è che è la prima peccatrice donna che si incontra nell'Inferno dai tempi di Francesca da Rimini, trovata nel II cerchio dei lussuriosi, dove pure comparivano alcune figure femminili. Essa è l'unica prostituta nominata all'Inferno ed è significativo come essa non sia punita per la lussuria ma per l'adulazione. In secondo luogo Dante mette in bocca alla donna parole non sue. Essa è infatti un personaggio letterario della commedia dell'Eunucus di Terenzio, la quale manda il suo servitore Gnatone presso il suo amante Trasone; e Trasone chiede al mezzano, non a Taide, se egli fosse gradito alla donna ricevendo come risposta "Ingentes", cioè "Moltissimo", quindi semmai l'adulatore sarebbe stato Gnatone. L'equivoco nasce dal fatto che Dante lesse della vicenda schematizzata da Cicerone in un passo del De amicitia, confondendo un nominativo con un vocativo e quindi attribuendo la frase a Taide stessa. Cicerone stesso usò il passo per indicare un chiaro esempio di adulazione (secondo lui sarebbe bastato un semplice sì di risposta invece dello spropositato moltissimo) e Dante riprende pari pari la citazione.

Nonostante tutto, questo errore ci ha permesso di mettere in luce alcuni elementi sulla biblioteca di Dante.

Il canto si chiude con Virgilio che sprezzante dice "E quinci sian le nostre viste sazie", una variante del motto Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.

Edited by demon quaid - 12/12/2015, 22:36
 
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Il canto diciannovesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella terza bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti i simoniaci; siamo nel mattino del 9 aprile 1300, o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300 (Sabato Santo).

1. Incipit

Canto XIX, nel quale sgrida contra li simoniachi in persona di Simone Mago, che fu al tempo di san Pietro e di santo Paulo, e contra tutti coloro che simonia seguitano, e qui pone le pene che sono concedute a coloro che seguitano il sopradetto vizio, e dinomaci entro papa Niccola de li Orsini di Roma perché seguitò simonia; e pone de la terza bolgia de l'inferno i kias.

2. Analisi del canto

Vi è una struttura lineare divisa in sequenze. Il canto si svolge in un clima di sdegno. Nonostante Niccolò III sia sempre presente vede come vero protagonista Dante. Tema: potere temporale della chiesa. Alla fine tutte queste idee confluiranno nel De Monarchia. Luogo: pietra livida dove si aprono pozzi circolari. Qui vi sono i simoniaci a testa in giu'.Da questo pozzo escono i piedi dell'ultimo dannato i quali sono lambiti dal fuoco. vv. 1-6:apostrofe vv. 7-30: descrizione terza bolgia e pena vv. 31-87: incontro con Niccolò III vv. 88-117:invettiva contro Papi simoniaci vv. 118-133: si parla del passaggio alla bolgia successiva.

2. 1. I simoniaci - versi 1-30

Il canto inizia con un'invettiva contro Simon Mago, personaggio degli Atti degli Apostoli che intendeva acquistare con il denaro la facoltà di fare prodigi da San Pietro e che è all'origine del nome della cosiddetta simonia.

In questo canto Dante mostra infatti la bolgia dove sono puniti i simoniaci, all'interno dell'ottavo cerchio dell'Inferno, dedicato ai fraudolenti. Questa bolgia è introdotta in maniera non canonica rispetto alle altre: invece di descrivere l'aspetto generale del luogo per poi scegliere un peccatore, il quale a sua volta indichi poi i nomi di altri dannati, qui Dante inizia ex abrupto con un'invettiva piuttosto solenne che annuncia il carattere del canto, dove il poeta esporrà le sue idee in merito alla situazione politica globale, dominata dalle lotte tra papato e impero che erano alla base di tutti i problemi del mondo allora attuale.

« O Simon mago, o miseri seguaci

che le cose di Dio, che di bontate deon essere spose, e voi rapaci

per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,

però che ne la terza bolgia state. »
(vv. 1-6)


Il suonare la tromba richiama sia i banditori medievali, che richiamavano l'attenzione, sia il passo dell'Apocalisse di San Giovanni, dove gli angeli suonano la tromba per annunciare il Giudizio Universale.

Dante inizia solo dopo a parlare di dove si trova: già nella bolgia successiva, sulla parte dello "scoglio" (il ponticello che scavalca la bolgia) che sta sopra la mezzeria del fosso ("Già eravamo, a la seguente tomba, montati de lo scoglio in quella parte ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba.", vv. 7-9). Quindi il poeta, dopo un'invocazione alla sapienza divina che con giustizia amministra sia il mondo dei vivi che le punizioni nell'Inferno, inizia a tracciare l'aspetto della nuova fossa: piena di buchi (gli ricordano quelli del bel San Giovanni a Firenze, dove si battezza e dove Dante ebbe occasione di scheggiarne uno quando si trattò di salvare un ragazzo che vi stava affogando) dai quali escono le gambe dei peccatori fino alle cosce (il "grosso"), con le piante dei piedi accese da fiammelle che sembravano quelle che lambiscono la superficie ("la buccia") delle cose unte; per il supplizio questi dannati scalciano furiosamente ("per che sì forte guizzavan le giunte, che spezzate averien ritorte e strambe", vv. 26-27, cioè così forte scuotevano i ginocchi che avrebbero spezzato qualsiasi tipo di corda, comprese le fortissime "ritorte" di vimini e le "strambe" di fibre vegetali).

2. 2. Papa Niccolò III - vv. 31-87

Dante è subito attratto da una fossa dove il dannato scalcia più degli altri ed ha una fiamma più rossa degli altri; Virgilio si offre di accompagnarcelo subito scendendo con lui nella fossa: si scoprirà presto che quella è la fossa riservata nientemeno che ai papi. Con precisione Dante ci racconta la sua risposta e la discesa verso sinistra ("discendemmo a mano stanca / là giù nel fondo foracchiato e arto", vv. 41-42). Arrivati alla fossa a Dante sembra che l'uomo pianga "con la zanca", cioè con le gambe ("cianca" è un termine dialettale ancora in uso).

Dante allora si rivolge gentilmente all'anima capovolta:

« "O qual che se' che 'l di sù tien di sotto,
anima trista come pal commessa",

comincia' io a dir, "se puoi, fa motto". »


Cioè "Oh tale che stai sottosopra, anima triste che stai conficcata come un palo, se puoi parla." La successiva descrizione ha dei toni surreali: Dante dice che stava come il frate che confessi un assassino (all'epoca la parola aveva valore di sicario, e in molte città essi erano condannati a morte tramite propagginazione, cioè appesi capovolti in una buca che veniva gradualmente riempita fino al soffocamento), che viene richiamato dall'assassino stesso per ritardare il momento della morte; sapendo che il dannato è un papa è piuttosto curioso lo scambio di ruoli tra confessato e confessore che qui il poeta immagina.

Il peccatore allora inizia a cantilenare con sorpresa "Se' tu già costì ritto, / se' tu già costì ritto, Bonifazio?", ripetendo due volte la domanda e aggiungendo che forse si è sbagliato lo scritto, cioè il libro del futuro che i dannati possono intellegire, che gli prediceva la sua venuta tra molti anni. Continua apostrofando che forse egli è già stanco (sazio) di straziare la bella donna che aveva sposato con l'inganno? Dante a queste parole rimane di sasso perché non le capisce:

« Tal mi fec'io, quai son color che stanno,
per non intender ciò ch'è lor risposto,

quasi scornati, e risponder non sanno. »
(vv. 58-60)


La spiegazione della situazione viene data solo qualche terzina più tardi, dopo che Virgilio ha intimato a Dante ammutolito dal dubbio di rispondere "Non son colui, non son colui che credi", quasi canzonando la ripetizione della domanda del dannato.

Dante sta parlando con Niccolò III, papa simoniaco che attende la venuta del suo successore, il tanto odiato Bonifacio VIII. In quella bolgia infatti vige la regola che stiano in superficie solo gli ultimi arrivati, che poi vengono fatti sprofondare nelle viscere rocciose dopo l'arrivo di un nuovo dannato. Con questo stratagemma Dante può collocare all'Inferno anche i papi non ancora morti, in particolare il tanto odiato Bonifacio VIII che egli vedeva come uno dei personaggi causa delle disgrazie dei suoi tempi. La bella donna alla quale allude Niccolò III altro non è che la Chiesa latina, in una metafora frequente all'epoca del matrimonio tra pontefice e Santa Romana Chiesa. La nota del "tòrre con inganno" cioè del "prendere" ovvero sposare con l'inganno si riferisce alla contestata elezione di Bonifacio, il quale fece prima abdicare il suo predecessore Celestino V, autore del gran rifiuto (forse citato da Dante in Inf. III, 60).

Inizialmente Niccolò III (del quale non sappiamo ancora l'identità dal testo) parla presentandosi: (parafrasi) "Se sei così curioso di sapere chi io sia, tanto che hai anche sceso la "ripa", sappi che io fui un papa (vestito del gran manto), e fui un Orsini (figlio dell'orsa), che con cupidigia cercai di far avanzare i miei nipoti (orsatti, cioè orsacchiotti), mettendo lassù averi in borsa e condannando me, qui giù, a essere imborsato" (vv. 67-72).

Continua poi il papa esponendo il meccanismo del tormento in quella bolgia e spiegando che il suo successore lo spingerà giù (Bonifacio VIII morirà solo nel 1303, mentre Dante immagina il viaggio nella primavera del 1300). Continua profetizzando che il suo seguace non starà a farsi "cuocere i piedi" quanto c'è stato lui, perché dopo di lui verrà un papa anche peggiore, "di più laida opra". Questo terzo papa è Clemente V, francese (Dante fa intuire che verrà da ponente), che farà come quel Giasone (quello dei Maccabei spiega Dante, non quello mitologico incontrato nel canto precedente tra i seduttori) che comprò dal suo re (Antioco IV Epifane) la dignità di sommo sacerdote, così egli farà dal suo Re di Francia (Filippo il Bello). La citazione al papa che diede di fatto inizio alla cattività avignonese non giungendo mai a Roma e stanziandosi nel sud della Francia, è stata ed è tuttora fonte di grandi controversie riguardo alla datazione dell'Inferno.

La cantica viene generalmente datata come iniziata nel biennio 1304-1305 o, secondo altre tesi più accreditate, il periodo 1306-1307, con i fatti citati che non vanno oltre il 1309. La prima citazione pervenutaci di un passo della Divina Commedia risale al 1317 dal retro di copertina di una registro bolognese, mentre i manoscritti più antichi che possediamo risalgono tutti agli anni dopo il 1330, tra l'altro si tratta di copie di Giovanni Boccaccio che a sua volta le ricopiò non dal manoscritto originale. In questi versi Dante dimostra di essere a conoscenza del fatto che il successore di Bonifacio VIII starà al soglio pontificio meno di Bonifacio stesso (che governò la Chiesa per nove anni). Clemente V regnò fino al 1314 e questa citazione è in contrasto con tutte le teorie di datazione generalmente accettate (a quell'epoca si ritiene che Dante stesse già scrivendo il Purgatorio). La versione attualmente più accreditata è che la citazione riguardo alla durata del pontificato di Clemente sia un ritocco eseguito dal poeta in epoca successiva alla stesura della cantica. Non è d'altronde molto accreditato dai commentatori il fatto che Dante si fosse solo fidato del suo buonsenso valutando le condizioni di salute del papa in carica. A favore di quest'ultima ipotesi bisogna però considerare che affinché Bonifacio VIII stesse a farsi "cuocere i piedi" meno a lungo di Niccolò III, che rimase "imborsato" per ventitré anni (dalla sua morte nel 1280 a quella di Bonifacio VIII nel 1303), Clemente V avrebbe dovuto morire prima del 1326, previsione che Dante poteva ben arrischiare viste le precarie condizioni di salute di Clemente stesso.

2. 3. Invettiva contro i papi simoniaci - vv. 88-133

A questo punto Dante si sente di rispondere al Papa. Pur temendo di essere troppo temerario (folle), avvia un discorso (che poi Virgilio, simbolo della ragione, benedirà con il suo assenso): (parafrasi)

"Dimmi dunque, quanti soldi chiese Nostro Signore da San Pietro prima che gli desse le chiavi? Solo un 'Vienimi dietro'; a loro volta né Pietro né gli altri apostoli chiesero alcun oro o argento a Mattia apostolo quando gli offrirono il posto dell'anima malvagia (di Giuda Iscariota); Perciò ti sta bene che tu venga ben punito; per non parlare dei soldi ingiustamente rubati, che ti misero contro Carlo l'ardito. Se parlo così è per reverenza delle somme chiavi di pontefice che tenesti in vita, perché dovrei usare parole anche peggiori; la vostra avarizia (anche qui intesa come avidità) rattrista il mondo, schiaccia i buoni ed eleva i malvagi. Proprio di voi parlava profetizzando l'evangelista Giovanni quando nell'Apocalisse citava colei che siede sopra le acque 'puttaneggiando con i re' (la Chiesa, che siede su tutti i popoli rappresentati da tutti i fiumi della Terra, anche se nell'Apocalisse i teologi hanno indicato rappresentare Roma)" (vv. 90-108).

Dante prosegue e passa ad interpretare liberamente le figure dell'Apocalisse, dove compare una donna con sette teste (già interpretati come i sette colli di Roma, forse Dante alludeva ai sette doni dello Spirito Santo) e dieci corna (i dieci Re di Roma / i dieci comandamenti), con cui essa si fortificò finché piacque al marito, cioè al papa stesso. Grave è l'accusa della terzina seguente: Dante dice che ora i Papi adorano un Dio d'oro e d'argento (chiaro è il riferimento all'episodio biblico del Vitello d'oro), che non è nemmeno uno, ma sono cento, come nel diabolico paganesimo.

Infine l'orazione si conclude con un'invettiva contro Costantino I:

« "Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote

che da te prese il primo ricco patre! »
(vv. 115-117)


Parafrasando, Dante rimprovera a Costantino non già la sua conversione, ma la cosiddetta donazione di Costantino, un documento falso (ma la sua non-autenticità fu dimostrata come tale solo nel XV secolo dall'umanista Lorenzo Valla, sebbene già nei secoli prima molti dubbi fossero stati avanzati a tal proposito) che legittimava il potere temporale del papa. Secondo questo documento, che Dante biasimò duramente nel De Monarchia, l'imperatore, prima di trasferire la capitale a Costantinopoli, fece dono a papa Silvestro I della città di Roma, alienando di fatto un pezzo di Impero a un esponente religioso. Forti di tale documento i papi, soprattutto nel medioevo, avallarono gli scontri contro l'Imperatore che erano alla base di gran parte dei problemi politici del medioevo europeo.

Terminata l'orazione, che il papa dannato ha ascoltato in silenzio contorcendo talvolta le gambe con maggiore energia per la rabbia o per il rimorso, Dante è rincuorato dall'espressione accondiscendente di Virgilio, il quale, come simbolo della Ragione, ha gradito la professione di "verità" del suo discepolo. Il maestro solleva quindi Dante e lo riporta sul sentiero sopra il fossato. Qui "un altro vallon" viene a mostrarsi al poeta.

3. Contrappasso

Canto XIX, Priamo della Quercia

Il contrappasso di questi dannati è abbastanza chiaro: poiché essi preferirono guardare alle cose terrene piuttosto che a quelle celesti, ora sono conficcati a testa in giù nel suolo. La santità mancata è sottolineata anche dai due rimandi che indicano l'uso di tali fosse: per i battesimi e per punire gli "assassini" (due cose, fra l'altro, collegate la prima alla nascita, la seconda alla morte). Inoltre, com'essi badarono solo ad 'insaccare' denaro, nella terra sono ora 'insaccati'.

La presenza di fiammelle sulle piante dei piedi si potrebbe spiegare in particolare per i papi: al contrario degli apostoli che durante la Pentecoste ricevettero il fuoco dello Spirito Santo sulla testa, essi lo calpestarono. La pena sarebbe poi stata applicata per analogia anche agli altri simoniaci, un po' come la pena della pioggia di fuoco ritagliata sui sodomiti veniva estesa a tutti i violenti contro Dio e natura. La visione del fuoco e la discesa graduale verso l'abisso sono figure presenti anche in alcune visioni di religiosi medievali, come Alberico di Settefrati o San Pier Damiani. Assomiglia sia alla pena degli epicurei (Inf. X: sepolti in tombe infuocate), sia a quella degli avari in Purgatorio, inchiodati al suolo con la faccia rivolta verso il basso.

Edited by demon quaid - 12/12/2015, 22:39
 
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Quarta Bolgia

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Il canto ventesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella quarta bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti gli indovini; siamo all'alba del 9 aprile 1300, o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300 (Sabato Santo).

Dante, dopo una descrizione generale, indica tra i peccatori, attraverso le parole di Virgilio, cinque indovini antichi (quattro dei quali mitologici) e tre moderni. Durante la presentazione dell'indovina Manto c'è una lunga digressione sulle origini di Mantova.

1. Incipit


Canto XX, dove si tratta de l'indovini e sortilegi e de l'incantatori, e de l'origine di Mantova, di che trattare diede cagione Manto incantatrice; e di loro pene e miseria e de la condizione loro misera, ne la quarta bolgia, in persona di Michele di Scozia e di più altri.

2. Analisi del canto
2. 1. Gli indovini - versi 1-30


Dante inizia col dire che deve dare forma ai versi per queste nuove pene dei dannati (i sommersi) che sono la materia del ventesimo canto della prima canzone: sappiamo così che l'Alighieri stesso usava questi termini "musicali" per iindicare rispettivamente i capitoli e i libri della sua "Comedìa". "Canto" si è mantenuto anche nei commentatori (è usato anche dai traduttori anglosassoni, per esempio), mentre la "canzone" oggi si indica generalmente come "cantica".

Dante e Virgilio stanno percorrendo le Malebolge, ovvero quei 10 fossati, simili a quelli dei castelli medievali, nei quali sono punite le varie categorie dei fraudolenti, cioè coloro che tradirono il prossimo che sarebbe stato portato a non fidarsi ( a differenza dei traditori veri e propri che ingannarono chi di loro si fidava per parentela, amicizia o altri legami sociali).

Il poeta pellegrino si affaccia quindi alla nuova bolgia dal ponticello che sta attraversando, e la vede bagnata del pianto dei dannati. Nota la gente che silenziosa e piangente va al passo delle processioni (delle "letane") per il "vallon tondo".

Solo dopo aver guardato meglio si accorge che ognuno ha il collo ("tra 'l mento e 'l principio del casso", del busto cioè) e il viso girati dalla parte delle reni. Essi devono quindi camminare all'indietro perché non possono guardare avanti: Dante dice che forse alcuni casi di paralisi ("parlasìa") possono provocare tali danni, ma lui non ha mai assistito a casi simili e non crede che sia possibile. Rivolgendosi direttamente al lettore, ci dice come una tale visione del nostro corpo umano tanto mostruosa fosse tale da non permettergli di tenere gli occhi asciutti, così piange per pietà verso questi esseri sfregiati, il cui pianto gocciola giù nella fessura tra le natiche, immagine grottesca e umiliante.

Virgilio riprende severamente Dante che sta lacrimando appoggiato a una roccia ("a un de' rocchi") e gli dà dello sciocco. La pietà qui all'Inferno è morta, non serve disperarsi per i dannati. Il senso dei due versi successivi è ambiguo, in particolare sul significato da dare a "passion".

« Chi è più scellerato che colui che al giudicio divin passion comporta? »
(vv. 29-30)

Le due possibili letture sono:

1.Chi è più scellerato di colui che ha pietà per coloro che sono condannati dal giudizio divino?
2.Chi è più scellerato di colui che cerca di piegare (portare passione) il giudizio divino (sottinteso con magie e artifici)?
La maggiore frequenza con la quale si incontra passione nel senso di pietà nell'italiano antico fa propendere più commentatori per la prima ipotesi, anche se la seconda si addice meglio ai versi seguenti nei quali Virgilio inizia una carrellata sui peccatori.

2. 2. Anfiarao; Tiresia; Arunte - vv. 31-51

Virgilio invita dunque il suo discepolo a drizzare la testa (ripetuto due volte) per guardare chi sono quei dannati.

Il primo che viene indicato è Anfiarao, uno dei sette re di Tebe narrati da Stazio nella Thebais (un altro incontrato nel Canto XIV è Capaneo), che prevedendo la propria morte si nascose prima dell'assedio di Tebe. Egli però venne scovato e convinto a partire in battaglia, dove fu sconfitto e costretto alla fuga. Per impedire che venisse ucciso dai Tebani, Giove gli aprì la terra sotto i piedi, facendolo precipitare col suo carro direttamente al cospetto di Minosse: "s'aperse a li occhi d'i Teban la terra; / per ch'ei gridavan tutti: "Dove rui, / Anfïarao? perché lasci la guerra?" / E non restò di ruinare a valle / fino a Minòs che ciascheduno afferra." (vv. 32-36). Quindi Dante ne fa una descrizione fisica dove viene anche spiegato esplicitamente il contrappasso degli indovini: egli ha le spalle al posto del petto "perché volse veder troppo davante" (v. 37) e per questo ora è condannato a guardare solo indietro.

Passando al successivo, Virgilio indica Tiresia, il mago che "di maschio femmina divenne, / cangiandosi le membra tutte quante" (vv. 41-42) per aver separato due serpenti in accoppiamento e poté riprendere le sembianze maschili solo ripercuotendoli con la stessa verga. Non è chiaro perché Dante nella lunga leggenda di Tiresia citi solo la parte dei serpentelli nell'episodio di transessualità, senza per esempio alludere affatto alla diatriba tra Giove e Giunone che Tiresia seppe dirimere dando ragione a Giove (la questione era su quale dei due sessi godesse di più nel coito e venendo accecato per vendetta da Giunone. Da questo episodio il Re degli Dei gli concesse allora l'occhio interno che gli permetteva di vedere nel futuro. Forse a Dante interessava solo citare il manipolamento delle cose naturale di questi "maghi".

Segue quindi la descrizione di Arunte, leggendario indovino etrusco attinto dalla Pharsalia di Lucano, dove egli predice la vittoria di Cesare. Virgilio lo descrive come quello che ha il ventre come terga e che ebbe la sua dimora in una spelonca nei monti di Luni tra i marmi bianchi, sopra ai carraresi che usano la ronca o roncola (per dissodare la terra o disboscare) e lì vivono; ivi poteva guardare pienamente sia le stelle che il mare. In realtà in Lucano Arunte è citato come di Lucca (Lucae) per cui Dante si è forse confuso oppure possedeva un codice inesatto.

2. 3. Manto e le origini di Mantova - vv. 52-102

La prossima indovina è una delle rare peccatrici collocate nell'Inferno, oltre alle morte d'amore nel girone dei lussuriosi e a Taide. Si tratta di Manto e, anche in questo caso, Virgilio inizia a descriverla dall'aspetto fisico: è quella che ha le mammelle sul dietro (per questo Dante non può vederle) coperte dalle trecce, dove ha anche il pube "piloso". Manto è la figlia di Tiresia ed è ricordata da Virgilio, Orazio e Stazio. Si dice che vagò per molte terre, infatti la sua leggenda nella Thebais di Stazio racconta come ella dopo la morte del padre a Tebe ("la città di Bacco") per sfuggire alla tirannia di Creonte, abbia vagato lungamente, prima di fermarsi presso il lago del Mincio, dove sorse Mantova che proprio da lei prenderebbe il proprio nome.

Virgilio coglie l'occasione a questo punto per parlare un po' di "là dove nacqu'io", e lo fa con una lunga digressione di quattordici terzine.

Inizia una precisa descrizione geografica: In Italia c'è un lago chiamato Benaco (il Lago di Garda nel suo nome più antico) ai piedi delle Alpi che chiudono la Germania ("Lamania") con il Tirolo ("Tiralli"); da mille fonti arriva l'acqua che vi stagna tra Garda, la Val Camonica e le Alpi Pennine; al centro di esso c'è un punto che se potessero arrivarci il vescovo di Trento, quello di Brescia e quello di Verona essi avrebbero pari autorità (in effetti esiste un'isola sulla quale le tre diocesi hanno pari autorità, l'Isola di Garda, anche se qui la presenza del verbo condizionale indica forse un punto ideale, per dire quali città hanno giurisdizione sui tre lati).

Vi si affaccia Peschiera, bel fortilizio pronto a fronteggiare i bresciani e i bergamaschi (sottinteso da parte dei veronesi) nel punto dove le acque traboccano e si fanno fiume emissario, il Mincio, che sfocia nel Po presso Governolo (frazione di Roncoferraro, MN).

Il Mincio, quindi, non scorre molto prima di incontrare una "lama", una depressione, dove si impaluda e solo d'estate si inaridisce.

Qui Manto, la vergine "cruda", cioè restia alle nozze (tale termine era stato usato anche per la maga Erichto in Inferno IX,23, ma nel senso di crudele), trovò la terra nel mezzo del pantano disabitata e incolta e vi si stabilì con i suoi servi praticandovi le sue arti finché visse, dopo di che vi lasciò il proprio corpo vuoto. Solo più tardi si raccolsero uomini in quel luogo per il pantano che proteggeva da tutte le parti costruendo una città sopra quelle ossa sepolte e chiamandola Mantova in onore della maga, ma senza altri sortilegi (come in altre città si narra succedesse per trovare un nome e una data di fondazione propizi).

Da allora la popolazione crebbe fino a quando Alberto da Casalodi, guelfo, fu ingannato da Pinamonte dei Bonacolsi, ghibellino, che approofittando della sua stoltezza ("mattia", v. 95), lo convinse ad esiliare molte famiglie nobili, privandolo così di chi avrebbe potuto sostenerlo contro i popolani. Messosi poi a capo di questi, Pinamonte cacciò da Mantova Alberto e le restanti famiglie nobili, molte delle quali furono sterminate, causando lo spopolamento duecentesco della città.

Virgilio termina la parentesi attestando che questa è la verità, e che se Dante venisse a conoscenza di altre versioni, esse sono menzogne che frodano la realtà. È curioso come Dante voglia ribadire fermamente le origini non-magiche di Mantova, smentendo varie versioni leggendarie, tra le quali una di Virgilio stesso (che in Eneide X 198 la riferiva fondata dal figlio di Manto, Ocno, quindi si smentisce da solo e certo i rapporti tra pellegrino e maestro non avrebbero permesso una lezione da parte di Dante-personaggio), oltre a quelle di Servio o di Isisdoro da Siviglia che la volevano fondata da Manto stessa o da altri persongaggi mitologici. Inoltre così Dante fa rivendicare a Virgilio la purezza del suo sangue lombardo e alleggerisce la sua figura da quella del "Virgilio-mago" tanto popolare nel Medioevo.

Si noti che Manto è citata anche in Purgatorio (Purgatorio XXII,113) quando Virgilio, parlando con Stazio, nomina altre anime del Limbo oltre quelle elencate nel quarto Canto indicando anche la "figlia di Tiresia". O Dante si è confuso (e forse aveva scritto il canto del Purgatorio prima di questo dell'Inferno, scordandosi il veloce accenno, essendo piuttosto improbabile che al contrario scrivendo il Purgatorio si scordasse di questo lungo passo su Manto) oppure egli si riferisce a qualche altro personaggio citando magari una fonte a noi sconosciuta. Francesco Torraca, pensando a un errore dei copisti, suppone che Dante scrivesse: "la figlia di Nereo, Teti," e che quindi in Purgatorio XXII,113 si parlasse della sola Teti, madre di Achille.

2. 4. Altri indovini - vv. 103-130

Bolgia degli indovini, Priamo della Quercia (XV secolo)

Dante chiede allora di presentare altri dannati, e Virgilio ricomincia la carrellata da dove l'ha interrotta. Un dannato la cui barba ricade sulle spalle è l'augure che quando tutti gli uomini lasciarono la Grecia, lasciando solo i maschietti nelle culle (l'allusione è alla Guerra di Troia) egli indicò il momento propizio ("diede 'l punto") con Calcante per quando salpare dall'Aulide: si chiama Euripilo e Dante dovrebbe ben conoscerlo, lui che conosce a menadito l'"alta tragedia" virgiliana dell'Eneide ("Così 'l canta / l'alta mia tragedìa in alcun loco: / ben lo sai tu che la sai tutta quanta.", vv. 112-114). In realtà anche qui Dante commette un errore, e siamo al terzo in questo canto, oltre a quello di Luni/Lucca e quello della doppia citazione di Manto. Nell'Eneide Euripilo infatti non è affatto un augure, un indovino, ma egli è solo colui che riporta ai Greci il responso dell'Oracolo di Apollo.

Infine Virgilio nomina tre maghi contemporanei: Michele Scotto (cioè "scozzese"), italianizzazione di Michael Scotus, astrologo di Federico II qui accusato di "magiche frodi" e descritto come colui che "nei fianchi è cosí poco", Guido Bonatti e il calzolaio Asdente, che nell'Inferno si pente di non essere rimasto sullo spago e sul cuoio (invece di dedicarsi alla magia).

Chiude la carrellata un accenno alle fattucchiere, le donne che "lasciaron l'ago, / la spuola e 'l fuso, e fecersi 'ndivine; / fecer malie con erbe e con imago" (vv. 121-123). Ai tempi di Dante la stregoneria era già perseguitata e risale al 1298 il primo processo a una strega a Firenze, addirittura al 1250 il primo assoluto in Toscana.

Il canto termina con un accenno temporale: la Luna (indicata come Caino con il fascio di spine, secondo la fantasiosa interpretazione delle macchie lunari medievale) è all'orizzonte ('"'l confine d'amendue li esmisperi") e sta per tramontare sotto Siviglia (Sobilia). In pratica sono le sei del mattino e Virgilio ricorda anche come la luna fosse piena il giorno prima, ma ciò non giovò a Dante nella selva oscura.

«Sì mi parlava, e andavamo introcque».
(v. 130)


E mentre parlavano andavano "introcque", termine dialettale già dispregiato nel De Vulgari Eloquentia dal latino inter hoc (nel frattempo), che suggella con un linguaggio da repertorio comico il canto, forse volendo presagire il tono del prossimo episodio con i diavoli.

3. Dante e la magia

In questo canto il contrappasso è tagliato sulla figura degli indovini, coloro che, come spiega lo stesso Dante, "vollero veder troppo avante" e ora sono costretti a guardare solo indietro. Essi sono tra i fraudolenti per aver messo in atto delle mistificazioni oggetto di colpa in due sensi. La prima è quella di aver adulterato l'ordine divino tramite il loro operato, sconvolgendo e influenzando cose concepite in natura come inintelligibili: tale colpa si applica ai "veri" indovini, almeno quelli dell'antichità mitologica. La seconda colpa è quella dei "falsi" indovini, che giustificarono con la menzogna le azioni dei potenti, proclamandole come prescritte dal volere divino. Dante ribadì questa seconda accusa anche in un'epistola diretta ai cardinali italiani del 1314.

Per quanto riguarda i "maghi", coloro che artigianalmente esercitavano poteri occulti, la sua unica menzione in questo canto è quella breve e generica nei confronti delle fattucchiere, che non sembrano turbarlo troppo, a differenza di Tommaso D'Aquino e degli scolastici che collegavano direttamente e inequivocabilmente la pratica magica alla concupiscenza con il demonio (teoria che, attraverso la Santa Inquisizione, è giunta fino ad oggi nel sentire comune cristiano).

Per quanto riguarda l'astrologia poi Dante parrebbe proprio che vi credesse. Egli stesso cita spesso le costellazioni, conosce il suo segno zodiacale, Gemelli, e loda apertamente questa "arte liberale" nel Convivio), sebbene ne avesse una percezione sicuramente diversa da quella attuale. Egli la indicava come la più alta e ardua delle attività liberali umane sia per la "nobilitade del suo subietto" che per "la sua certezza". Egli credeva che gli astri influenzassero l'uomo (e le varie sfere celesti avranno vari significati ben specifici nel Paradiso), come anche le stagioni e il tempo, per questo lo studio astronomico-astrologico era considerato importante e utile. In effetti l'unico astrologo dell'Inferno, Michele Scotto incontrato in questo canto, viene accusato non per le sue pratiche, ma per il loro utilizzo fraudolento ("veramente de le magiche frode seppe il gioco"). L'utilizzo dell'astrologia per prevedere il futuro inoltre andrebbe anche contro il valore del libero arbitrio umano.

Edited by demon quaid - 30/12/2015, 16:07
 
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In questo canto il contrappasso è tagliato sulla figura degli indovini, coloro che, come spiega lo stesso Dante, "vollero veder troppo avante" e ora sono costretti a guardare solo indietro. Essi sono tra i fraudolenti per aver messo in atto delle mistificazioni oggetto di colpa in due sensi. La prima è quella di aver adulterato l'ordine divino tramite il loro operato, sconvolgendo e influenzando cose concepite in natura come inintelligibili: tale colpa si applica ai "veri" indovini, almeno quelli dell'antichità mitologica. La seconda colpa è quella dei "falsi" indovini, che giustificarono con la menzogna le azioni dei potenti, proclamandole come prescritte dal volere divino. Dante ribadì questa seconda accusa anche in un'epistola diretta ai cardinali italiani del 1314.

Per quanto riguarda i "maghi", coloro che artigianalmente esercitavano poteri occulti, la sua unica menzione in questo canto è quella breve e generica nei confronti delle fattucchiere, che non sembrano turbarlo troppo, a differenza di Tommaso D'Aquino e degli scolastici che collegavano direttamente e inequivocabilmente la pratica magica alla concupiscenza con il demonio (teoria che, attraverso la Santa Inquisizione, è giunta fino ad oggi nel sentire comune cristiano).

Per quanto riguarda l'astrologia poi Dante parrebbe proprio che vi credesse. Egli stesso cita spesso le costellazioni, conosce il suo segno zodiacale, Gemelli, e loda apertamente questa "arte liberale" nel Convivio), sebbene ne avesse una percezione sicuramente diversa da quella attuale. Egli la indicava come la più alta e ardua delle attività liberali umane sia per la "nobilitade del suo subietto" che per "la sua certezza". Egli credeva che gli astri influenzassero l'uomo (e le varie sfere celesti avranno vari significati ben specifici nel Paradiso), come anche le stagioni e il tempo, per questo lo studio astronomico-astrologico era considerato importante e utile. In effetti l'unico astrologo dell'Inferno, Michele Scotto incontrato in questo canto, viene accusato non per le sue pratiche, ma per il loro utilizzo fraudolento ("veramente de le magiche frode seppe il gioco"). L'utilizzo dell'astrologia per prevedere il futuro inoltre andrebbe anche contro il valore del libero arbitrio umano.

Edited by demon quaid - 12/12/2015, 22:46
 
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Quinta Bolgia



giovanni_stradano_malebranche



Il canto ventunesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella quinta bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti i malversatori; siamo nel mattino del 9 aprile 1300, o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300 (Sabato Santo).

E volser contra lui tutt'i runcigli; ma el gridò: «Nessun di voi sia fello!» (XXI, vv. 71-72).

1. Incipit
Canto XXI, il quale tratta de le pene ne le quali sono puniti coloro che commisero baratteria, nel quale vizio abbomina li lucchesi; e qui tratta di dieci demoni, ministri a l'offizio di questo luogo; e cogliesi qui il tempo che fue compilata per Dante questa opera.

2. Analisi del canto
2. 1. La bolgia dei barattieri - versi 1-22
Continuando a parlare di cose che non riporta la «Comedía», Dante e Virgilio arrivano sul culmine («il colmo») del ponte che da sulla quinta bolgia, e guardando giù Dante la vede «mirabilmente oscura». In fondo bolle una nera pece e per descriverla Dante inizia una lunga similitudine con quella che d'inverno viene fatta bollire all'Arsenale di Venezia: l'inverno era infatti tempo di manutenzione delle navi e Dante si dilunga descrivendo con minuzia le attività degli operai navali: quando non si può navigare c'è chi costruisce nuove barche, chi tura con la stoppa le falle, chi ribatte la prua e chi la poppa, chi fabbrica remi e chi sartie, chi rattoppa il terzeruolo e chi l'artimone (due tipi di vele)... e Dante descrive con tale vivida minuzia il quadro che sembra di vederselo davanti, con una tale conoscenza anche di termini tecnici che alcuni hanno ipotizzato che Dante fosse veramente stato a Venezia a vedere i cantieri navali, teoria però che non trova riscontri nella cronologia della biografia del poeta.

Dante sta quindi guardando la pece che ribolle, ma qui all'Inferno non lo fa per via del fuoco che la riscalda ma «per divin arte», e invischia dappertutto le due rive. Dante è un po' sorpreso di non vedervi nessun dannato, ma solo bolle.

2. 2. Arrivo di un peccatore - vv. 22-57

Canto XXI, Priamo della Quercia (XV secolo)
Mentre il poeta è così preso dall'osservazione non si accorge di una nera ombra che gli si avvicina alle spalle. «Guarda, guarda!» ammonisce Virgilio, e Dante si gira, ma «come l'uom cui tarda / di veder quel che li convien fuggire» egli rimane ghiacciato dalla paura del pericolo ormai troppo vicino (da notare la suspence finché il pericolo non viene esplicitamente descritto). Si tratta di un «diavol nero», che dietro ai due poeti sta risalendo il ponte di corsa ad ali spiegate. Porta sulle spalle, sull'«omero arguto e superbo» un peccatore piegato in due e con un uncino gli attraversa il «nerbo», il garretto, come si fa con la selvaggina. Dante ha paura ma non sviene. Come in una farsa il diavolo non si cura minimamente dei due pellegrini e inizia a vociare: (parafrasi) "Oh Malebranche, ecco uno degli anziani (cioè dei priori) di Santa Zita (Lucca, città devota alla santa)! Mettetelo sotto, che io torno in quella città che è ben fornita di questi peccatori: lì sono tutti barattieri, tranne Bonturo eh! (frase ironica, Bonturo Dati era rinomatamente il più corrotto di tutta Lucca), lì il no con il denaro si fa diventare ita, (cioè passata, una deliberazione ecc.)".

Nella pece sono puniti quindi i barattieri, che nel lessico giuridico del Medioevo indicavano generalmente gli imbroglioni che arraffavano denaro sottobanco o ottenevano altri vantaggi con la furbizia e quindi, più nello specifico, anche i concussori o magistrati corrotti. Il contrappasso è piuttosto generico e consiste nel fatto che come in vita essi agirono al coperto, adesso sono immersi nel buio nero della pece (come sintetizzato al verso 54). I diavoli, verrà detto presto, hanno il compito di uncinare chi tenta di uscire anche solo per affacciarsi, un po' come fanno gli sguatteri dei cuochi quando spingono giù le pietanze che affiorano da una pentola che bolle (similitudine ai versi 55-57). Essi non sono interpretabili secondo un contrappasso preciso, ma la loro presenza innescherà un episodio tra il faceto e il grottesco che avrà come tema principale quello della furberia e che verrà sviluppato anche nei prossimi due canti.

Il diavolo quindi scarica il suo carico e riparte indietro verso una roccia, più veloce di un mastino che insegua un ladro («lo furo»). Inizia qui la lunga e prolifica serie di similitudini animalesche che Dante usa continuamente in questa bolgia: sono dovute sia alla bestialità di questi dannati, sia a sottolineare lo stile comico delle scene che il poeta si appresta a mettere su, dalla struttura in tutto e per tutto simile a quella delle commedie popolaresche da palcoscenico.

Il dannato, secondo studi d'archivio sulla data di morte di un membro del consiglio degli anziani lucchese nel periodo pasquale del 1300, sarebbe Martino Bottario.

Dopo essere stato tuffato nella pece dal diavolo nella pece egli «torn[a] sù convolto», sconvolto (o "piegato", secondo l'italiano antico) dal bollore e grondante di pece. Allora i diavoli, nascosti sotto il ponte, iniziano a prenderlo in giro beffardamente con ironia malvagia: «Qui non ha loco il Santo Volto!» (parafrasi: "Eh no, qui non c'è il Volto Santo di Lucca!") che si può intendere sia come se il dannato fosse tornato su per pregare la santa reliquia del Duomo di Lucca, sia, in maniera più blasfema che ben si addice al linguaggio dei diavoli, come il dannato tutto nero si sia drizzato a mo' del Volto Santo, che è appunto un Cristo di legno nero; seguitano poi "qui non si nuota come nel Serchio! Se non vuoi i nostri graffi non venire a galla, non fare da coperchio alla pece!" e mentre l'"addentano" con cento uncini («raffi») contuinuano con il loro comico sarcasmo: "Qui conviene ballare al coperto, così come hai arraffato nascostamente".

2. 3. Colloquio tra Virgilio e Malacoda - vv. 58-114

Virgilio e i diavoli nascosti sotto il ponte, illustrazione di Bartolomeo Pinelli
È il momento di "entrare in scena" per i due poeti. Virgilio fa nascondere Dante «acquattato» dietro a una roccia («scheggio», da notare la scelta di questi termini di estrazione più popolaresca e vernacolare) e di non preccuparsi per lui: non gli accadrà niente perché conosce la strada e l'ha già fatta (Dante ha immaginato che Virgilio avesse già disceso l'Inferno poco dopo la sua morte, episodio narato in Inf. IX, 22). Virgilio attraversa quindi il ponte e arrivando sul sesto argine (che divide la quinta bolgia dalla sesta) sta con la fronte alta come ostentando sicurezza (anche qui un elemento farsesco). Come i cani che si avventano contro un poverello che chieda l'elemosina e quello sia costretto a arrestarsi e chiederla lì dove si trova, così Virgilio si trova circondato dai diavoli usciti da sotto il ponte che «volser contra lui tutt'i runcigli». Virgilio però grida: «Nessun di voi sia fello [malvagio]!» fermandoli. Continua poi chiedendo di poter parlare prima di essere semmai afferrato, al che i diavoli chiamano in coro «Vada Malacoda!». Malacoda è un po' il capitano di questa "truppa" di diavoli (che presto daranno luogo a una parodia militaresca) e si presenta a Virgilio dicendo «Che li approda?», "A che pro?". Virgilio, chiamando il diavolo per nome, gli spiega che se sono giunti fin laggiù, al sicuro da tutti gli "schermi" (ostacoli) infernali, come può egli credere che non sia stato per «voler divino e fato destro»? Variando un po' sul tema del vuolsi così colà dove si puote, Virgilio stupisce il diavolo con la sua missione divina e Malacoda con un gesto plateale fa cadere l'uncino sbalordito e si raccomanda agli altri diavoli che essi non feriscano i due. Virgilio chiama Dante, che sgattaiola dal suo nascondiglio e si affretta a raggiungere il suo maestro. I diavoli gli si stringono allora attorno con sembianza «non buona» (efficace litote) e il poeta assimila sé stesso ai fanti pisani della Rocca di Caprona quando, dopo la resa del 6 agosto 1289, uscirono sfilando accanto ai nemici minacciosi; si tratta di un episodio secondario della Battaglia di Campaldino al quale Dante afferma di aver personalmente assistito.

Due diavoli "semplici" della truppa allora continuano a guardare Dante malignamente, che è appoggiato alle spalle di Virgilio, e parlano tra di loro facendo finta che Dante non li senta: «Vuo' che 'l tocchi [con l'uncino] in sul groppone?»; «Sì, fa che gliel'accocchi.» (da notare il linguaggio comicamente sguaiato dei due). Malacoda, che li ha adocchiati però si affretta a dire «Posa, posa Scarmiglione!». Questi diavoli sono minacciosi ma non c'è niente di spaventoso nelle loro azioni, Dante non è indignato o inorridito, ma è come un semplice attore che sa di non avere nulla da temere.

L'attenzione torna sul dialogo di Malacoda con Virgilio: (parafrasi) "Non si può andare oltre questo argine, perché giace spezzato sul fondo della bolgia. Ma se seguitate a camminare su questa roccia più avanti c'è un altro ponte. Proprio ieri, cinque ore prima di adesso, la via crollata ha compiuto mille e duecento sessanta sei anni". Notevolissimo è il senso grottescamente ridicolo che Dante è riuscito a rendere con la sua poesia in questo dialogo: in tutto l'Inferno bene o male tutti vari guardiani e esseri diabolici hanno ceduto il passo, ma nessuno si è messo a dare informazioni "turistiche" ai due pellegrini tranne questo "povero diavolo"; inoltre il suo preciso riferimento orario ricorda la gag di un comico che con disinteresse snocciola un dato così esatto che sembra che non abbia pensato ad altro che a calcolarlo negli ultimi mille anni. Il riferimento comunque è prezioso per datare l'epoca immaginata del viaggio ultraterreno: se Cristo si riteneva morto nell'anno 34 a mezzogiorno, quindi sommando si ottiene le 7.00 di mattina del sabato santo del 1300. Non è chiaro però se Dante considerasse in maniera "mobile" o fissa la Pasqua: se prendeva come data fissa del 25 marzo (ritenuto il giorno "storico" della Crocifissione) o il Sabato Santo di quell'anno che cadde l'8 aprile; inoltre Dante, come scritto anche nel Convivio riteneva Gesù morto a mezzogiorno, mentre i Vangeli di Marco e di Matteo indicavano le 15.00, ma non ci sono elementi per capire se Dante avesse cambiato idea, dopotutto nel contesto degli elementi orari della Commedia si addice meglio la prima ipotesi.

2. 4. La pattuglia dei diavoli - vv. 115-139

Diavoli medievali, Andrea di Bonaiuto, dettaglio degli affreschi nel Cappellone degli Spagnoli (1365 circa), Santa Maria Novella, Firenze
Malacoda prosegue mandando una truppa di dieci diavoli, incaricata di controllare che i dannati non escano dalla pece, e decide di far loro accompagnare i due pellegrini, rassicurandoli che «non saranno rei». Inizia allora a chiamare i diavoli uno ad uno:

« "Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina",

cominciò elli a dire, "e tu, Cagnazzo; e Barbariccia guidi la decina.

Libicocco vegn'oltre e Draghignazzo,
Cirïatto sannuto e Graffiacane

e Farfarello e Rubicante pazzo. »

(vv. 118-123)

Questo pittoresco corteo, che si può solo immaginare dai nomi e dai vari aggettivi che Malacoda attribuisce ai diavoli, si sistema quindi a mo' di truppa militare in procinto di partire. Ma Dante è un po' turbato da questa scorta non richiesta e temendo da loro qualche brutta sorpresa se ne lamenta con Virgilio di nascosto: (parafrasi) "Maestro, ma che vuol dire questo? Tu la strada la sai, perché non andiamo da soli? Io la scorta non la chiedo... non vedi come digrignano i denti e come si strizzano l'un l'altro le ciglia minacciosi?". Dante ha infatti notato che i diavoli si intendono tra di loro: nel prossimo canto si scoprirà che Malacoda stava mentendo deliberatamente, e gli altri stavano al gioco, dopotutto questo è il girone dei "fraudolenti"; Virgilio però lo rassicura ingenuamente, dicendo che quelli sono segni che essi fanno per questioni che riguardano i dannati, non loro. Vedremo presto di nuovo (dopo l'episodio delle mura di Dite) come Virgilio-"personificazione della Ragione" a volte si faccia ingannare dalla "malizia", da bassezze così smaccate e volgari che per lui sono dopotutto inconcepibili.

I diavoli si mettono allora in plotone con la lingua pronta tra i denti per imitare il verso della partenza, aspettando il cenno del loro «duca», cioè della loro guida Barbariccia:

« ed elli avea del cul fatto trombetta »
(v. 139)

Si chiude con questo gesto sconcio, ma degnissimo della situazione, il primo atto della "commedia" infernale.

Il canto ventiduesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella quinta bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti i malversatori; siamo nel mattino del 9 aprile 1300, o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300 (Sabato Santo).

È strettamente legato al precedente, del quale costituisce il "secondo atto" della commedia dei diavoli della bolgia dei barattieri.

1. Incipit
«Canto XXII, nel quale abomina quelli di Sardigna e tratta alcuna cosa de la sagacitade de' barattieri in persona d'uno navarrese, e de' barattieri medesimi questo canta.»

2. Analisi del canto
2. 1. Diavoli e barattieri - versi 1-30

Anonimo pisano, Dante e Virgilio preceduti dai dieci demoni (1345)
Il canto inizia riallacciandosi direttamente al precedente e spiega con un'amplissima similitudine il suono del cul del diavolo fatto "trombetta". Dante vi richiama con dovizia di dettagli le proprie vicende biografiche, nelle quali ha avuto modo di vedere operazioni militari d'ogni tipo e tutti i segnali che le caratterizzano (la marcia, l'assalto, la rassegna, la ritirata, le sortite a cavallo, i tornei a squadra e in singolo mossi da suoni di trombe, campane, tamburi, segnali visivi dai castelli, cose all'italiana e cosa alla straniera, né pedoni, né navi che seguissero segnali di terra o le stelle), ma mai uno così strano come questo con cui i diavoli si mettono in marcia (cioè la scoreggia del loro comandante). Questa parentesi, dove Dante finge di essere un po' stupefatto e un po' saccente, è un chiaro esempio dello stile comico del brano dei barattieri: egli usa parole marziali e magniloquenti per metter su un divertissement basato sulla parodia.

Notevole è anche, all'inizio del canto, l'accumulazione di riferimenti militari che si riferiscono ad episodi autobiografici: Dante menziona la battaglia di Campaldino, che fu seguita dall'assedio di Caprona citato nel canto precedente; questa spedizione fiorentina del 1289 si tratta dell'unica esperienza militare che Dante ebbe (a quanto si sa).

Dante e Virgilio dunque stanno camminando in compagnia dei dieci demoni ("i Malebranche") lungo l'argine della bolgia, ma il pellegrino non è spaventato o inorridito (come per esempio sulla schiena di Gerione), anzi non gli viene in mente altro che un proverbio "ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni (cioè i furfanti)" (vv. 14-15), come a voler dire che a ogni luogo si conface una compagnia "in tema" e che essendo all'Inferno si deve rassegnare a passeggiare con i diavoli.

Come detto dal loro capo Malacoda, i demoni devono pattuggliare la pece bollente, per controllare che nessun dannato ne esca. Anche Dante guardando la pece vede i dannati che escono con la schiena, come i delfini, o con la faccia, come le ranocchie (da notare il continuo riferimento a similitudini animalesche, indice della bestialità di questi dannati - Dante era infatti particolarmente avverso ai peccati che riguardavano il denaro - e dello stile comico), le quali si affacciano dall'acqua sugli stagni, ma appena vedono un serpente si rituffano tutte. Così facevano i dannati, sempre pronti a beffarsi dei diavoli in un continuo gioco di astuzie e furberie contrapposte, diametralmente opposto, per esempio, all'episodio dei centauri (Canto XII), dove nessun dannato pare sognarsi minimamente l'idea di uscire dal sangue bollente del Flegetonte.

2. 2. Ciampolo di Navarra - vv. 31-90

Canto XXII, Priamo della Quercia, miniatura del XV secolo
I barattieri quindi appena vedono l'ombra dei diavoli si rituffano, ma uno di essi (e Dante nel ripensarci mentre scrive se ne raccapriccia ancora), sempre come talvolta fanno le rane, è troppo lento a re-immergersi e viene afferrato da Graffiacane, il diavolo più vicino, che lo prende per i capelli impegolati con l'uncino (con un gesto che oggi potrebbe ricordare quello degli spaghetti con la forchetta) e, tirandolo sù come una lontra (nero, lucido per la pece sgrondante) si appresta a scuoiarlo.

Dante, nella sua estrema precisione, premette che dei diavoli si ricorda già tutti i nomi per averli sentiti chiamare a uno a uno e per averli sentiti discorrere nella marcia fin lì. I diavoli stanno gridando "O Rubicante, fa che tu li metti li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!", ma Virgilio, su richiesta di Dante, chiede che prima il dannato dica chi sia presentandosi.

Egli risponde che è nativo della Navarra e che sua madre lo mise al servizio di un Signore, essendo suo padre già morto per aver distrutto sé e le sue cose (suicida e scialacquatore quindi); entrò poi nella famiglia (intesa qui come insieme dei servi) del re Tebaldo (Thibaut II di Navarra o Thibaut V di Champagne) presso di cui compie il peccato di baratteria per il quale è punito. I commentatori antichi diedero a questa figura il nome di Ciampòlo di Navarra (forse una contrazione di Giampaolo o del francese Jean Paul), ma le notizie storiche su di esso sono limitate al solo testo dantesco.

Canto 22, Giovanni Stradano, 1587
Ciriatto allora, il diavolo che somiglia a un porco nel nome e di fatto, fece sentire al dannato come una delle sue zanne, che gli uscivano ai due lati della bocca, ferisse, strusciandola però solamente ("sdruscia"). Dante non è impaurito, ma forse incuriosito da questo sorco finito tra male gatte. Barbariccia, che è il "sergente" di questa truppa, allora "il chiuse con le braccia": chi? Ciriatto o Ciampolo? Sembra più probabile il dannato; e qual è il gesto esattamente? Se dalla scena successiva sembra improbabile che lo tenesse abbracciato (egli infatti si divincolerà) forse allora si potrebbe intendere come egli si sia solo interposto tra i due per contenere i diavoli, magari allargando le braccia, essendo il verbo "chiudere" anche sinonimo di "recintare". Sempre Barbariccia dice poi"State in là, mentr'io lo 'nforco" cioè vorrebbe escludere gli altri diavoli dal piacere della tortura del dannato, anche se qualcuno ci ha letto "inforcare" quale "montare a cavallo" (inforcar li arcioni, come in Pd. VI, 99).

Dante e Virgilio sembrano però tifare una volta tanto per il dannato (una concessione del tutto straordinaria all'ineluttabilità del giudizio divino che commistiona le pene giuste ai dannati, in linea però con l'atipicità di questo brano), quindi gli rivolgono un'altra domanda ritardando il supplizio: "de li altri rii / conosci tu alcun che sia latino (qui sinonimo di italiano)/ sotto la pece?". Il dannato risponde che lì accanto a lui c'era fino a poco fa un "vicino" dell'Italia, un sardo, e che tanto vorrebbe tornare accanto a lui sotto la pece senza paura né di unghia né di uncino.

Nel ritmo incalzante dell'episodio, il discorso di Ciampòlo è di nuovo interrotto dai diavoli. Libicocco, che freme di impazienza per usare l'uncino profferisce laconicamente "Troppo avem sofferto!" e gli stacca un pezzo di braccio con l'arpione. Draghignazzo allora alla vista del sangue si esalta e si avventa sulle gambe del poveretto, ma basta un'occhiataccia del loro capo (il decurio) per fermarli. Le ferite però non sono orride e non danno dolore al malcapitato (si pensi per esempio il raccapriccio di Dante in altre occasioni come con gli scialacquatori o i seminatori di discordie per sottolineare anche qui il tono scanzonato e grottesco), il quale le guarda, ma riprende subito a parlare, spronato da Virgilio.

Il dannato di cui parlava poco fa è Frate Gomita, gallurese, ricettacolo (vasel) di ogni frode, che trattò i nemici del suo signore (suo donno, ricalcato sul sardo che usa come articolo determinativo "su") in maniera che ognuno ne ebbe profitto (lui e loro, intende: prese i soldi e li lasciò liberi; ma anche negli altri offici fu un barattiere, "non picciol, ma sovrano". Con lui c'è Michele Zanche del Logudoro, e le loro due lingue non si stancano mai di parlare della Sardegna.

2. 3. Inganno di Ciampolo e zuffa dei diavoli - vv. 91-151

Alichino insegue Ciampolo di Navarra, illustrazione di Gustave Doré

Inferno_Canto_22_verses_125_126



Al vedere i diavoli minacciarlo sempre più da vicino, Ciampolo si zittisce. Farfarello sta "stralunando" gli occhi e il gran proposto (un altro modo di indicare ancora Barbariccia, che è stato appunto proposto come capo dagli altri diavoli) lo scaccia: "Fatti 'n costà, malvagio uccello!". Ciampolo allora propone un patto di scambio: se essi (Dante e Virgilio) vogliono vedere altri loro compaesani Toscani e Lombardi, lui li può richiamare se i Malebranche staranno un poco in ritirata (in cesso), così che essi non temano le loro ombre; basterà che egli "suffoli" un segnale convenuto e parecchi (sette con valore indeterminato) usciranno fuori.

Al che Cagnazzo leva il muso e lo accusa di volerli ingannare per tornare nella pece, ma Ciampolo risponde di compiere l'inganno a danno degli altri dannati, adescando i diavoli. Alichino allora, in contrasto con gli altri diavoli, accetta per primo al sua proposta, minacciandolo di riafferrarlo se solo tenta di ributtarsi nella pece ("non ti verrò dietro di galoppo, / ma batterò sopra la pece l'ali" cioè con le mie ali sarò più veloce che un cavallo al galoppo). I diavoli allora convinti da Alichino arretrano appena dietro la riva, coperti anche dalla leggera pendenza delle Malebolge ed il primo a farlo è proprio Cagnazzo, quello che aveva manifestato perplessità, come a intendere il suo spazientimento per il gioco o l'ardimento dopo essere stato convinto: in ogni caso è un realistico particolare psicologico.

Tutti stanno ǵa guardare, ma il Navarrese, studiato il momento giusto, si acquatta e poi spicca il tuffo nella pece beffando tutti. Alichino spicca il salto per acciuffarlo, ma deve fare come il falcone che risale quando l'anatra si nasconde sotto l'acqua: "l'ali al sospetto non potero avanzar" cioè più rapida delle ali fu la paura. Tutti sono presi dai rimorsi, ma più di tutti alichino e dopo di lui Calcabrina, che aveva seguito il volo sperando che il dannato fuggisse per potersi azzuffare; infatti appena il barattiere sparisce egli rivolge i suoi artigli al compagno, che a sua volta risponde con artigliate da sparvier grifagno. Nella zuffa entrambi però rotolano nella pece bollente. Il caldo si rivela meraviglioso pacificatore perché i due si separano subito, ma non riescono a rialzarsi in volo con le ali tutte invischiate di pece, e devono essere afferrati dai compagni, pur essendo "già cotti dentro la crosta".

Approfittando della confusione, Dante e Virgilio se ne vanno.

Edited by demon quaid - 30/12/2015, 16:20
 
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Il canto ventitreesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella sesta bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti gli ipocriti; siamo nel mattino del 9 aprile 1300, o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300 (Sabato Santo).

Inferno_Canto_23_verses_92_94



Il canto chiude, dopo i due precedenti (XXI e XXII), l'episodio della bolgia dei barattieri, dove Dante e Virgilio assistono alle peripezie di un gruppo di diavoli (i Malebranche), assegnati loro malgrado come scorta non richiesta. L'episodio è caratterizzato da uno stile prettamente comico, con un ritmo veloce e numerosi personaggi, chiaro esempio della duttilità poetica di Dante. La seconda parte di questo canto poi è dedicata, con tutt'altro tono ed atmosfera, alla bolgia degli ipocriti, prima del finale a sorpresa che torna su uno stile più canzonatorio e chiude degnamente il brano dei diavoli della bolgia precedente.

1. Incipit
Canto XXIII, nel quale tratta de la divina vendetta contra l'ipocriti; del quale peccato sotto il vocabulo di due cittadini di Bologna abomina l'auttore li bolognesi, e li giudei sotto il nome d'Anna e di Caifas; e qui è la sesta bolgia.

2. Analisi del canto
2. 1. Fuga di Dante e Virgilio - versi 1-57

Gustave_Dore_Inferno23



Spavento e fuga (Canto XXIII, vv 52-54)

Il canto inizia con la figura dei due pellegrini che, dopo essere sgattaiolati dai diavoli in rissa alla fine del precedente canto, adesso camminano taciti, soli, sanza compagnia e in fila come Frati minori. Dante ci fa anche sapere cosa stesse pensando in quel momento di silenzio, cioè alla favola di Esopo (anche se si trattava di un'aggiunta medievale al Liber Esopi) della rana e del topo, che lui vedeva analoga alla vicenda dei diavoli quanto le parole mo' e issa (entrambe significanti "adesso", in dialetto fiorentino -oggi usato solo da Spoleto in giù- o in quello pisano/lucchese). La favola in questione parlava di una rana che accetta di portare sulla schiena un topolino per fargli traghettare uno stagno, ma dopo essersi legata la sua coda a una zampa cerca di affogarlo a metà del tragitto, se non chè un nibbio, attirato dal movimento del topo lo ghermisce catturando anche la rana che era legata; il significato è quindi quello di chi ha male intenzioni e rimane vittima della sua stessa malizia e può essere applicato all'episodio del canto precedente come il dannato Ciampolo di Navarra come rana e i diavoli come topolini, ma si potrebbe dire anche il contrario, con la pece quale "falco" che punisce tutti.

Ma come uno scoppio che ne porta un altro, il pensiero si rincorre nella testa di Dante, il quale adesso si è accorto che i diavoli potrebbero venire a vendicarsi su di essi, colpevoli dopotutto di avergli fatto sfuggire il dannato con le loro lunghe domande. La paura che essi stiano correndo loro dietro, come cane contro lepre, Dante la manifesta a Virgilio, il quale gli ha già letto nel pensiero con la velocità del "piombato vetro", cioè dello specchio, a riflettere le immagini. Appena Virgilio termina di suggerire che essi potrebbero scendere giù dall'argine nel prossimo fossato, ecco che già in lontananza si vedono arrivare i diavoli rapidi con le ali tese, al che egli immediatamente prende Dante con un gesto protettivo e materno e si butta giù dallo scosceso "portandosene me sovra 'l suo petto, / come suo figlio, non come compagno" (vv. 50-51). Dante mette su una vivida similitudine per descrivere la discesa in braccio al suo maestro, come farebbe una madre svegliata dal rumore di un incendio e prenderebbe il figlio per salvarlo "avendo più di lui che di sé cura", vestita di una sola camicia. La rapidità di Virgilio, che si è gettato giù supino con il discepolo in braccio, ricorda anche l'acqua che scende nelle incanalature di un mulino.

Appena i due toccano terra i diavoli arrivano in cima al colle dove si trovavano i due poeti poco fa, ma lì non sono di nessun pericolo perché l'essere destinati alla quinta bolgia dalla divina provvidenza toglie loro la facoltà di uscirne.

2. 2. La bolgia degli ipocriti - vv. 58-72


Gli ipocriti
Una volta discesi sul fondo l'atmosfera del canto cambia completamente e basta la prima terzina per segnare l'atmosfera di silenzio e dolore.

« Là giù trovammo una gente dipinta

che giva intorno assai con lenti passi,

piangendo e nel sembiante stanca e vinta. »

(vv. 58-60)


I dannati sono dipinti cioè coperti da un'abbagliante doratura, e se ne vanno con passi lentissimi piangendo, con un fare di chi è vinto dalla stanchezza (endiadi). Indossano delle ampie cappe da monaci, come hanno quelli di Cluny, che però all'interno sono foderate di pesantissimo piombo e sono così pese che quelle di Federico, in confronto, sembravano di paglia: un'allusione a una leggenda sull'efferatezza dell'Imperatore, messa su e diffusa dal partito guelfo, alla quale Dante credeva, ritenendo che egli fosse solito punire chi era colpevole di lesa maestà con una cappa di piombo prima di metterli su una caldaia infuocata. I dannati, "intenti al tristo pianto" camminavano così lenti che a ogni nuovo passo i due si ritrovavano a superare e affiancare già qualcuno di diverso. L'atmosfera di questo canto è stata definita talvolta come conventuale, infatti la bolgia viene definita ai versi 91-92 "collegio (parola che spesso indicava una comunità di frati degli ipocriti".

Il contrappasso di questi dannati (si scoprirà presto che sono gli ipocriti) consiste nell'analogia rispetto alla loro condotta in vita: all'esterno mostravano una splendida figura, covando nel loro interno il loro cupo pensiero reale. Può aver influenzato Dante anche l'etimologia che Uguccione della Faggiuola dà della parola ipocrita, cioè come formata dalle parole greche hypò, "sotto", e chrysòs, "oro" (in realtà dovrebbe derivare da hypocrités, "attore"). La visione che Dante aveva di questi peccatori era sicuramente influenzata anche dai vangeli, dove Gesù si scagliava con veemenza durante le sue predicazioni contro tale atteggiamento. L'ipocrisia è anche il tema dominante del Fiore, poemetto in endecasillabi da alcuni indicato come opera giovanile di Dante.

2. 3. I frati gaudenti: Catalano e Loderingo - vv. 73-108


Scuola toscana, miniatura della fine del XIV secolo
A questo punto Dante manifesta a Virgilio la volontà di parlare con qualcuno, riconoscendo magari qualche dannato, ma le sue sole parole bastano perché gli si rivolga uno che intende la lingua "tosca". Dante vede allora poco dietro di sé due che sembrano volersi affrettare nell'animo (con il corpo per essi è infatti impossibile) e che quando lo raggiungono lo fissano in silenzio. Parlando tra di sé poi notano come Dante sia vivo perché si move la sua gola, cioè respira, e gli chiedono chi sia. Dante, che non cita mai il suo nome, risponde brevemente: "I' fui nato e cresciuto / sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa" (vv. 94-95). Dopo aver chiesto chi sono i dannati e quale sia la pena che dal dolore li fa rigare tutte le guance, il primo risponde che il dolore è dovuto al peso del piombo delle cappe, che gli fa gemere come i pesi eccessivi fanno cigolare le bilance. Essi furono frati Gaudenti (della Milizia della Beata Vergine Maria) bolognesi, in particolare il parlatore è Catalano dei Malavolti e l'altro Loderingo degli Andalò, entrambi già inviati come pacieri a Firenze (nel 1226), impresa nella quale fallirono, come Dante ben sapeva guardando anche solo alla Torre del Gardingo, la principale torre degli Uberti ridotta in macerie al tempo della cacciata dei ghibellini (sempre nel 1266), che in tale miserevole stato ancora si trovava al tempo di Dante prima che fosse spianata l'odierna Piazza della Signoria.

2. 4. Caifas - vv. 109-126



Dante inizia allora un'orazione: "O frati, i vostri mali..." (non si sa quali toni intendesse dare al suo discorso, se deprecativo o misto di pietà o altro). Ma è bruscamente interrotto da una visione, un uomo crocifisso (o conficcato, a senso) al suolo con tre pali, che si distorce soffiando nella barba quando scopre di essere visto da Dante. Frate Catalano allora spiega che si tratta di colui che consigliò ai Farisei di sacrificare un solo uomo per evitare guai al popolo e che ora sta nudo sotto il passaggio di tutti gli altri dannati. Egli è quindi Caifa, il sommo sacerdote di Gerusalemme che fece giustiziare Gesù coprendosi con il pretesto da ipocrita di salvare il popolo sacrificando il fastidioso predicatore (pretesa che però da un punto di vista laico sembra tutt'altro che ipocrita, soprattutto se si pensa ai romani che non gradivano affatto i disordini).

Inoltre è tormentato allo stesso modo suo suocero Anna e gli altri farisei che presero parte a quel consiglio, che fu causa di sventura per gli ebrei (i Giudei).

Virgilio si meraviglia al vedere quel dannato in croce così vilmente e su questa meraviglia di Virgilio alcuni commentatori si sono sforzati di trarre un significato allegorico, mentre secondo altri è solo dovuta al fatto che durante il primo attraversamento dell'Inferno da parte del poeta latino (cfr. Inferno IX, 23-24) questi dannati non esistevano ancora, in quanto appartenenti all'era cristiana.

2. 5. Le menzogne del diavolo - vv. 127-148
Virgilio chiede allora al frate se ci sia un modo di uscire a destra da questa bolgia, perché a sinistra essi non possono tornare per via di essere ricercati da "li angeli neri", cioè i Malebranche; Catalano risponde allora che non lontano c'è un sasso che si è distaccato dal ponte che attraversava tutti i valloni di questo cerchio, essendo tutti i ponti su questa bolgia staccatisi e quindi non coperchiano cioè non la coprono in nessun punto. Virgilio resta un po' a testa china poi dice: "Mal contava la bisogna / colui che i peccator di qua uncina" (vv. 140-141), cioè ci raccontò male la cosa colui che uncina i peccatori di là (Malacoda).

A questo punto riappare l'atmosfera comica della precedente bolgia, dove Catalano rivela a Virgilio di essere stato imbrogliato arrivando a canzonarlo per la sua ingenuità: ""Io udi' già dire a Bologna / del diavol vizi assai, tra ' quali udì / ch'elli è bugiardo e padre di menzogna" (vv. 142-144), cioè che egli sentì dire nella dotta Bologna, che il diavolo è padre di menzogna, sottintendendo sarcasticamente che per sapere una banalità tale che non serve certo andare all'Università di Bologna.

Virgilio incassa il colpo in silenzio (importante è il significato allegorico della Ragione che si può far ingannare dalla frode, soprattutto quando questa è così grossolana e inutile) e se ne va a grandi passi con fare un po' irato, mentre Dante gli corre dietro, sulle care piante, cioè seguendo le sue impronte. Si chiude così con un finale a sorpresa, che fa ripensare sotto tutt'altra luce all'intero episodio, la commedia dei diavoli.

Edited by demon quaid - 30/12/2015, 16:26
 
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Settima Bolgia



Il canto ventiquattresimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella settima bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti i ladri; siamo nel mattino del 9 aprile 1300, o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300 (Sabato Santo).

1. Incipit
Canto XXIV, nel quale tratta de le pene che puniscono li furti, dove trattando de' ladroni sgrida contro a' Pistolesi sotto il vocabulo di Vanni Fucci, per la cui lingua antidice del tempo futuro; ed è la settima bolgia.

2. Analisi del canto
2. 1. L'argine della settima bolgia - versi 1-63

Priamo della Quercia (XV secolo)
Le prime cinque terzine di questo Canto sono tutte dedicate a una similitudine tra le più ampie del poema, che si ricollega direttamente al finale del canto precedente, dove Virgilio si è arrabbiato in silenzio per aver scoperto di essere stato beffato da un diavolo.

La similitudine inizia descrivendo il periodo dell'anno cominciato da poco ("giovanetto anno") nel quale, secondo un linguaggio metaforico, il sole tempra i raggi sotto l'Acquario (dal 21 gennaio al 21 febbraio) e le notti incominciano ad accorciarsi fino al momento in cui saranno ridotte alla metà della giornata (equinozio di primavera) ("e già le notti al mezzo dì sen vanno," - v. 3), quando la brina sulla terra fa immagine che copia ("assempra") la sua "sorella bianca", cioè la neve. Un pastorello ("villanello") che ha finito il foraggio per le pecore, alzandosi vede allora la campagna tutta coperta di bianco e si batte la mano sull'anca in segno di disperazione, lamentandosi e rientrando in casa come un derelitto che non sa che fare, ma quando ritorna a guardare la campagna ritrova la speranza (letteralmente "la speranza ringavagna", cioè rimette la speranza nel cesto) perché il mondo in quel frangente ha cambiato faccia, ed esce con le pecorelle a pascolare. Come avviene al pastorello, così il turbamento visto sulla fronte del maestro alla fine del canto precedente fa sbigottire Dante ("Così mi fece sbigottir lo mastro / quand'io li vidi sì turbar la fronte,", vv. 16-17), ma altrettanto rapidamente giunge il rimedio per il male (l'impiastro, metafora medica: "e così tosto al mal giunse lo 'mpiastro;", v. 18), perché, quando arrivano alle rovine del ponte crollato, Virgilio, rinfrancato da questa vista, torna a rivolgersi a lui con quella dolce espressione che gli aveva visto in volto quando lo incontrò per la prima volta nella "selva oscura", mentre tentava invano di salire il "dilettoso monte".

Inizia quindi la risalita lungo le rovine del ponte che sovrastava la quinta bolgia, con Virgilio che afferra Dante (gli dà "di piglio") e lo solleva verso la cima di una roccia, adocchiandone nel frattempo un'altra a cui Dante possa aggrapparsi, raccomandandogli di provare prima se essa è in grado di reggere il suo peso ("così, levando me sù ver' la cima / d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia / dicendo: "Sovra quella poi t'aggrappa; / ma tenta pria s'è tal ch'ella ti reggia".", v. 27-30). Non era certo una via, dice Dante, possibile per chi avesse addosso una cappa, volendo spiegare come quello non fosse un percorso che potesse permettere agli ipocriti di uscire dalla loro bolgia, perché a mala pena ce la facevano a salire di appiglio in appiglio ("di chiappa in chiappa"), Virgilio "lieve" (perché spirito) e Dante sospinto da lui. Fortunatamente le Malebolge digradano leggermente verso il pozzo centrale, per cui l'argine interno è sempre un po' più basso dell'altro, e alla fine i due poeti riescono a raggiungere l'ultima pietra in cima alle rovine del ponte crollato.

Arrivati in cima Dante ha il fiato corto e si siede sul primo masso che trova perché non ce la fa più ("i' non potea più oltre", v. 44), ma Virgilio subito riprende Dante e con solenni suggerimenti e incoraggiamenti lo incita a ricominciare subito la marcia.

Le parole di Virgilio sono famose per il loro rigore e importanza, anche se lette nel contesto della situazione suonano un po' troppo forti. Non bisogna comunque dimenticare il loro valore soprattutto simbolico, non legato cioè solo allo spiccio avvenimento di Dante che riprende fiato dopo una salita.

Egli dice al discepolo che sedendo sulle piume o sotto le coperte non si guadagna fama durante la vita; chi fa così sulla terra lascia la stessa traccia che fa il fumo nell'aria o la schiuma sull'acqua; quindi è bene che Dante si alzi e vinca "l'ambascia" (l'affanno, il fiato corto per l'ascesa appena compiuta), perché l'animo ha il potere di vincere ogni battaglia se il corpo pesante non si accascia; ben più lunga sarà la scala che li attende (sottinteso al Purgatorio) perché non basta separarsi dai dannati ("Più lunga scala convien che si saglia; / non basta da costoro esser partito.", vv. 55-56). Quest'ultima frase racchiude tutto il senso del viaggio simbolico nell'Inferno: Dante sta compiendo un percorso iniziatico verso il bene e la conoscenza del divino, ma prima di tutto egli deve avere la consapevolezza di tutti i peccati (l'espiazione, compiuta attraverso l'Inferno), poi compiere un percorso di purificazione attraverso il Purgatorio, perché il solo conoscere il male e evitare di usarlo non è sufficiente per la beatitudine. Sebbene l'opinione più diffusa circa la "più lunga scala" sia quella appena riportata, Manfredi Porena fa notare che la salita più faticosa che Dante dovrà fare non è quella del Purgatorio. Si vedrà infatti che sulla spiaggia della montagna, ad anime giunte allora, Virgilio dirà che essi due son giunti colà per via così "aspra e forte" che ormai il salire su per la montagna sarà un gioco (Purgatorio II, vv. 64-66); e la via di cui qui parla è quella che hanno risalito dal centro della Terra all'isola del Purgatorio: questa dev'esser dunque la "più lunga scala" a cui Virgilio accenna qui. E il v. 56 significherà: «non basta partirsi da questi peccatori qui; dovrai partirti addirittura da tutto l'Inferno»[1].

Dante allora salta in piedi convinto, mostrando più lena di quella che si sente addosso, dicendo "Va, ch'i' son forte e ardito" (v. 60). I due allora trovano il nuovo ponte sulla bolgia successiva, che è più irto di rocce (ronchioso), stretto e malagevole di quelli passati finora.

2. 2. La bolgia dei ladri - vv. 64-96

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Mentre Dante sta ancora parlando per nascondere la sua stanchezza, i due poeti sono nel frattempo saliti sul ponte sulla bolgia successiva, la settima, e Dante sente una voce "a parole formar disconvenevole" (v. 66), cioè non adatta a formar parole, che, pur non capendo cosa dica, gli sembra molto arrabbiata: il poeta si sporge dal dosso dell'arco del ponte per guardare giù, ma per il buio non riesce a vedere niente, quindi propone a Virgilio di proseguire fino all'argine più interno ("l'altro cinghio") e di scendere dal ponte sull'argine stesso, al che il poeta acconsente con una perifrasi retorica (in parafrasi: "Altro non ti rispondo se non con l'agire, perché a una domanda onesta si deve rispondere tacendo ed eseguendo l'opera richiesta").

Essi scendono dunque dalla testata del ponte, dove questa si congiunge con l'ottavo argine ("ottava ripa"), e Dante vede uno scenario raccapricciante che, a differenza della dolente staticità del precedente, è dominato da un frenetico movimento, causato dalla "terribile stipa" di serpenti (in realtà si scopre presto che sono piuttosto rettili vari), di diversa specie ("diversa mena"), la cui memoria guasta ("scipa") ancora il sangue a Dante (come si vedrà nel canto successivo, queste stesse serpi che l'hanno inorridito diverranno per lui "serpi amiche").

E Dante attacca citando abbastanza fedelmente La Pharsalia di Lucano: vi erano chelidri (che Lucano, non Dante, descrive come striscianti su una scia di fumo), iaculi (che volano come giavellotti), faree (che strisciano contorcendosi con la testa eretta), cencri (con il ventre punteggiato, che strisciano dritti) e anfisbene (che hanno due teste, una per estremità). Libia (intesa genericamente come deserto del Sahara), Etiopia e Arabia (ciò che sta sopra al Mar Rosso) non possono vantare altrettanta ricchezza di serpenti, che Dante si compiace di elencare con fare dotto.

Tra i rettili corrono "genti nude e spaventate", che non hanno speranza di trovare né un nascondiglio ("pertugio") né l'elitropia, pietra cui un tempo si attribuiva il potere di rendere invisibile chi la portava addosso. Essi hanno le mani legate dietro alla schiena dai serpenti, che poi passavano la coda e il capo lungo le reni dei dannati e le annodavano davanti cingendo loro il ventre ("con serpi le man dietro avean legate; / quelle ficcavan per le ren la coda / e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate.", v. 94-96).

Poco più avanti Dante dirà che si tratta dei ladri, che, a differenza dei predoni puniti nel primo girone del VII cerchio nel sangue bollente del Flegetonte (Canto XII), non sono violenti, ma hanno depredato gli altri con l'inganno e l'astuzia, colpa ben più grave di quella dei rapinatori secondo la logica dell'inferno dantesco, che agli strati più bassi fa corrispondere i peccati più gravi.

2. 3. Metamorfosi dei ladri - vv. 97-120

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A questo punto Dante assiste a una sorprendente metamorfosi, quando un serpente morde un dannato tra il collo e la spalla e nel tempo di tracciare una "O" oppure una "I" (lettere di una tratto solo) il dannato cade a terra come cenere e rinasce da essa, come fenice, che rinasce ogni 500 anni dopo essersi costruita un letto di nardo e mirra (citazione quasi letterale da Ovidio, Metamorfosi XV) o come un epilettico, che all'epoca si riteneva posseduto temporaneamente da un demone.

Il contrappasso di questi dannati non è completamente chiaro, comunque il serpente che striscia potrebbe simboleggiare la natura subdola di questi dannati. Inoltre il fatto di avere mani legate è l'opposto di quella "sveltezza" di mano che contraddistinse la loro mala opera. La metamorfosi animalesca è sempre un fatto gravemente degradante per Dante, che nella sua concezione dell'universo strettamente gerarchica attribuiva a animali e piante una forma di vita molto meno nobile di quella umana, creata a somiglianza di Dio (si pensi ai suicidi la cui pena è quella di essere trasformati in sterpi, o alle similitudini animalesche così frequenti nelle Malebolge). Nel caso poi del dannato che si polverizza e rinasce è un'aggiunta perché il suo peccato è avvenuto in luogo consacrato (lo si legge tra poco), quindi il ritornare alla polvere, come prima della Genesi, è una severa vendetta divina di chi ha osato sfidarlo.

2. 4. Vanni Fucci e la sua profezia - vv. 121-151

Virgilio chiede dunque il nome al dannato, e quello risponde con tutta l'arroganza e rozzezza che può: dice che piovuto in questa bolgia dalla Toscana da poco tempo; gli piacque la "vita bestial e non umana", ed era un mulo, cioè un bastardo, un figlio illegittimo, di nome Vanni Fucci bestia (forse il suo grottesco soprannome, secondo altri commentatori affibbiato invece da Dante nel ritratto degradato che il dannato fa di se stesso), che ebbe in Pistoia la sua degna tana.

In pratica il dannato si è presentato come un animale, un violento (era infatti predone e assassino), tanto da attaccare al suo nome l'epiteto di "bestia", ma Dante non è soddisfatto della sua risposta, perché in verità ha già riconosciuto di chi si tratta, un terribile pistoiese che compì efferate e inutili crudeltà durante l'assedio di Caprona (un'azione militare conseguente la battaglia di Campaldino, alla quale Dante partecipò come cavaliere). Allora Dante sprona Virgilio perché non si faccia scappare il dannato, perché la sua colpa è ben più umiliante e grave (almeno secondo lo schema etico dantesco, citato nel paragrafo precedente) di quelle che ha voluto dire loro. Allora Vanni Fucci, colpito nel debole, si gira direttamente su Dante guardandolo negli occhi senza la frapposizione di Virgilio e controvoglia gli confessa quello che gli duole in questa sua misera condizione più di quando gli dolse morire. Non può negare la risposta alla domanda dei due inviati in missione divina: si trova quaggiù perché fu ladro dei bei arredi di sacrestia (notare la piena confessione, con l'accento posto sulla sua colpa in maniera così diretta), per il reato del quale stava per venire giustiziato qualcun altro.

Dopo l'umiliazione però Vanni Fucci prepara anche la vendetta. "Ma perché di tal vista tu non godi, se uscirai mai dall'Inferno, apri li orecchi al mio annunzio, e odi. Il dannato si rivolge con arroganza verso Dante e, assieme a quello che farà dopo, la sua figura è tratteggiata come una delle più nere e indomabili dell'Inferno. Profetizza allora notizie spiacevoli per Dante: Pistoia è spopolata per la cacciata dei Neri, ma presto Firenze si rinnoverà di gente, intendendo che il successo attuale dei Bianchi è fugace perché presto con l'arrivo di Carlo Valois le sorti si ribalteranno. Marte (divinità) trae vapore igneo di fulmini in Lunigiana (Val di Magra) e con la tempesta forte si combatterà sul campo di Pistoia (Campo Piceno, da un'errata interpretazione di Sallustio che fraintesero anche altri autori); qui il dio della guerra spezzerà la nebbia con questi fulmini "sì ch'ogne Bianco ne sarà feruto. / E detto l' ho perché doler ti debbia!" (vv. 150-151).

Il canto si chiude con questi versi pieni d'odio, e ancora più negativa sarà l'apertura del prossimo canto con la bestemmia di Vanni Fucci, così terribile che farà pronunciare a Dante un'invettiva contro Pistoia

Edited by demon quaid - 30/12/2015, 16:32
 
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2. 1. Vanni Fucci e l'invettiva contro Pistoia - versi 1-16

Stradano_Inferno_Canto_25



Canto 25, Giovanni Stradano, 1587

Il canto continua con un tutt'uno con il precedente. Vanni Fucci, ladro confesso, profeta di sciagure appena elencate a Dante con odio "perché doler ti debbia", adesso è sempre al centro della scena e conclude il suo arrogante e minaccioso discorso con un gesto blasfemo, che consiste nell'alzare verso il cielo le due mani con il gesto delle fiche (infilando il pollice tra l'indice e il medio, che all'epoca era un gesto volgare come il gesto dell'ombrello) gridando "Togli, Dio, ch'a te le squadro!" (qualcosa come "Tié, Dio!", letteralmente: "Prendi Dio, che te le mostro apertamente!", intendendo le fiche), una sordida bestemmia, che sdegna Dante, per fortuna interrotta dall'arrivo di serpi che, nonostante prima avessero suscitato il suo orrore (in Inferno XXIV, 82-84), da quel momento considera amiche perché strozzano il dannato come se gli intimassero di non parlare più e gli legano di nuovo le braccia che hanno appena compiuto il gesto osceno.

Il poeta allora scrive un'invettiva contro la città di Pistoia, patria di cittadini così rei:

« Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi

d'incenerarti sì che più non duri,

poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi? »

(vv. 10-13)

Perché Pistoia Pistoia non deliberi di non esistere più riducendoti in cenere? I tuoi concittadini sono i peggiori in quanto a malvagità. Dante confessa infatti che finora in tutto l'Inferno non ha incontrato nessuno così superbo quanto il ladro pistoiese, neppure Capaneo, il re bestemmiatore che precipitò dalle mura di Tebe. Vanni Fucci esce quindi di scena fuggendo avvolto dai serpenti, cosi che non poté più parlare ancora.

2. 2. Il centauro Caco - vv. 17-33

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La successiva apparizione del Centauro Caco (un mostro ucciso da Ercole che solo Dante traforma in centauro basandosi su una descrizione piuttosto vaga di Virgilio nell'Eneide) è improvvisa e breve. Esso appare correndo infuriato come se cercasse Vanni Fucci ("Ov'è, ov'è l'acerbo?", v. 18) forse per punirlo (ma poi qui Caco è un dannato o un guardiano della bolgia? non ci sono abbastanza elementi per stabilirlo).

Egli è vividamente descritto come pieno di serpenti attaccati su tutta la groppa fino all'innesto con il corpo umano, più di quelli che Dante crede si possano trovare in tutta la Maremma. Inoltre egli ha un drago alato innestato dietro le spalle, un'invenzione di Dante per giustificare il fatto che il mostro Caco sputasse fuoco secondo alcuni autori antichi.

Virgilio quindi lo presenta, come il Caco che spesso bagnò il colle Aventino di un lago di sangue e che rubo con frode in un gregge vicino: i buoi di Gerione a Ercole, che prese tirandoli per la coda così che non si potessero rintracciarne le orme; per questo non si trova con gli altri centauri (custodi del settimo cerchio dei violenti).

Per porre fine al suo malvagio operato, Ercole lo uccise con cento colpi della sua mazza, ma egli al decimo era già morto, un particolare truculento mutuato da Ovidio, che sottolinea che la frode può giustificare la brutalità per essere punita.

2. 3. I ladri fiorentini: altra metamorfosi - vv. 34-78

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Virgilio parla e Caco passa e va, nel frattempo tre spiriti si avvicinano sotto ai due poeti, che li notano solo quando essi gli chiedono "Chi siete voi?", interrompendo le loro discussioni.

Dante non li riconosce, ma, come succede talvolta nei discorsi, avviene che lo spirito che ha parlato deve nominarne un altro e dice "Cianfa dove fia rimaso?", "dove sarà Cianfa?", al che Dante, sentendo nominare un fiorentino, fa cenno a Virgilio di tacere per poter ascoltare.

Dante-scrittore sta per descrivere una scena di visioni fantastiche e sovrannaturali, per cui, come in altri passi, si rivolge prima direttamente al lettore per spiegargli che ciò che ha visto nell'Inferno è vero per quanto suoni incredibile. Un ramarro con sei zampe infatti si lancia contro uno dei tre dannati, iniziando a fondersi con esso. Se a questo diverso trattamento corrisponda un diverso peccato (così come per Vanni Fucci l'essere trasformato ciclicamente in cenere era forse legato al suo sacrilegio di rubare in un luogo consacrato), magari seguendo le specificazioni del peccato del furto che fa Tommaso d'Aquino[1], non ci sono elementi sufficienti per decifrarlo, sia dalla biografia stringatissima che qualche commentatore antico ha rilevato del dannato (Agnolo Brunelleschi, forse ladro che usava camuffarsi, per questo le sue sembianze sono così trasfigurate all'Inferno), sia dalla narrazione di Dante che è tutta incentrata sulla descrizione della metamorfosi e non allude ad altri particolari biografici o morali. Forse il contrappasso va interpretato solo come "furto" dell'identità, dell'umanità da parte dei serpenti di questi ladri.

La trasformazione è l'argomento sul quale si concentra Dante, in una specie di rivalità (lo scriverà tra poco) con i suoi modelli classici come Ovidio e Lucano.

Il ramarro dai sei piedi si aggrappa al ventre del dannato con la coppia di zampe centrali ("Co' piè di mezzo li avvinse la pancia" - v. 52), con quelle anteriori alle braccia ("e con li anterïor le braccia prese;", v. 53) e con il muso gli morde la faccia ("poi li addentò e l'una e l'altra guancia;" - v. 54). Quindi gli distende le zampe posteriori lungo le cosce ("li diretani a le cosce distese," - v. 55) e gli passa la coda tra le gambe appoggiandola distesa sulla sua schiena ("e miseli la coda tra 'mbedue / e dietro per le ren sù la ritese." - vv. 56-57). La bestia gli sta abbarbicata come l'edera agli alberi e i due copri iniziano a fondersi come la cera calda, unendo i due colori in un tono che non è proprio di nessuno dei due, come quello della carta che brucia, dove tra il foglio bianco e il nero della bruciatura appare un colore intermedio bruno.

Gli altri due dannati guardano, un po' incuriositi un po' intimoriti e dicono come Agnel non sia ormai "né due né uno", ovvero la fusione non ha creato un nuovo individuo, ma un mostro orribilmente trasfigurato. Essi sono "perduti" nella nuova forma, con le teste fuse in un'unica faccia, gli arti anteriori divenuti due da quattro liste (cioè le due braccia dell'uomo e le due zampe anteriori del rettile sono divenuti gli arti anteriori del mostro[2], "Fersi le braccia due di quattro liste;" - v. 73), "le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso (il busto) / divenner membra che non fuor mai viste", dove ogni aspetto originale era cancellato (casso, notare la rima ambigua). Il mostro se ne va così via.

2. 4. Terza metamorfosi - vv. 79-151

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Come una lucertola, di quelle che saettano nella calura estiva ("dei dì canicular"), un serpentello "acceso (d'ira), livido e nero come un gran di pepe", si avventa sull'ombelico di uno dei due dannati fermi e poi gli ricade davanti (e quella parte onde prima è preso / nostro alimento, a l'un di lor trafisse; / poi cadde giuso innanzi lui disteso. - vv. 85-87). Il trafitto guarda l'altro in silenzio, sbadigliando, forse con rassegnazione, forse con noia, e anche il serpente riguarda; esce fumo dalla bocca del serpente e dalla ferita dell'uomo, che si uniscono nell'aria.

A questo punto Dante sta per descrivere una doppia trasformazione, dell'uomo in serpente e del serpente in uomo, ma prima di dedicarsi alla narrazione lancia, per così dire, una sfida ai poeti classici, la cosiddetta iactatio o vanto dei trattati dell'arte retorica, introdotta proprio canonicamente da un "Taccia (taceat)". Taccia quindi Lucano quando parla di Sabello e di Nasidio (soldati dell'esercito di Catone che nella Pharsalia sono morsi da serpenti e muoiono orrendamente trasfigurati, uno trasformato in cenere, uno gonfiato fino a scoppiare) e stia a udire quello che "scocco", come freccia; Taccia Ovidio (massimo poeta delle Metamorfosi), che parlò di Cadmo trasformato in serpente e di Aretusa mutata in fonte, che lui, Dante, non ha niente da invidiar loro: mai nessuno ha descritto una duplice metamorfosi incrociata, fronte a fronte. Dante non aveva però solo motivo di vantarsi in quanto poeta, ma la sua sfida va inquadrata nella consapevolezza degli autori medievali di aver ricevuto la rivelazione cristiana, quindi può comprendere un senso allegorico nei miti che era avulso agli autori antichi.

La descrizone in parallelo delle due metamorfosi è molto lunga e dettagliata, in vari passaggi in parallelo. Prima la coda del serpente si biforca in due, mentre all'uomo le gambe si fondono velocemente, così che ben presto non ci sono più segni di giuntura: è come se la coda biforcata prendesse, togliesse l'umanità dall'altra persona, che nel frattempo perdeva la sua natura; la pelle di uno si faceva molle, quella dell'altro dura; i piedi di dietro del serpente (inteso nel senso generico di rettile, perché i serpenti non hanno arti) si fondono e diventano il membro maschile, mentre il pene del "misero" (l'uomo) si è appena diviso; il fumo avvolge entrambi facendo variare il colore della pelle e facendo comparire capelli e peluria su uno, così come li faceva sparire dall'altro e nel frattempo uno cade giù e l'altro si leva in piedi; i due continuano a fissarsi con le "lucerne empie" ("gli occhi malvagi"), mentre i due cambiano "muso": uno lo ritira verso le tempie, e la pressione della materia gli fa uscire gli orecchi dalle gote, mentre una parte della materia non si ritira e fa nascere il naso e le labbra; quello in terra invece fa uscire fuori il muso e ritira gli orecchi come fa la lumaca con le corna; la lingua di uno si biforca, mentre quella dell'altro si richiude; il fumo "resta" (cessa, scompare) e la trasformazione ha termine.

Allora il serpente se ne fugge sibilando (suffolando) per la valle "e l'altro dietro a lui parlando sputa", forse per scacciarlo (Francesco Torraca nel suo commento ricorda che la saliva era ritenuta un efficace antidoto del veleno serpentifero[3]), e, rivolgendosi al dannato che ha assistito a tutta la scena in silenzio, gli dice: (parafrasi) "Voglio che Buoso corra ora come ho fatto io a quattro zampe per questa via".

Dante ha visto così la "feccia" (zavorra) della settima bolgia trasformarsi. È il Dante-scrittore che ora prende la parola insistendo di nuovo sul lettore perché creda veramente a questa sua esperienza ultramondana, ma si scusa anche se la penna ha un po' (fior, nell'italiano medievale significava "un poco") "abborrato" cioè si è espressa un po' confusamente, anche perché la visione stessa era confusa. Ma sebbene il suo animo fosse smarrito (smagato) egli aveva riconosciuto prima che sgattaiolassero via Puccio Sciancato (quello non trasformato) e colui che Gaville ancora piange, secondo i commentatori Francesco Cavalcanti, assassinato a Gaville e i cui parenti fecero tremenda vendetta nel piccolo borgo del contado fiorentino.

Dante ha trovato quindi ben cinque fiorentini in questa bolgia e lo sdegno per la mala fama di questi suoi concittadini gli farà pronuciare un'invettiva contro Firenze all'inizio del prossimo canto.

Edited by demon quaid - 25/3/2016, 15:51
 
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view post Posted on 19/4/2010, 12:04     +1   -1
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Ottava bolgia

Il canto ventiseiesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nell'ottava bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti i consiglieri di frode; siamo nel mattino del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

1. Incipit
Canto XXVI, nel quale si tratta de l'ottava bolgia contro a quelli che mettono aguati e danno frodolenti consigli; e in prima sgrida contro a' fiorentini e tacitamente predice del futuro e in persona d'Ulisse e Diomedes pone loro pene.

2. Analisi del canto
Nel Canto XXVI si tratta degli orditori di frode ossia condottieri e politici che non agirono con le armi e con il coraggio personale ma con l'acutezza spregiudicata dell'ingegno.

2. 1. Invettiva contro Firenze - versi 1-12
« Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande

che per mare e per terra batti l'ali,

e per lo 'nferno tuo nome si spande! »

(vv. 1-3)




La targa sul Bargello: «...qu[a]e mare, qu[a]e terra[m], qu[a]e totu[m] possidet orbem...» (1255).
Il canto si apre con un'invettiva nei confronti di Firenze che tematicamente si lega al canto precedente, dove Dante aveva incontrato cinque ladri appunto fiorentini: con ironia nota quanto Firenze sia conosciuta su tutta la terra (metaforicamente "batte l'ali", citando un'iscrizione sul Palazzo del Bargello del 1255). Francesco Buti a proposito commentava infatti : «erano allora i Fiorentini sparti molto fuor di Fiorenza per diverse parti del mondo, ed erano in mare e in terra, di che forse li fiorentini se ne gloriavano». Anche nell'Inferno quindi il nome di Firenze si spande, essendosi Dante dovuto vergognare per aver trovato ben cinque concittadini tra i «ladroni», che certo non arrecano «onore» alla sua città.

Ma se quello che si sogna al primissimo mattino, secondo una leggenda medievale, diventa vero, allora Dante predice che presto essa subirà la punizione che persino la vicinissima Prato, nonché altre città, desiderano per lei. Il perché sia indicata proprio Prato non è stato ancora chiarito e le ipotesi più convincenti sono quelle legate agli anatemi scagliati dal cardinale Niccolò da Prato, che tentò vanamente di riappacificare le fazioni fiorentine nel 1304. Manfredi Porena, pur non proponendo un'alternativa a questa spiegazione, trova difficoltà ad accettarla in quanto il cardinale da Prato fu poco dopo uno dei principali manipolatori dell'elezione di papa Clemente V, di cui si sa cosa pensasse Dante (Inferno XIX, 82-87), e par difficile che Dante potesse invocarne l'autorità, sia pure in tutt'altra materia[1].

Il poeta rincara poi la dose dicendo che se anche questa punizione fosse già arrivata, non sarebbe stata troppo sollecita ("E se già fosse, non saria per tempo.", v. 10) e, visto che la riconosce necessaria, si augura che arrivi presto ("Così foss'ei, da che pur esser dee!", v. 11) perché la sventura di Firenze gli graverà di più via via che la sua età avanza ("ché più mi graverà, com' più m'attempo.", v. 12). Non tutti i commentatori concordano sul perché Dante si augura che la punizione arrivi presto. Alcuni sostengono che la sventura di Firenze, benché ineluttabile, riempie Dante di dolore, che più gli sarà grave quanto più invecchierà. Il vecchio infatti sopporta meno i dolori, diventa sempre più disposto al perdono e l'amore per il luogo natio cresce in lui con l'età. Secondo altri Dante vuole dire invece che più la sventura tarderà, tanto più egli soffrirà per non aver goduto a lungo della punizione. Questa interpretazione contrasta però col "da che pur esser dee", che riconosce sì la necessità della punizione, ma lo fa a malincuore. È curioso che i commentatori moderni protendano tutti per la prima ipotesi e quegli antichi per la seconda, a dimostrare come in fondo la lettura di questo passo è anche mutuata dalla nostra sensibilità e maniera di pensare.

2. 2. La bolgia dei consiglieri fraudolenti - vv. 13-48


« Noi ci partimmo, e su per le scalee

che n'avea fatto iborni a scender pria,

rimontò 'l duca mio e trasse mee; »
(vv. 13-15)



I due poeti ripartono dall'argine interno della settima bolgia percorrendo a ritroso la strada seguita in Inferno XXIV, 79-81: Virgilio risale la scala che li aveva «fatto iborni», reso eburnei, cioè fatti impallidire per l'orrore suscitato dalle serpi che stipavano la bolgia, quindi tira su Dante. Non tutti sono concordi sulla lezione sopra riportata del verso 14: alcuni preferiscono leggere "che n'avean fatte i borni a scender pria", interpretando "i borni" come le pietre (francese borne: pietra) che avevano utilizzato come scala per scendere e che ora servono come appiglio per risalire; altri leggono invece "che il buior n'avea fatto scender pria", ricordando che Dante aveva chiesto a Virgilio di scendere perché non poteva vedere il fondo della bolgia a causa del buio. A meno di un improbabile ritrovamento del manoscritto originale, non sapremo mai che cosa ha scritto realmente Dante; comunque sia, la sostanza del racconto, cioè che i due poeti sono ritornati al punto da cui erano partiti per vedere cosa c'era nella settima bolgia, non cambia.

« e proseguendo la solinga via,

tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio

lo piè sanza la man non si spedia. »
(vv. 16-18)



Proseguono quindi per la strada solitaria ("solinga via"), per l'assenza di demoni e dannati, tra le pietre aguzze ("schegge") e tondeggianti ("rocchi") del ponticello successivo ("scoglio"), che deve essere più ripido dell'altro se non bastano i piedi per avanzare, ma bisogna aiutarsi con le mani. Quando arriva sul colmo del ponticello, Dante prova un dolore tanto grande per quello che vede, da essere ancor vivo al momento in cui scrive, e grande a tal punto da indurlo a tenere a freno l'ingegno perché non superi i limiti della virtù; non vuole infatti che l'influenza degli astri ("stella bona") o la grazia divina ("miglior cosa"), che gli hanno concesso l'esperienza iniziatica, gliela tolgano per causa di una sua azione o un suo pensiero troppo ardito. Questa notazione, ora un po' arcana, diventerà evidente se considerata alla luce di ciò che verrà dopo nel canto, cioè la storia di Ulisse il cui ingegno, non tenuto a freno dalla virtù, gli procurò la morte per aver superato i limiti imposti da Dio.
Egli usa una similitudine per descrivere quello che vede:

« Quante 'l villan ch'al poggio si riposa,

nel tempo che colui che 'l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa,

come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov'e' vendemmia e ara:

di tante fiamme tutta risplendea
l'ottava bolgia, sì com'io m'accorsi


tosto che fui là 've 'l fondo parea. »
(vv. 25-33)

« Quante lucciole vede il contadino che si riposa sul poggio,

d'estate, quando il sole resta visibile più a lungo,

di sera, quando la mosca si posa e cede il posto alla zanzara,
giù nella valle,
forse proprio nei campi dove lavora:

di tante fiamme risplendeva tutta
l'ottava bolgia, così come mi accorsi


appena giunsi dove ne appariva il fondo. »

(parafrasi)


Segue quindi un'altra similitudine per rappresentare il fatto che ciascuna fiamma si muove racchiudendo in sè un peccatore, paragone dotto che si accorda al linguaggio ricercato e aulico di tutto il canto. Dante si ispira, con qualche licenza poetica, al rapimento in cielo del profeta Elia riportato dalla Bibbia nel 2° Libro dei Re, che racconta che mentre Elia ed Eliseo camminavano conversando, Elia fu improvvisamente rapito in cielo da un carro di fuoco trainato da cavalli di fuoco, che presto scomparve alla vista del suo compagno (cfr. 2Re 2, 11-12). Poco più avanti nello stesso testo (cfr. 2Re 2, 23-24) viene narrato che dei ragazzi incominciarono a beffare Eliseo, dandogli del calvo, finché egli si voltò e li maledisse nel nome del Signore, e dal bosco uscirono due orse che sbranarono quarantadue ragazzi. Ecco i versi di Dante:

« E qual colui che si vengiò con li orsi

vide 'l carro d'Elia al dipartire, quando i cavalli al cielo erti levorsi,

che nol potea sì con li occhi seguire,
ch'el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:

tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra 'l furto,


e ogne fiamma un peccatore invola. »
(vv. 34-42)

« E come colui che si vendicò con gli orsi (Eliseo)


vide partire il carro di Elia, quando i cavalli si levarono dritti verso il cielo,

che con gli occhi poteva seguire
solo la fiamma, senza vedere altro,
salire su come una nuvoletta:

così si muove ciascuna fiamma nell'incavo
della bolgia, perché nessuna mostra il contenuto ("'l furto"),


e ognuna cela un peccatore (letteralmente "invola", cioè ruba, connesso con "furto"). »
(parafrasi)


Dante sta guardando ritto in piedi ("surto") sul ponte, in modo così precario che se non fosse aggrappato ad un masso sporgente ("ronchion"), cadrebbe giù senza bisogno di essere urtato. Vistolo così attento ("atteso") Virgilio (che questa volta non gli legge nel pensiero che egli lo ha già capito) gli spiega che dentro ai fuochi ci sono gli spiriti dei dannati, ciascuno dei quali si fascia di quello da cui è acceso, cioè la fiamma ("catun si fascia di quel ch'elli è inceso").

Non è chiaro quali dannati siano puniti in questa bolgia. Essi sono abitualmente indicati come consiglieri fraudolenti e il loro contrappasso consiste nell'essere avvolti da lingue di fuoco, per analogia con le loro stesse lingue che furono fonte di frode, e nascosti dentro alle fiamme allo stesso modo in cui da vivi celarono la verità per l'inganno (come dice l'Apostolo Giacomo, la lingua fraudolenta è come fuoco). Tuttavia l'unico dei dannati che si inquadra in questa categoria è Guido da Montefeltro, presentato nel Canto XXVII, che si pente invano di un consiglio fraudolento fornito, su sua richiesta, a Papa Bonifacio VIII. Ulisse e Diomede, presentati nel seguito di questo canto, non sono puniti per i consigli dati, ma per le opere che hanno compiuto, e per loro la definizione di consiglieri fraudolenti mal si adatta perché risulta troppo specifica.

2. 3. Ulisse e Diomede - vv. 49-84


Ulisse nell'Inferno, immaginato da William Blake
Dante allora ringrazia e risponde che aveva già capito ("già m'era avviso che così fosse") e, attratto in particolare da una fiamma doppia che gli ricorda Eteocle e suo fratello Polinice, ne chiede la spiegazione a Virgilio (altra citazione dotta sui due fratelli che arrivarono a uccidersi a vicenda per la discordia; in Stazio e in Lucano si racconta che anche le fiamme della pira su cui bruciavano i loro corpi si divisero in due, come se continuassero ad odiarsi anche dopo la morte).

Virgilio gli rivela che lì sono puniti Ulisse e Diomede, insieme nella vendetta divina così come, peccando insieme, incorsero nell'ira di Dio in vita, ed elenca i tre peccati per cui i due han ben da gemere nella fiamma, vale a dire:

1.L'inganno del Cavallo di Troia, che provocando la caduta della città fece sì che da Troia uscisse poi Enea, nobile progenitore ("gentil seme") dei Romani.
2.La scoperta di Achille, fatto travestire da donna dalla madre Teti e mandato alla corte di Licomede affinché non partecipasse alla Guerra di Troia. Ulisse e Diomede, travestiti da mercanti, usarono l'astuzia di mostrargli spade in mezzo a sete e drappi, scoprendolo tra le altre donne e costringendolo a partire per la guerra, abbandonando la sua amante Deidamia che morì di dolore, e ancor morta si duole dell'amante infedele.
3.Il furto del Palladio che proteggeva Troia.
Dante si mostra estremamente desideroso di parlare con i due, probabilmente perché in tutto il Medioevo c'era gran mistero su quale fosse stata la fine di Ulisse (Dante non conosceva l'Odissea perché non sapeva leggere il greco, anche se ne aveva letti alcuni sunti mutuati da autori latini) ed arriva a pregare Virgilio ben cinque volte in due terzine:

« "S'ei posson dentro da quelle faville

parlar", diss'io, "maestro, assai ten priego e ripriego, che 'l priego vaglia mille,
che non mi facci de l'attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;


vedi che del disio ver' lei mi piego!". »
(vv. 64-69)


Virgilio gli promette di rivolgere loro delle domande purché egli taccia: parlerà lui perché essi sono greci e forse schivi "del tuo detto" (delle parole di Dante). Sul perché sia necessario che parli Virgilio si sono fatte diverse ipotesi: la più semplice è che i due parlano greco e Dante non conosce questa lingua, a differenza di Virgilio, ma questa ragione non sussiste perché se avessero parlato in greco Dante non avrebbe capito e non potrebbe riferire il contenuto del discorso, inoltre nel prossimo canto Guido da Montefeltro dirà di aver udito parlare Virgilio in dialetto lombardo; l'altra ipotesi è che siccome era comune opinione medievale che i greci fossero un popolo superbo, essi si sarebbero rifiutati di parlare con una persona che non avesse ancora eccellenti meriti, infatti l'invocazione successiva di Virgilio verterà proprio sulle sue opere, motivo di vanto, espresse nel più alto linguaggio possibile. In questo episodio comunque Dante riproduce la sua situazione rispetto ai greci e alla loro letteratura in particolare: non essendo la loro lingua conosciuta in Italia (con pochissime eccezioni forse in Calabria) essi "parlavano" solo tramite gli autori latini che avevano tradotto o sintetizzato o citato le loro opere.

Virgilio quindi aspetta che la duplice fiamma arrivi vicino al ponte e gli si rivolge con solennità e altisonanza, ponendo la questione principale, che ha letto nel pensiero di Dante, di sapere la fine di Ulisse, un mistero sul quale gli autori antichi tacevano:

« "O voi che siete due dentro ad un foco,

s'io meritai di voi mentre ch'io vissi, s'io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l'un di voi dica


dove, per lui, perduto a morir gissi". »
(vv. 79-84)


Da notare l'aulica anafora della prima terzina e la captatio benevolentiae.

Dante infatti non conosceva l'Odissea e ne trascurava anche i sunti medievali, sebbene piuttosto diffusi alla sua epoca. Della fine di Ulisse, sulla quale tacciono Virgilio, Orazio, Seneca e Cicerone, si erano fatte numerose congetture dai tempi Servio, più vive che mai nel Medioevo, alle quali Dante aggiunse una sua versione basata su vari indizi, ma tutto sommato piuttosto originale.

2. 4. Racconto dell'ultimo viaggio di Ulisse - vv. 85-142


Anonimo fiorentino, Il naufragio della nave di Ulisse (1390-1400)
La maggiore delle due fiamme inizia allora a muoversi come mossa dal vento e dal movimento della cime della lingua di fuoco iniziano a uscire le parole.

Ulisse non si presenta e inizia subito a parlare degli ultimi anni della sua vita, dall'addio alla maga Circe: in questo Dante riprende pari pari la lezione di Ovidio quando nelle Metamorfosi XIV 436 ss. Macareo, uno dei compagni di Ulisse, racconta a Enea come abbandonò il suo capitano che si rimetteva per l'ennesima volta in mare.

Dopo un anno a Gaeta (prima che Enea le desse quel nome) «né dolcezza di figlio, né la pièta / del vecchio padre, né 'l debito amore / lo qual dovea Penelopè far lieta» poterono fermare Ulisse dalla sua sete di conoscenza, dall'ardore di conoscere i vizi umani e le virtù. Partì così per mare aperto invece di tornare a casa, con una barca e quella «compagnia picciola» di sempre. Navigò lungo i lidi europei (fino alla Spagna) e africani (fino al Marocco) del Mediterraneo occidentale, comprese le isole quali la Sardegna e le altre. Lui e i suoi compagni erano già anziani quando arrivarono a quella «foce stretta» dove Ercole segnò il confine da non superare, lo Stretto di Gibilterra. Ulisse passò Siviglia a destra e Ceuta a sinistra arrivando davanti allo stretto; per convincere i suoi all'impresa mai arrischiata pronunciò la famosa «orazion picciola»:

« "O frati," dissi, "che per cento milia

perigli siete giunti a l'occidente, a questa tanto picciola vigilia

d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,


ma per seguir virtute e canoscenza". »

(vv. 112-120)


"Fratelli miei, che attraverso centomila pericoli siete arrivati a questo crepuscolo della vita (la vecchiaia, chiamata come "rimanente veglia dei sensi") presso l'Occidente; non negate ai nostri sensi quello che rimane da vedere, dietro al sole, nel mondo disabitato; considerate la vostra origine: non siete nati per vivere come bruti, ma per praticare la virtù e apprendere la scienza."

Le celebri terzine sono un vertice di retorica: si apre con una captatio benevolentiae (il vocativo, il ricordo delle esperienze in comune) e cresce di intensità gradualmente, prima usando il "voi", poi "noi" (infatti prima di questa orazione Ulisse usava il pronome "io" e in seguito userà solo il "noi"), incitando all'impresa fino a culminare in chiusura toccando uno dei sentimenti più profondi dell'animo umano quale l'orgoglio per la superiorità sugli altri esseri viventi.

I compagni allora divennero così desiderosi di partire che a malapena li avrebbe potuti trattenere oltre: girarono la poppa a est e fecero dei remi «ali» per il «folle volo», sempre avanzando a sinistra, verso sud-ovest. Dopo cinque mesi già le stelle erano cambiate in cielo (perché erano giunti nell'altro emisfero), quando apparve una montagna velata dalla lontananza («bruna») e altissima (il monte del Purgatorio). Essi si rallegrarono ma presto dovettero cedere al pianto perché da quella terra si mosse un turbine che percorse la barca alla prua; tre volte essi girarono intorno con tutta l'acqua vicina, alla quarta la poppa si alzò in alto, la prua in basso, come piacque a qualcuno (a Dio), e poi il mare fu sopra di essi richiuso (notare l'allusione al seppellimento, alla tomba), con un verbo che metaforicamente chiude anche il canto.

Dante ci fa capire tramite le parole di Ulisse l'importanza della conoscenza che non ha né età né limiti: infatti gli affetti più grandi non sono riusciti a vincere nell'animo di Ulisse il desiderio di conoscenza. La celebre terzina "Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza" è la sintesi della personalità di Dante il quale considerava la conoscenza il presupposto base per la valutazione di una persona.
 
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Nona Bolgia

Il canto ventottesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella nona bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti i seminatori di discordie; siamo al pomeriggio del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

«Or vedi com' io mi dilacco! vedi come storpiato è Mäometto!» (XXVIII, vv. 30-31).

1. Incipit
Canto XXVIII, nel quale tratta le qualitadi de la nona bolgia, dove l'auttore vide punire coloro che commisero scandali, è seminatori di scisma e discordia e d'ogne altro male operare.

2. Temi e contenuti
2. 1. I seminatori di discordia - versi 1-21

Il canto si apre con Dante che si trova in difficoltà nel descrivere bene (a pieno) il sangue e le ferite che vede in questa bolgia, preannunciata alla fine del canto precedente come quella dove "si paga il fio / a quei che scommettendo acquistan carco", cioè di coloro che ebbero colpa nello "sconnettere" nel creare divisioni e discordie tra le persone.

Sia la lingua (intesa come parole adatte), sia la capacità mentale di comprendere mancano a Dante per poter comprendere ciò che vede, allora ricorre ad una lunga immagine figurata: se si potessero adunare tutta la gente che nella terra di Puglia (intesa in senso ampio, come meridione d'Italia), soggetta alla Fortuna, sentì il travaglio e il dolore con il proprio sangue per le guerre violente, e se tutte queste alzassero le loro membra trafitte o mozzate, nulla sarebbe sufficiente per aequar, cioè per uguagliare, quanto la nona bolgia era sozzamente piena di anime mutilate.

Dante elenca nel paragone alcune guerre che insanguinarono l'Italia meridionale:

•Quella che fece fare così alti monti di anelli di "Troiani": la seconda guerra punica, in particolare la battaglia di Canne, dove Annibale sconfisse i Romani (indicati come Troiani perché secondo l'Eneide essi derivavano da Enea) e secondo Tito Livio i Cartaginesi nel raccogliere tutti gli anelli d'oro sfilati dalle mani dei nemici sconfitti fecero un cumulo di tre moggia;
•Quella di Roberto Guiscardo, che tentò di conquistare la Puglia nell'XI secolo;
•Le guerre angioine, in particolare:
◦La Battaglia di Benevento, dove venne sconfitto Manfredi, per la quale i baroni del Regno di Napoli furono traditori (fu bugiardo ciascun), facendo passare Carlo d'Angiò a Ceprano, vera porta d'accesso del regno attraverso il passaggio sul Liri
◦La Battaglia di Tagliacozzo, dove venne sconfitto Corradino di Svevia (1268), grazie al consiglio di Alardo di Valéry di tenere un truppa di riserva, nascosta, che assalisse il Re quando le sue truppe erano già stanche.
Segnalando le ultime due battaglie come una vinta per un tradimento e una per il consiglio di uno che fece vincere sanz'arme, è stato rilevato l'atteggiamento anti angioino di Dante, dopotutto attestato anche altrove.

2. 2. Maometto e Alì - vv. 22-63

A questo punto Dante inizia a descrivere i singoli dannati. Il primo dove gli cade l'attenzione è aperto al centro, come le botti che hanno rotta le assi delle basi, mezzule o lulla, e Dante si dilunga con disprezzo e con un linguaggio più trito possibile a descrivere la miseria di un dannato verso il quale non vuole suscitare la minima idea di compassione. Il peccatore è aperto dal mento fin dove si trulla (dove si "scoreggia", il sedere) e tra le gambe gli pendono le interiora, la corata e lo stomaco, indicato con la più volgare delle perifrasi "'l tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia". Egli si apre il petto quasi per creare compassione in Dante, ma lo sdegno di Dante si riflette in tutta la melliflua meschinità delle parole che gli fa dire: (parafrasi) "Guarda come mi scoscio (dilacco)! Guarda com'è storpiato Maometto! Davanti a me se ne va anche ʿAlī, ferito sul volto dal mento ai capelli (il ciuffetto)".


Priamo della Quercia, illustrazione del Canto XVIII

Dante sicuramente conosceva poco e male l'islamismo e il suo fondatore (che non creò uno scisma in sé, perché non convertì cristiani, ma pagani) e attribuisce ad ʿAlī la fine dello scisma (per quanto Dante potesse essere a conoscenza della divisione tra sunniti e sciiti), infatti le ferite dei due sono complementari e indicano la prosecuzione nell'opera dell'uno in quella dell'altro. Il contrappasso è chiaro e viene spiegato da Maometto e più avanti da Bertrand de Born: come essi divisero le genti adesso il loro corpo è diviso da diavoli armati di spada, che rinnovano le loro mutilazioni ogni volta che si rimarginano ad ogni giro della bolgia.

Il dannato chiede poi chi sia Dante, se sia un dannato che indugia ad arrivare al luogo della sua pena, e Virgilio risponde per lui: "Né morte 'l giunse ancor, né colpa 'l mena" cioè, non è né morto né dannato, ma con la sua guida deve avere un'"esperienza piena" dell'Inferno girone per girone, e ciò è la verità quanto lo è il fatto di parlare ora.

All'udire che Dante era vivo tutta la bolgia si arresta a guardare Dante stupita, obliando il martiro. Maometto resta con un piede sospeso tra un passo e l'altro (immagine poco riuscita di Dante, secondo molti critici, che forse però è segnalata per ridicolizzare ulteriormente il dannato) e si appresta a fare una raccomandazione a Fra' Dolcino, che Dante la riporti quando torna su nel mondo. Non ci sono ragioni per cui Maometto avrebbe dovuto preoccuparsi per un eretico del nord Italia, se non l'esigenza di Dante di citare una persona ancora viva nel 1300 tra i dannati di questa bolgia. Maometto dice: (parafrasi) "Di' a Fra Dolcin che si armi di vettovaglie, se non vuole raggiungermi presto, che sarà bloccato nella neve. Se non lo fa recherà una facile vittoria al vescovo di Novara, vittoria che altrimenti sarebbe tutt'altro che facile". Per inciso Fra' Dolcino è l'unico eretico "vero" citato nell'Inferno (nella bolgia degli eretici sono invece citati solo epicurei, atei). Solo dopo aver parlato Maometto può nuovamente appoggiare il piede e ripartire.

2. 3. Pier da Medicina - vv. 64-90

inferno_XXVIII_Pier_da_Medicina



Questo canto è tra i più affollati di dannati, che si alternano l'uno dopo l'altro con stili e sentimenti diversi. Dopo la plebea ridicolizzazione di Maometto si presenta a Dante un dannato con un buco nella gola dal quale zampilla orrendamente sangue quando parla; egli ha il naso tagliato fino agli occhi e un orecchio solo; dopo essersi arrestato per maraviglia, è il primo a prendere la parola (si fa per dire, visto la sua canna aperta) dopo l'uscita di scena dell'altro.

Dice rivolgendosi a Dante pregandolo, con un tono piuttosto aulico, che se è quello che conobbe in vita in Italia, che si ricordi di lui, Pier da Medicina, se mai tornasse a vedere "lo dolce piano / che da Vercelli a Marcabò dichina". Per Vercelli non si deve indicare la città piemontese, ma l'antico nome di Voghenza in provincia di Ferrara. Questa rievocazione del dolce mondo dei vivi è assieme a quella di Francesca da Rimini, tra le più struggenti.

Anche Piero ha un messaggio da riferire ai vivi: di dire ai due migliori di Fano, Guido del Cassero e Angiolello da Carignano, che, se la facoltà di previsione dei dannati non è vana, saranno gettati in mare dal loro vascello tramite "mazzeratura" (in una sacco chiuso pieno di pietre) presso Cattolica, per il tradimento di un bieco tiranno (Malatestino da Rimini, citato indirettamente nel Canto XXVII a proposito della situazione della Romagna), un'azione tanto malvagia come non ne vide mai, tra Cipro e Maiorca (cioè nel Mar Mediterraneo) Nettuno, né per conto dei pirati, né dei greci (i proverbialmente crudeli argolici).

Quel tiranno traditore, che vede con un occhio solo (era infatti detto il Guercio) e che tiene Rimini, terra che questo dannato accanto a me (Curione, descritto nei prossimi versi) vorrebbe non aver mai visto, li chiamerà (Guido e Angiolello) a far parlamento e poi farà così che ed essi non sarà necessario pregare o far voto per passare il vento di Focara (cioè essi saranno già morti quando la nave passerà da Focara, sede di proverbiali tempeste).

La mancanza di una qualsiasi fonte d'archivio sull'accaduto ha fatto pensare ad alcuni commentatori addirittura che qui Piero volesse perpetrare il suo peccato di seminatore di discordie mettendo zizzania tra i due di Fano e il signore di Rimini, anche se la precisione del racconto dantesco ha più un sapore di rivelazione e trattandosi di un fatto grave può darsi che, come in altri casi, la potenza dell'interessato abbia insabbiato qualsiasi menzione in documenti.

2. 4. Curione - vv. 91-102

Stradano_Inferno_Canto_28



Dante è rimasto dubitante su chi sia il dannato la cui vista di Rimini è molesta, come da perifrasi di Piero, per questo ne chiede spiegazione. In tutta risposta Piero prende un suo compagno per la mascella e brutalmente gli apre la bocca perché si veda come ha la lingua tagliata, quindi muto. Viene descritto come colui che, scacciato da Roma, troncò l'esitazione di Cesare, affermando che chi è fornito (di truppe), ebbe sempre danno dall'aspettare, e Dante chiude dicendo quanto fosse orribile "con la lingua tagliata nella strozza / Curïo, c'ha dir fu così ardito!".

Caio Curione fu tribuno della plebe e, secondo Lucano, passò dalla parte di Pompeo a quella di Cesare durante la guerra civile perché corrotto, tanto da venire esiliato da Roma. Raggiunto Cesare a Ravenna nel 49 a.C. fece per lui da corriere per le sue lettere e quando portò quella che lo intimava a sgomberare l'esercito se non voleva essere dichiarato nemico della patria, consigliò il generale di attraversare il Rubicone vincendo l'esitazione e marciando verso Roma.

Edited by demon quaid - 25/3/2016, 15:58
 
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Decima Bolgia

Il canto ventinovesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella nona e nella decima bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti rispettivamente i seminatori di discordia e i falsari; siamo nel pomeriggio del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

1. Incipit
Canto XXIX, ove tratta de la decima bolgia, dove si puniscono i falsi fabricatori di qualunque opera, e isgrida e riprende l'autore i Sanesi.

2. Analisi del canto
2. 1. Geri del Bello - versi 1-36

Il Canto prosegue descrivendo la bolgia dei seminatori di discordie, nella quale Dante ha finora interagito con ben cinque dannati diversi. Tutta questa gente e l'orrore delle loro ferite (la pena sta proprio nel fatto che i diavoli fendono i loro corpi, come essi crearono divisioni e discordie tra le persone) hanno così "inebriato" (reso pieni di lacrime) gli occhi di Dante che egli stava quasi per scoppiare in pianto (l'interpretazione del verso è controversa.. pare comunque difficile che Dante stesse già piangendo, dopo il rimprovero di Virgilio di non impietosirsi per i dannati nella bolgia degli indovini).

Virgilio allora lo incita: (parafrasi) "Che guardi? Perché i tuoi occhi si soffermano ancora là giù tra l'ombre triste smozzicate? Eppure nelle altre bolge non hai fatto così.. che vuoi vedere tutte e ventidue le miglia di questo fossato? Non sai che la luna è ai nostri piedi (agli antipodi, quindi dev'essere circa un'ora dopo lo zenit perché la luna ritarda ogni giorno di circa 50 minuti sul sole, quindi sono le una del pomeriggio) e che ormai resta poco tempo per vedere tutto?"

Dante, incamminandosi, per la prima volta sembra un po' risentito verso Virgilio e si giustifica dicendo che se il maestro avesse considerato la ragione per la quale egli si attardava, forse gli avrebbe concesso un po' più di tempo. In effetti Dante ha ragione di credere che in quella bolgia si nascondesse un suo parente, ma Virgilio taglia corto perché anche questa volta aveva già capito la situazione: Dante non deve pensare a quel dannato, perché egli era sì presente, ai piedi del ponte, che guardava Dante e lo indicava minacciandolo col dito, inoltre Virgilio aveva anche sentito dire il suo nome, Geri del Bello. Questo era accaduto mentre Dante era tutto occupato verso colui che già tenne Altaforte (Bertran de Born, signore di Hautefort, incontrato a fine del canto precedente), così che egli non notò il suo parente e lui se ne andò. Dante sa dopotutto che Geri è disdegnoso (lo "sdegno" era l'ira giusta, quella mossa dalla ragione) perché la sua vïolenta morte non era ancora stata vendicata da nessuno della consorteria degli Alighieri, per questo egli se ne era andato senza profferire parola: ma ciò ha maggiormente impietosito Dante.

Dante credeva fermamente nel patto di sangue che lega le famiglie e, nonostante la deprecazione nel canto precedente del consiglio di Mosca dei Lamberti e sebbene non fosse particolarmente propenso verso la vendetta privata, ne riconosceva la legittimità (come facevano dopotutto gli statuti comunali dell'epoca). Forese Donati poi, in una delle terzine della tenzone poetica con Dante dove si accusano e ingiuriano a vicenda, rinfacciava a Dante vigliaccheria, conseguenza forse della perplessità di Dante circa il dovere della vendetta familiare.

Le notizie storiche non sono molte, ma pare che questo lontano zio (cugino del padre di Dante), fosse stato ucciso da un membro della famiglia Sacchetti verso il 1280: sono preziose le notizie date dai figli di Dante stesso, Jacopo e Pietro. Secondo Benvenuto da Imola ci sarebbe stata anche la vendetta vera e propria, ma solo verso il 1310 quando ormai erano passati trent'anni dalla morte dei Geri. Solo a molti anni dopo risale un documento pervenutoci di riappacificazione tra gli Alighieri e i Sacchetti (1342). Dante è come se accettasse questo rimprovero, ma non sembra provare sentimenti di colpevolezza: egli ha infatti pietà verso il congiunto ma non c'è nessuna traccia di rimorso personale.

2. 2. La decima bolgia dei falsari - vv. 37-72

Sandro Botticelli, la bolgia degli alchimisti

Parlando così con Virgilio, Dante arriva all'argine della prossima bolgia e la prima impressione che ne riceve è uditiva: lamenti fortissimi che colpiscono (saettano) la pietà come frecce dalle punte di ferro, tanto che Dante deve coprirsi gli orecchi con le mani.

Di nuovo Dante fa una similitudine per ipotetica (dopo quella di tutti mutilati delle guerre del Mezzogiorno in Inf. XXVIII 7-21) cioè per una somma di immagini che pur addizionate non sarebbero sufficienti a rappresentare l'orrore della bolgia: Dante cita gli ospedali di Valdichiana, di Sardegna e di Maremma nei mesi estivi, zone infestate dalla malaria, la cui puzza sommata non era altrettanta a quella infernale. Mentre scende la ripa la vista diventa nitida e può discernere i malati che sono i falsador puniti dall'"infallibil giustizia di Dio. Per descrivere il dato visivo Dante fa un'altra similitudine, questa volta presa dal repertorio classico (la continua commistione tra personaggi, figure, temi e stili del mondo classico, mitologico, biblico e contemporaneo saranno la caratteristica più spiccata di questa bolgia): come nelle Metamorfosi di Ovidio (qui citate spesso e quasi a menadito), Dante rievoca la pestilenza di Egina, che colpì tutto il popolo dell'isola greca, compresi gli animali, tranne il re che chiese poi a Giove di trasformare le formiche in uomini (i cosiddetti Mirmidoni), così in quella bolgia vi erano mucchi di ammalati ovunque.

Vi erano infatti persone l'una accasciata sull'altra, chi sul ventre, chi sulle spalle e chi carponi a terra. Non si potevano alzare e i due poeti procedevano tra di loro senza parlare.

Sul contrappasso di questa bolgia non si è riusciti a trovare una precisa corrispondenza univoca: la più accettata è che come i falsari alterarono la materia o le loro sembianze, così adesso sono alterati dalle malattie.

2. 3. Gli alchimisti - vv. 73-139
2. 3. 1. Griffolino d'Arezzo - vv. 73-120

L'attenzione del poeta viene attratta da due dannati, uno appoggiato all'altro come due teglie messe a scaldare (la prima delle similitudini domestiche che caratterizzano lo stile di questo canto come comico-realistico), pieni di macchie dal capo ai piedi; e si grattavano con il morso delle unghie per la rabbia del prurito con tale rapidità come mai fu visto garzone (ragazzo nel significato più antico) strigliare un cavallo aspettando il suo signore (segnorso, con pronome possessivo enclitico come sopravvive in alcuni dialetti meridionali come per esempio in "màtrema", "sòrate") né stalliere che voglia andare presto a letto ("che mal volentier veglia"). La scabbia grattata veniva via come le squame della scardova (pesce dei Cyprinidae) o di altro pesce con squame più grandi.

Virgilio si rivolge a uno dei due con un vocativo e con una preghiera secondo le regole retoriche della captatio benevolentiae: (parafrasi) "Oh tu che ti gratti con le dita (letteralmente ti "dismagli" cioè stacchi le croste come maglie di un'armatura), e talvolta le usi come tanaglie, dicci se c'è qualche italiano ("Latino") qui, e che possano le unghie bastarti in eterno per codesto lavoro".

Il dannato risponde che lui e il suo compagno sono latini, ma prima chiede a Virgilio chi sia lui; a questa domanda Virgilio risponde , più sinteticamente che nell'episodio di Maometto del canto precedente, ma sottolineando comunque che Dante è vivo, notizia che anche qui desta il più grande stupore, tanto che i due malati si staccano e si rivolgono a lui tutti tremanti (perché sorpresi o perché malati?).

Dopo la presentazione Dante ha il campo libero e, invitato da Virgilio a parlare, chiede ai due di presentarsi, affinché possa la loro fama nel mondo non dileguarsi.

Il primo, che si presenta come aretino, è secondo gli antichi commentatori un tale Griffolino d'Arezzo, fatto bruciare come eretico ("mi fé mettere al foco") da Albero da Siena, ma non per questo si trova nella decima bolgia. Narra infatti che avendo detto per celia ("parlando a gioco") di sapersi alzare in volo, venne preso sul serio da Albero, un nobile con desideri impetuosi e poco discernimento ("ch'avea vaghezza e senno poco"), che gli chiese di insegnargli a volare come Dedalo, ma non riuscendovi lo fece mettere al rogo dal vescovo di Siena che lo amava come un figlio ("mi fece ardere a tal che l'avea per figliuolo"). Conclude poi dicendo che la vera ragione per cui si trova nella bolgia è perché nel mondo fu un alchimista. La novella è raccontata con tanto di discorso diretto, anche qui in osservanza ai canoni di uno stile comico-realistico.

2. 3. 2. Capocchio da Siena e la vanità dei senesi - vv. 121-139

Dante prende l'occasione per lamentarsi con Virgilio se esista mai gente al mondo "sì vana come la senese", ben peggiori dei francesi, che pure non dovevano godere di buona fama. Quella di Dante non è una vera e propria invettiva sulla città (come nei casi di Firenze, Pistoia e poi Pisa), ma piuttosto una polemica quasi da pettegolezzo, contro la vana megalomania di alcuni dei suoi cittadini.

Il secondo "lebbroso" (in realtà scabbioso) prese la palla al balzo dicendo ironicamente di non contare certo Stricca (Stricca di Giovanni de' Salimbeni?), tanto oculato spenditore, né suo fratello Niccolò che scoprì l'uso dei chiodi di garofano in cucina e l'appiccò all'"orto" della vana Siena. Questi accenni sono ironici come quello di Bonturo Dati a proposito dei barattieri di Lucca, e evidenziano il tenore comico del canto. E il dannato prosegue dicendo di non indicare nemmeno la brigata (la cosiddetta "brigata spendereccia") che scialacquò la vigna e i poderi di Caccianemico d'Asciano e nella quale diede prova di oculato senno (!) l'Abbagliato (soprannome di Bartolomeo dei Folcacchieri). Siena all'epoca in cui Dante scriveva era una delle città più ricche d'Europa, probabilmente più di Firenze stessa, e destavano molto scandalo gli sperperi che alcuni ricchissimi cittadini potevano permettersi. Non è un caso che uno dei due peccatori citati tra gli scialacquatori a tempo debito (Inferno XIII, vv. 118-121) fosse un senese, Lano da Siena.

A questo punto il secondo dannato si presenta come Capocchio, un personaggio sul quale si hanno scarsissime informazioni, e che lui stesso si definisce come falsario di metalli con l'alchimia.

« "E te dee ricordar, se ben t'adocchio,
com'io fui di natura buona scimia". »
(vv. 138-139)


In chiusura di Canto poi ricorda che, se ha ben riconosciuto Dante, lui dovrebbe avere a mente come fu "scimmia" per natura (la scimmia era l'animale imitatore per eccellenza, che imita l'uomo "scimmiottandolo", appunto) o della natura (più probabilmente la seconda opzione, per similitudine con numerosi altri passi nell'italiano antico nel quale "esser scimmia di" era una specie di frase fatta).

Edited by demon quaid - 25/3/2016, 16:01
 
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