Un Mondo Accanto

Distruzioni del patrimonio artistico

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morgana1869
view post Posted on 4/5/2013, 07:53     +1   -1




Duomo di Torino






Duomo longobardo

L'attuale Duomo sorge in uno dei punti più ricchi di storia della città di Torino, a pochi passi dall'area archeologica e pressoché adiacente al Teatro Romano dell'antica Julia Augusta Taurinorum,. L'area sacra, anticamente, era costituita da ben tre chiese paleocristiane in stile romanico, probabilmente edificate sulla base di edifici pubblici o templi pagani preesesitenti, dedicate a San Salvatore, a Santa Maria di Dompno e, appunto, a San Giovanni Battista. Principale fra le tre, si pensa, a tal ragione, che la consacrazione dell'edificio al Battista sia da far risalire ai Longobardi e con precisione ad Agilulfo (re dal 591 al 615), la cui moglie, Teodolinda, fece proclamare san Giovanni patrono del regno.

La chiesa fu teatro di un fatto che particolarmente scosse la città del tempo, esattamente alla morte del re Rodoaldo, quando re Ariperto I prese il trono. Duca di Asti, Ariperto I volle a succedergli i figli Pertarito e Godeperto, tra i quali scoppiò una cruenta lotta per il potere. Garibaldo, duca di Torino, appoggiatosi a Grimoaldo, duca di Benevento, decise di sostentere Godeperto, almeno in apparenza: lo scopo era, evidentemente, il trono. Giunto a Pavia, nel 662, Grimoaldo assassinò Godeperto, mentre Pertarito scappava. Convinto di non aver lasciato, così, tracce, Garibaldo si recò in San Giovanni, nella domenica di Pasqua di quello stesso anno, per assistere alla funzione: venne colpito alla schiena da un "homunculus" della cerchia di Godeperto che, così, vendicava il suo padrone. A succedere al duca assassinato fu Ragimperto.

La ricostruzione rinascimentale


Le tre chiese principali della città vennero abbattute tra il 1490 e il 1492; Il campanile o Torre campanaria, costruito precedentemente e terminato solo nel 1469, come opera voluta dal vescovo Giovanni di Compeys e dedicato a Sant'Andrea, non venne invece toccato, e resta ancor oggi visibile a fianco del duomo nei sui primi 48 metri di altezza.
Il 22 luglio 1491 la reggente di Savoia, vedova di Carlo I, Bianca di Monferrato, posò la prima pietra del nascente duomo, sempre dedicato a San Giovanni: la costruzione, voluta fortemente sia dal duca sia dal vescovo, Domenico della Rovere, venne affidata ad Amedeo de Francisco di Settignano, detto anche Meo del Caprino, che la portò a termine in sette anni, concludendo i lavori nel 1505; il 21 settembre di quell'anno si ebbe la consacrazione, con una messa solenne tenuta dall'arcivescovo di Laodicea, Baldassarre Bernezzo, poiché il nuovo vescovo della città, Giovanni Ludovico della Rovere, era in quel momento a Roma a perorare la sua causa contro l'abate di San Mauro Torinese che minacciava di staccarsi dalla diocesi di Torino.

Se la realizzazione della struttura fu affidata al Caprino, non è ben chiaro chi avesse curato il progetto. Alcuni fanno il nome di Baccio Pontelli, che lavorò anche per Papa Sisto IV; altri accreditano anche il disegno dell'opera allo stesso Caprino.
Nel 1515, Leone X, parente del vescovo, elevava a sede metropolitana la oramai terminata chiesa di San Giovanni.

L'ampliamento secentesco



Il progetto per un ingrandimento del duomo, col fine di creare un degno ambiente per la conservazione della Sindone, risale al 1649, quando Bernardino Quadri, in seguito a screzi con Francesco Borromini avvenuti sul cantiere della Basilica di San Giovanni in Laterano, giunge a Torino, alla corte di Carlo Emanuele II.

L'idea del Quadri si basava sulla correzione del precedente progetto di Carlo di Castellamonte, che prevedeva una cappella ovale posta alle spalle del coro dell'edificio, erigendo così un ambiente a pianta circolare, ma nella pratica, la cupola dell'architetto luganese non superava, per altezza e per imponenza, la mole del Duomo.

Nel 1667 venne così chiamato a concludere l'opera Guarino Guarini, dal 1666 già attivo nella Real Chiesa di San Lorenzo, poco lontano dal duomo. La cupola, i cui lavori durarono ventotto anni, venne terminata nel 1694, con messa solenne. Il visitatore doveva essere certamente impressionato dall'eleganza della struttura, dai marmi che, da neri nella parte bassa, andavano sempre più schiarendosi verso la sommità.

Per volere di re Carlo Alberto il duomo venne ulteriormente impreziosito da una copia su tela dell'Ultima Cena di Leonardo da Vinci. Questa fu realizzata da Luigi Cagna nel 1835 e venne ancorata alla controfacciata della chiesa, unico punto in grado di reggere gli oltre 900 chili dell'opera.

Come ricordano alcune lapidi, in cattedrale vennero sepolti anche tre nunzi pontificii a Torino. Si tratta di: Francesco Bacod, vescovo di Ginevra, morto il 1º luglio 1568; Corrado Tartarini di Città di Castello, vescovo di Forlì, morto nel 1602, e Giambatista Lando, morto nel 1648.

Il campanile esterno, o Torre campanaria, dedicato a Sant'Andrea visibile oggi risente di alcune modifiche del 1720 specie nell'altezza, che vennero affidate dal regnante Vittorio Amedeo II all'architetto Juvarra. Quest'ultimo lo sopraelevò di 12 metri, in stile barocco, portando la torre ad un'altezza complessiva di metri 60 .

Il Duomo oggi

Il prezioso monumento della Sindone venne gravemente danneggiato nella notte tra l'11 e il 12 aprile 1997, quando un incendio distrusse gran parte dell'opera guariniana. La Sacra Reliquia, invece, venne portata in salvo grazie all'operato dei vigili del fuoco. Dopo l'incendio la chiesa ha subito il restauro della facciata e degli interni sotto la supervisione dell'architetto Maurizio Momo. Nel contempo è stata realizzata la nuova teca della Sindone in cui il Sacro Lino è conservato disteso e in atmosfera controllata. Sotto la chiesa principale il restauro ha riportato allo stato primitivo la chiesa sotterranea, di pari dimensioni, dove è stato realizzato il Museo diocesano di Torino



Architettura

Il Duomo di Torino è inconfondibile nel panorama cittadino: è l'unico esempio ancora visibile dell'arte rinascimentale in città.
All'esterno si presenta con una facciata rinascimentale in marmo bianco, con tre portoni di cui, quello centrale, principale, sormontata da un timpano e affiancata da due volute.

Sul lato sinistro vi è la torre campanaria in forme romaniche, realizzata verso il 1470 e ulteriormente sopraelevata nel 1720 da Filippo Juvarra.

Visibile, oggi non più coperta da ponteggi, la Cupola del Guarini, dietro la già presente cupola di San Giovanni. I lavori di restauro proseguono all'interno della Cappella.

Al visitatore l'edificio si presenta austero, diviso in tre navate e costruito su pianta a croce latina. Arricchito un po' in ogni secolo, l'interno del Duomo si presenta oggi decorato, ai lati, da numerose cappelle, nelle quali lavorarono svariati artisti e decoratori, quali i torinesi Gonin e Vacca, gli architetti Martinez e Talucchi, Guglielmo Caccia, detto il Moncalvo, Dauphin e molti altri.
La sontuosa Tribuna Reale si deve alla volontà di Carlo Emanuele III di Savoia; sotto di essa, in una teca, è custodita provvisoriamente, dal 1998, la Sindone, mostrata ai fedeli in occasione delle grandi ostensioni.


Monastero di San Pietro in Ciel d'Oro



Il Monastero di San Pietro in Ciel d'Oro di Pavia, situato accanto alla omonima Basilica, fu uno dei più importanti monasteri maschili di Pavia.

Accanto alla Basilica di San Pietro in Ciel d'Oro, dopo che essa aveva accolto le spoglie di Sant'Agostino, fu fondato un monastero maschile.

La tradizione vuole che la basilica sia stata fondata dal re longobardo Liutprando per ospitare le spoglie di sant'Agostino, comprate in Sardegna da pirati saraceni, che le avevano trafugate da Ippona, attualmente in Algeria.

Il monastero fu dato ai monaci colombaniani di San Colombano, fondatore a Bobbio nel 614 della potente Abbazia di San Colombano collegata attraverso la Via Francigena. Ma collegata anche con la Liguria sulle direttrici Pavia, Bobbio, Val Trebbia, Genova o Val Trebbia, Val d'Aveto, Rezzoaglio, Chiavari.

Il monastero controllava ampi territori sia nel pavese che in Piemonte ed in Liguria.

Nella scuola del monastero famosa per il suo prestigio vi si formò come monaco Paolo Diacono, che divenne storico e poeta dei Longobardi, scrivendone la storia; ma anche Carlo Magno si avvarrà dello storico.

Dopo il 1000, in epoca comunale i monaci colombaniani lasciarono il cenobio pavese a causa dei disordini e si trasferirono sull'Appennino ligure, dando vita al monastero di Pietramartina di Rezzoaglio; a Pavia rimasero attive due chiese dedicate al santo irlandese Colombano fino al XVI secolo, di cui solo di una ne è rimasta traccia. Non si è al corrente se alcuni monaci in seguito vi fecero ritorno ripopolando il monastero.

Esso sorgeva sul lato sinistro della basilica, affacciandosi anche sul lato settentrionale della piazza antistante. Era un complesso imponente, dove trovarono ospitalità Re e Imperatori quando risiedevano a Pavia. Era esente dalla giurisdizione vescovile, e possedeva (grazie a cospicue donazioni da parte di molti Imperatori) la proprietà e i diritti signorili su molte terre, a Lardirago e Villanterio (località su cui il monastero esercitava la giurisdizione signorile), Pavone (Pietra Marazzi), Voghera e Casei Gerola, e altre nel Lodigiano, nel Milanese e persino in Toscana e nell'attuale Svizzera.

Nel 1213 avvenne un fatto increscioso: l'Abate del monastero fu ucciso da alcuni monaci; il papa Onorio III decise di sopprimere dunque il monastero, che fu trasformato in Canonica e affidato ai Canonici regolari di Mortara. La canonica ereditò le terre e i diritti signorili che aveva posseduto il monastero.

Poco più tardi il papa Giovanni XXII affiancò a questi i padri Eremitani di Sant'Agostino, o Agostiniani, com'era giusto per la chiesa che conteneva la preziosa reliquia del patrono di questo ordine. Inizialmente le due corporazioni religiose vissero nello stesso edificio, ma successivamente, per sanare i contrasti che questa situazione provocava, gli Agostininiani eressero un loro convento dal lato opposto della basilica (1332), affacciato sul lato orientale della piazza omonima. Questo convento, oltre a condividere la Basilica con i Canonici, aveva anche una propria chiesa dedicata alla Vergine.

Nel 1465 la carica di abate della canonica fu dato in commenda; nel 1509 i Canonici Regolari furono uniti all'ordine Lateranense. Tra Lateranensi ed Agostiniani esistevano ancora dei dissapori circa l'uso e l'officiatura della basilica: solo nel 1635 si giunse alla convenzione che gli Agostiniani utilizzassero la navata destra, i Lateranensi quella sinistra; l'altare maggiore e il coro rimanevano in comune e nell'officiatura i due ordini si alternavano mensilmente.

I Canonici Lateranensi furono soppressi nel 1781; per alcuni anni la Canonica, posta alla sinistra della Basilica, fu affidata ai Francescani, ma nel 1799 il locale fu confiscato, destinato ad usi diversi. Attualmente lo stabile appartiene al Genio militare. A loro volta gli Agostiniani furono allontanati dal loro convento nel 1785, e vi subentrarono i Domenicani, ma anche questo stabile nel 1799 fu confiscato, in parte demolito e in parte venduto a privati.

Dopo il riscatto, il restauro e la riconsacrazione della Basilica, attuati all'inizio del XX secolo, anche il convento agostiniano è ritornato all'antico uso, ed è sede dei Padri Agostiniani dell'Ordine di S.Agostino di Pavia.


Monastero di San Salvatore (Pavia)




Il Monastero di San Salvatore fu un antico e potente monastero di Pavia.

Esso sorgeva presso l'attuale chiesa di San Salvatore, comunemente detta di San Mauro, in Via della Riviera, e si estendeva nell'area oggi occupata dalla caserma del Genio militare. La chiesa fu fondata nel 657 dal re longobardo Ariperto I, probabilmente per celebrare la definitiva conversione dei Longobardi al cattolicesimo (Historia Langobardorum, IV 48); vi operarono i monaci di san Colombano di Bobbio che gestivano altri monasteri e chiese sia a Pavia che nei dintorni, come il Monastero di San Pietro in Ciel d'Oro. In essa furono seppelliti lo stesso Ariberto, il figlio Pertarito (il cui sepolcro ancora vi si trova) e il figlio di Pertarito Cunincperto.

Forse presto alla chiesa venne unito un monastero maschile, ma solo nel X secolo esso assurse a grande rinomanza, per impulso di San Maiolo di Cluny e dell'imperatrice Adelaide. Quest'ultima fu larghissima nel dotare il monastero di rendite terriere, che si trasformarono presto in vera signoria feudale: le corti regie di Corana e Corteolona, Monticelli Pavese, Valeggio, Garlasco, Borgo San Siro, Fresonara, Pasturana, Novi Ligure sono solo alcuni dei luoghi (situati per lo più nelle province di Pavia e Alessandria) che formarono, in parte fino al XVIII secolo, la principesca dotazione di questo monastero. Esso ebbe sempre la qualifica di Abbazia e dipendeva direttamente dal Papa. Successivi re e imperatori (Ottone II, Arduino, Enrico II, Corrado II, Enrico IV e Federico I) continueranno a confermare e ampliare le prerogative del monastero. Pur essendo fin dalle origini legato all'ambito cluniacense, non dipendeva dall'abbazia di Cluny.

L'edificio si trovava su una strada importantissima, che attraverso il porto di Santa Sofia proseguiva per la Lomellina, e costituiva un tratto della via Francigena. L'edificio era a sua volta tanto confortevole che fu spesso scelto per dare ospitalità a papi e imperatori. Fu anche sede provvisoria dell'amministrazione regia, quando i pavesi nel 1024 distrussero il palazzo reale situato in città.

Il monastero di San Salvatore, legato fin dalle origini ai sovrani longobardi e italici e agli imperatori, declinò insieme all'influenza di questi ultimi in Italia; così, sotto la pressione dei Comuni e delle Signorie, perse temporaneamente o definitivamente molte delle signorie feudali e dei beni terrieri.

Nel 1446 il papa Eugenio IV unì il monastero di San Salvatore alla congregazione cassinese di Santa Giustina in Padova. La chiesa fu ricostruita tra il 1497 e il 1511 in forme tardo-gotiche o protorinascimentali (su progetto forse di Giovanni Antonio Amadeo). Nel 1782 il monastero fu soppresso, e nel 1860 al suo posto venne installata una caserma dei Pontieri. La chiesa stessa allora fu sconsacrata, per essere riaperta al culto il 21 marzo 1901 come Parrocchia del Santissimo Salvatore (o San Mauro).


Monastero di Santa Maria delle Cacce




Il Monastero di Santa Maria delle Cacce si trova a Pavia.

Storia

Fondato nell'VIII secolo da un re longobardo, Rachis o Desiderio, era abitato da monache benedettine. Inizialmente chiamata "Santa Maria foris portam" poiché si trovava appena fuori dalla più antica cinta della città, presso la porta all'estremità orientale del decumano massimo, assunse l'attuale denominazione dal XIV secolo, forse perché sorgeva presso un parco reale destinato alla caccia. La zona fu inclusa all'interno della città con l'ampliamento della cinta nel X secolo. Nello stesso periodo iniziò la grandezza del monastero, ad opera soprattutto dell'imperatrice Teofano, che ne fece ampliare e ricostruire gli edifici e concesse privilegi e terre. Queste si concentravano soprattutto nell'Oltrepò Pavese, a Montalto Pavese, Oliva Gessi e Casteggio; in particolare il possesso di Mairano presso Casteggio durò fino alla soppressione del monastero. In queste zone il monastero ebbe anche il giuspatronato su molte chiese.

Nel XVIII secolo il monastero, che rimase sempre nell'ordine benedettino, contava circa cinquanta monache, ed era uno dei principali della città. Nel 1799, come quasi tutti i monasteri pavesi, fu soppresso e i suoi beni incamerati.

Architettura

L'edificio del monastero e la chiesa esistono ancora: si trovano in Via Scopoli, in posizione aperta ed elevata. Il chiostro cinquecentesco, arioso e armonico, è utilizzato come edificio scolastico. La chiesa della fine del XVII secolo è un grazioso edificio barocco, che conserva una finestrella e una colonnina forse del primitivo edificio longobardo.



Monastero di Santa Maria Teodote



Il monastero di Santa Maria Teodote, detto anche di Santa Maria della Pusterla, fu uno dei più antichi e importanti monasteri femminili di Pavia. Fondato nel VII secolo, sorgeva nel luogo ove oggi si trova il seminario diocesano e fu soppresso nel XVIII secolo.

Storia

Fu fondato nel VII secolo, durante il regno del re longobardo Cuniperto, dal nobile Gregorio, probabilmente di stirpe romanica[senza fonte] e ospitava una cappella (od oratorio) intitolata a San Michele, l'angelo guerriero particolarmente venerato dai Longobardi. Il monastero era detto "della Pusterla" a causa della prossimità di una piccola porta della città o "di Teodote" perché legato alle vicende dell'amante di re Cuniperto, che fu accolta nel monastero; è stato tuttavia anche ipotizzato che lo stesso sovrano lo abbia fondato proprio per rinchiudervi la giovane.

Come gli altri antichi monasteri pavesi, ebbe grande prosperità nell'epoca in cui Pavia fu capitale: ricevette ampie donazioni e privilegi, anche da parte di numerosi re e imperatori da Lotario I (833) fino a Federico I. Aveva terre a Borgo San Donnino, a Villanova d'Ardenghi e soprattutto a Zenevredo, nell'Oltrepò Pavese, dove univa alla proprietà fondiaria dell'intero territorio la signoria feudale, che durarono entrambe dal Medioevo fino alla fine del XVIII secolo. Il paese stesso era detto perciò "Zenevredo della Pusterla".

Il monastero, che era un'abbazia benedettina nel 1473 fu unito alla congregazione cassinese. Nel 1778 vi dimoravano ben quarantatré monache, ma nel 1799, come gli altri grandi monasteri della città, fu soppresso dalle istituzioni della Repubblica Cisalpina e i suoi beni incamerati. A differenza però degli altri monasteri, ritornò ben presto a un utilizzo religioso, in quanto vi fu collocato il seminario vescovile, che ancora vi ha sede. Per questo è forse il meglio conservato degli antichi monasteri cittadini.

Architettura

Dall'oratorio longobardo, perduto come l'intero complesso altomedievale, provengono i Plutei di Teodote, tra i più alti esemplari di scultura longobarda pervenuti fino ai nostri giorni.

Il monastero si trova in Via Menocchio, di fronte allo sbocco di via della Pusterla, accanto a quanto rimane di un altro importante cenobio, quello di San Bartolomeo in Strada. L'ampio chiostro, quattrocentesco e in parte più antico, è arioso ed elegante, con ampie arcate sorrette da sottili colonne di marmo. Tra gli archi si vedono i tondi a forma di conchiglia, con busti di monache oranti; varie decorazioni in cotto ornano gli archi e i portali. La chiesa principale, che si apre verso la strada, è del 1604.

Molto graziosa la chiesetta del Salvatore, anch'essa quattrocentesca, a croce greca, con cupolette centrale e angolari, coperte come le pareti di affreschi di Bernardino de' Rossi.
 
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morgana1869
view post Posted on 7/5/2013, 07:18     +1   -1




Palazzo Reale (Monza)






Il Palazzo Reale di Monza fu la residenza estiva della corte longobarda a partire dall'ultimo scorcio del VI secolo. L'edificio è stato distrutto tra XIII e XIV secolo insieme all'attigua basilica di San Giovanni, per far posto al nuovo Duomo di Monza.

Storia


Il palazzo fu costruito per volere della regina Teodolinda alla fine del VI secolo, a partire dal 595 circa. Sorgeva ai limiti dell'abitato di Monza, allora piccolo borgo, in prossimità del fiume Lambro[1]. Paolo Diacono precisa che anche Teodorico il Grande aveva eretto in Monza un proprio palazzo, «perché la zona, vicina alle Alpi, è temperata d'estate e salubre». Paolo Diacono ricorda anche che gli interni del palazzo erano affrescati con episodi tratti dalla storia dei Longobardi; tali pitture testimoniavano, fra l'altro, l'abbigliamento e l'acconciatura tradizionale del popolo germanico

I lavori di costruzione furono eccezionalmente rapidi, tanto da essere conclusi già nel 602 (al più tardi, agli inizi del 603), quando vi nacque il figlio di Teodolinda e Agilulfo, il futuro re Adaloaldo. L'erede al trono nel 603 fu battezzato con rito cattolico da Secondo di Non nell'adiacente basilica di San Giovanni, inizialmente cappella palatina della stessa residenza. Il palazzo fu utilizzato come residenza estiva dalla coppia reale, che aveva trasferito provvisoriamente la capitale del Regno longobardo da Pavia a Milano.

Una torre longobarda, alta venti metri, tuttora esistente ed inglobata nel complesso absidale dell'attuale Duomo, è forse un residuo dell'antico Palazzo Reale.


Palazzo Reale (Pavia)



Il Palazzo Reale era la più importante opera dell'architettura longobarda civile di Pavia, capitale del Regno longobardo dal 625 alla caduta del regno, nel 774, e ospitava la corte dei re dei Longobardi e d'Italia. L'edificio, più volte modificato durante l'età longobarda, è stato distrutto nell'XI secolo.




Storia

Entrati in Italia nel 568, i Longobardi riuscirono a espugnare Pavia soltanto nel 572, dopo tre anni di assedio. Il palazzo reale esisteva già, eretto ai tempi di Teodorico il Grande, e il re dei Longobardi, Alboino, vi si installò. Da allora il palazzo fu teatro di numerosi eventi significativi della storia longobarda, registrati da Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum.

Nel 662 il duca di Benevento, Grimoaldo, alloggiò a palazzo per "proteggere" il nuovo e debole re Godeperto; tuttavia il duca tradì, pare su istigazione del duca di Torino Garibaldo, e uccise il sovrano nella stessa residenza regia, per poi usurparne il trono e installarsi nello stesso palazzo.

Durante il suo secondo periodo di regno (671-688) Pertarito edificò presso il palazzo una nuova porta nella cinta muraria, Porta Palatina, «con un lavoro straordinario». Dopo la morte di Pertarito il palazzo fu brevemente occupato dall'usurpatore Alachis (688-689), prima di esserne definitivamente sloggiato dal legittimo sovrano, Cuniperto.

Il tesoro reale conservato nel palazzo fu depredato da Ariperto II, in fuga verso il Regno franco incalzato da Ansprando; appesantito dal carico, tuttavia, sprofondò nel Ticino e affogò. Il successore di Ansprando, Liutprando, sventò a palazzo la congiura di Rotari, che affrontò personalmente prima che fosse ucciso dalle sue guardie. Lo stesso Liutprando arricchì il palazzo di una cappella palatina intitolata al Signore e Salvatore, presso la quale istituì un collegio sacerdotale che cantava ogni giorno l'ufficio divin.

Dopo la caduta del Regno longobardo (774) il palazzo divenne sede del conte palatino di Pavia, di nomina imperiale; fu distrutto nel 1024, alla morte dell'imperatore Enrico II.



Torre di Capodiferro





La Torre di Capodiferro fu una torre costiera edificata lungo le coste del Mar Tirreno, presso il fiume Garigliano, nel X secolo, distrutta nel XX.





Storia

Fu edificata su preesistenti fondazioni romane in opus reticulatum sulla sponda sud del Garigliano dal principe longobardo Pandolfo Capodiferro tra il 930 e il 960. Fu anche identificata nelle antiche mappe come "Turris ad Mare". La fortificazione serviva a sorvegliare la foce del fiume da eventuali attacchi dei Saraceni. Faceva parte di un articolato sistema di torri simili edificate lungo tutta la linea di costa e nell'immediato interno, che attraverso l'accensione di fuochi o segnali acustici avvertivano le genti delle città interne della presenza o meno di eventuali truppe ostili[senza fonte]. I Saraceni erano stati scacciati dall'area nel 915 da una coalizione guidata da papa Giovanni X. Erano arrivati presso Traetto nel 881 e qui erano rimasti per circa quarant'anni, da qui partivano per devastare e saccheggiare mezza Italia. La torre di avvistamento a pianta quadrata era alta circa 25 metri e circa 13 metri di lato. Il principe Capodiferro per costruirla fece prendere gran parte dei materiali costruttivi e decorativi dalle rovine della vicina città di Minturnae. L'edificazione della torre da parte del principe Pandolfo è attestata da due cippi ora murati nel campanile del duomo di Gaeta.

Il presidio entrò nel 1066 tra i possedimenti dell'abate di Montecassino. L'atto di donazione di Riccardo e Giordano, principi di Capua, attesta che il sito era divenuto un piccolo borgo fortificato, con un nucleo di case e una chiesa, circondate da mura. Fu usata anche come faro a partire dal XVII secolo[senza fonte].

La torre sorgeva sulla sponda campana del Garigliano, quasi di fronte al tempio edificato sulla sponda laziale, dove gli Italici prima ed i Romani poi veneravano il culto della ninfa Marica. Alle spalle della torre si estendeva un bosco sacro dedicato a questo culto. La presenza di opus reticulatum fa pensare ad un preesistente edificio di culto per la dea.

Nel XX secolo il ministro della Pubblica istruzione Pietro Fedele, che inserì la sagoma della Torre di Capodiferro nel suo neo-stemma nobiliare[senza fonte], la restaurò e ne fece un museo. La Torre fu minata, insieme al ponte borbonico, dai soldati tedeschi in ritirata dall'avanzata degli anglo-americani e fatta brillare nel dicembre 1943. La collezione che custodiva finì depredata e dispersa.

Il museo

Nel "Museo della Civiltà aurunca" Fedele riunì un grosso numeri di reperti di varie epoche e la sua biblioteca personale. Formavano la raccolta incentrata su pezzi databili tra l'VIII secolo a.C. e il 1936, centinaia di monete d'oro, d'argento e di bronzo delle età romana e medioevale, vasellame ausone, etrusco ed egizio, opere del periodo borbonico, documenti autografi di Mazzini e di Garibaldi e due reperti trafugati dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale e rimpatriati nel 2007: la Tabula patronatus di Flavio Teodoro e un'Artemide acefala (marmo di età imperiale).


Arco di Augusto (Foro Romano)







L'arco di Augusto è un arco trionfale eretto nel Foro Romano in onore di Augusto. Ci sono stati tramandati due archi in onore di Augusto nel Foro, l'"arco partico" e l'"arco aziaco". Dopo vari studi e saggi archeologici si è infine potuto appurare che si trattava di due opere distinte, collocate a distanza ravvicinata.

L'arco di Augusto era simmetrico rispetto al tempio del Divo Giulio all'arco di Gaio e Lucio Cesari, e chiudeva quindi scenograficamente il lato est del Foro Romano, secondo la nuova disposizione dell'età di augusto che aveva escluso alla vista i più antichi monumenti della Regia e del tempio di Vesta.

Arco aziaco



Le fonti antiche ci informano che un arco in onore di Ottaviano venne eretto nel Foro dopo la battaglia di Azio (31 a.C.) e la conquista dell'Egitto (30 a.C.), in occasione del trionfo di Ottaviano nel 29 a.C. Quest'arco è conosciuto come "arco aziaco". Una lunga iscrizione (m. 2,67) di questo arco venne ritrovata nel 1546, con dedica ad Augusto e la data del 29.


Arco partico


Sempre secondo le fonti antiche, un secondo arco in onore di Augusto, venne eretto dal Senato in luogo imprecisato nel 19 a.C., dopo la riconsegna delle insegne dell'esercito romano di Crasso sconfitto a Carre nel 53 a.C. dai Parti, ed è conosciuto come "arco partico". L'arco era a tre fornici e decorato da statue e iscrizioni: le fonti ricordano la quadriga imperiale collocata al di sopra del fornice centrale, mentre quelli laterali presentavano statue dei Parti, uno dei quali (nel rilievo di destra) era nell'atto di restituire le insegne.

Le fondazioni di un arco sono tuttora visibili nel Foro Romano presso i resti del tempio del Divo Giulio. L'aspetto dell'arco è stato ricostruito tramite alcuni frammenti architettonici superstiti, la forma delle fondazioni e alcune testimonianze iconografiche, come un rilievo con la Vittoria a Copenaghen e una moneta del 17-15 a.C. che lo rappresenta.

Si trattava di un arco a tre fornici: quello centrale era voltato a botte, affiancato da due vittorie alate e dotato di un alto attico dove era posta la Quadriga di Augusto trionfatore; i due fornici laterali erano dei passaggi architravati, con le aperture incorniciate dal lesene (non semicolonne come sull'apertura centrale) e dotate di timpano, mentre sulla loro sommità si trovavano statue dei Parti sottomessi. Nei passaggi laterali esistevano anche due edicole poco profonde dove erano affissi i fasti consolari (le liste su marmo dei consoli); sui pilastri che sostenevano le architravi si trovavano invece incisi i fasti trionfali (liste dei trionfatori dall'inizio della Repubblica). Questa usanza era molto significativa, ed era un chiaro segnale della volontà di Augusto di erigersi a conservatore e restauratore della costituzione repubblicana, mentre nella realtà stava profondamente cambiando la struttura statale; in un certo senso è emblematico della politica di dimostrare come la tradizione romana confluisse naturalmente nel suo principato, che riassumeva la storia dell'intera Roma.

Identificazione

L'attribuzione di questi resti all'uno o all'altro dei due archi citati dalle fonti è discussa: secondo alcuni l'"arco aziaco" sarebbe presto crollato e venne quindi sostituito nello stesso luogo dall'"arco partico", a cui apparterrebbero i resti visibili. Secondo altri invece questi resti sarebbero attribuibili al primo arco, mentre il secondo sarebbe stato costruito dal lato opposto rispetto al tempio del Divo Giulio. Una soluzione è venuta fuori da scavi negli anni '70 del XX secolo: leggermente più a est delle fondazioni dell'arco partico sono state ritrovate le tracce di un arco a un solo fornice, evidentemente quello del 29, che nel 19 venne sostituito dall'arco partico sul quale fu probabilmente affissa l'iscrizione dell'arco più antico. La cancellazione dell'arco aziaco può essere inquadrata anche nella propaganda augustea di nascondere le tracce delle guerre civili.

Valore architettonico

L'arco può essere considerato una pietra miliare nell'architettura romana perché vi si trovano già i tre fornici (come nella porta Esquilina, detta popolarmente arco di Gallieno), ma le aperture non sono ancora fuse in un organismo unitario, come avveniva nelle porte nelle mura. Lo stesso uso del fornice inquadrato da pilastri e timpano ebbe una diffusa applicazione nelle porte urbiche e negli archi trionfali e onorari per tutto il I secolo d.C., tra le quali si annoverano la porta di Spello, di Ravenna, di Rimini, di Verona e gli archi di Aosta e Orange.


Arco di Claudio







L'Arco di Claudio era un antico arco di Roma, situato sulla via Lata (attuale via del Corso), all'altezza di piazza Sciarra, subito dopo via del Caravita.




Storia e descrizione

L'arco era stato eretto nel 51 o 52 per commemorare la conquista della Britannia del 43 ad opera di Claudio, monumentalizzando un'arcata dell'acquedotto dell'Aqua Virgo

Si trattava di un arco a un solo fornice, decorato con statue dei membri della famiglia imperiale e con trofei. Un grande frammento dell'iscrizione si trova oggi nel cortile del palazzo dei Conservatori (Musei Capitolini), mentre altri frammenti scultorei si trovano sia al Museo Capitolino che nella galleria Borghese.


Arco di Portogallo






L'arco di Portogallo (conosciuto anche come arcus de Trofoli o de Tripolis e arcus triumphalis) era un antico arco di Roma, situato sulla via Lata (attuale via del Corso), poco prima di via della Vite.

Prende il nome dalla allora residenza dell'ambasciatore del Portogallo, palazzo Fiano, a cui si appoggiava.


Storia e descrizione

La datazione è controversa, alcuni nel passato hanno addirittura sostenuto che non fosse un'opera antica. La maggior parte degli studiosi attribuisce però l'arco all'età tardo-antica, forse all'età di Aureliano, costituendo uno degli accessi monumentali al suo tempio del Sole. Due rilievi che da esso provengono, con l'Apoteosi di Sabina (moglie di Adriano) e un Discorso di Adriano sono opera di riciclo dell'età dei primi Antonini (metà del II secolo).

Era costruito in blocchi di peperino e travertino, con l'attico in laterizio (mattoni). Le colonne, con capitelli compositi che inquadravano il fornice unico furono in parte eliminate, insieme alla trabeazione, tra il 1550 e il 1565.

Alcuni pannelli con rilievi datati all'epoca di Adriano o Antonino Pio, provenienti dall'arco demolito, sono collocati nei Musei Capitolini.

Fu demolito nel 1662.
 
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morgana1869
view post Posted on 8/5/2013, 07:34     +1   -1




Arco di Scipione l'Africano



L'arco di Scipione l'Africano era uno dei più antichi archi di trionfo di Roma, non più esistente. Si trovava nei pressi del tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio ed era stato eretto da Scipione l'Africano, appunto, nel 190 a.C.

Il fornice era situato sulla via che saliva al Campidoglio non distante dalla casa di Publio Cornelio Scipione, detto l'Africano, (sul sito dell'attuale Basilica Giulia) ed era decorato con sette statue dorate e due statue equestri, dove erano raffigurati i membri più importanti della famiglia degli Scipioni. Davanti si trovavano due fontane marmoree (labra).


Arco di Tiberio




L'arco di Tiberio era un arco trionfale nel Foro Romano, collocato sul Vicus Iugarius poco dopo l'incrocio con la Via Sacra e adiacente al Tempio di Saturno.

Era stato eretto nel 16 d.C. da Tiberio per celebrare le campagne vittoriose del figlio adottivo Germanico. Era il terzo arco agli angoli della piazza del Foro, completato nel 203 dal quarto arco, dedicato a Settimio Severo. Dell'arco esiste una raffigurazione sul rilievo dell' Oratio nell'Arco di Costantino, ambientata proprio nei vicini Rostri.

Di questo arco, oggi, non rimane alcuna traccia.



Arcus Novus







L'Arcus Novus era un antico arco di Roma, situato sulla via Lata (attuale via del Corso), all'altezza della chiesa di Santa Maria in Via Lata.

L'arco, dedicato a Diocleziano per i decennalia (dieci anni di regno) del 293, o per il trionfo celebrato a Roma insieme a Massimiano nel 303-304. Il nome ("Arco Nuovo") deriva probabilmente dal voluto collegamento con il precedente arco di Claudio, che sorgeva poco distante sulla stessa via.

L'arco era decorato di rilievi reimpiegati da un grande altare di epoca claudia (probabilmente l'ara Pietatis), mentre due piedistalli di colonne decorati con Vittorie, barbari prigionieri e i Dioscuri provenivano forse dalla facciata del vicino tempio del Sole di Aureliano.

L'arco venne distrutto nel 1491 per ordine di papa Innocenzo VIII.

Frammenti dei rilievi furono rinvenuti nel 1523 e passarono alla collezione Della Valle e quindi alla collezione Medici: i due piedistalli furono utilizzati nei Giardino di Boboli a Firenze, mentre gli altri frammenti (di epoca antoniniana) furono riadoperati da Diocleziano e poi finiti nella facciata posteriore di Villa Medici a Roma. Altri frammenti dei rilievi dell'altare furono rinvenuti in scavi del 1923-1933 e sono attualmente conservati nella sede della Centrale Montemartini dei Musei Capitolini.



Atrium Libertatis






L'Atrium Libertatis era un monumento dell'antica Roma, sede dell'archivio dei censori, situato sulla sella che univa il Campidoglio al Quirinale, a breve distanza dal Foro Romano.

La sua prima menzione risale al 212 a.C. e venne ricostruito dai censori del 194 a.C.

Una seconda integrale ricostruzione venne curata da Gaio Asinio Pollione a partire dal 39 a.C., con il bottino ricavato dal suo trionfo sugli Illiri, forse in attuazione di un progetto già concepito da Cesare a completamento del Foro di Cesare, inaugurato nello spazio tra la sella montuosa dove sorgevano l'Atrium Libertatis ed il Foro Romano solo pochi anni prima. Il monumento doveva essere completato entro il 28 a.C.

Si trattava di un complesso di grandi dimensioni, che comprendeva oltre all'archivio dei censori, con le liste dei cittadini e le tavole di bronzo con le mappe dell'ager publicus, due biblioteche e forse una basilica (basilica Asinia).

Le fonti ricordano nel complesso la presenza di numerose opere d'arte di celebri scultori, sia di gusto neoattico sia dello stile più "barocco" delle scuole microasiatiche, tra le quali il gruppo scultoreo con il Supplizio di Dirce degli scultori Apollonio e Taurisco. Vengono menzionate anche delle Appiadi, opera dello scultore Stephanos, che Ovidio cita invece in relazione al vicino tempio di Venere Genitrice nel Foro di Cesare.

L'edificio scomparve agli inizi del II secolo, in seguito all'eliminazione della sella montuosa sulla quale sorgeva per la costruzione del Foro di Traiano. Le sue funzioni furono ereditate dall'insieme costituito dalla Basilica Ulpia e dalle due biblioteche collocate ai lati della colonna di Traiano. In particolare la cerimonia di manomissione degli schiavi doveva svolgersi in una delle absidi della basilica Ulpia.

Il nome di Atrium Libertatis passò anche in epoca tarda alla Curia o ad un'area ad essa adiacente.
 
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morgana1869
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Arco di Traiano (Roma)







L'arco di Traiano di Roma era un arco del quale si hanno testimonianze letterarie e monetali, ma del quale non si conosce con certezza la collocazione. Forse non venne mai effettivamente eretto.

Storia e descrizione

Un arco in onore di questo imperatore è ricordato come decretato dal Senato nel 117. Durante il XIX secolo gli studiosi formularono varie ipotesi sulla sua collocazione, che sembrava più probabile entro il Foro di Traiano stesso, forse dell'ingresso monumentale del Foro, in collegamento col Foro di Augusto, forse come struttura indipendente.

Esiste infatti un aureo con la raffigurazione di un arco, a fornice unico e sormontato dal carro trionfale imperiale, scandito verticalmente in cinque sezioni scandite da sei colonne; accanto al fornice centrale sono raffigurate due nicchie con timpano per ciascun lato, dove si supposero conservate le statue dei prigionieri Daci (presenti oggi nell'arco di Costantino). Sopra le nicchie vi erano altrettanti scudi con ritratto (imagines clipeatae). Il carro trionfale era trainato da sei cavalli e fiancheggiato da trofei con vittorie.

In realtà la raffigurazione monetale non rappresenterebbe nemmeno un arco, ma forse la recinzione meridionale della piazza (forse i resti rimessi in luce nei recenti scavi del Giubileo, mentre nella stessa occasione non furono ritrovate tracce di archi); può darsi che l'accesso sud alla piazza fosse stato monumentalizzato come arco trionfale e dedicato poi effettivamente come tale dal Senato al Traiano, eventualmente con la semplice apposizione di un'iscrizione. Altre interpretazioni sono tuttora in discussione, con parecchie diverse ipotesi, dato che la cosa coinvolge l'aspetto dei lati nord e sud della piazza e la posizione del tempio del Divo Traiano e Plotina, un altro monumento la cui collocazione tradizionale è stata discussa durante i recenti scavi.

 
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morgana1869
view post Posted on 9/5/2013, 07:44     +1   -1




Basilica Argentaria




La cosiddetta Basilica Argentaria è un portico a pilastri che fiancheggia il tempio di Venere Genitrice nel Foro di Cesare a Roma. Il nome è citato solo in fonti tarde, di epoca costantiniana.

L'edificio venne realizzato in epoca traianea come sistemazione delle pendici del Campidoglio dopo il taglio per l'eliminazione della sella montuosa che collegava questo al Quirinale.

Era sopraelevato rispetto al livello della piazza forense e vi si accedeva dal fondo del portico del lato sud-occidentale per mezzo di due scalinate. Il portico presenta due file di pilastri in blocchi di tufo e le sue navate erano coperte da volte a botte, solo parzialmente conservate. Venne realizzato in uno spazio obbligato e presenta quindi una pianta irregolare, che gira intorno al tempio, proseguendo probabilmente ancora al di fuori dell'attuale area archeologica, a monte dell'esedra sud-occidentale del Foro di Traiano.

Si conserva ancora l'intonaco che ricopriva il suo muro di fondo, dove sono stati rinvenuti numerosi graffiti, alcuni dei quali riportano versi dell'Eneide: questo particolare ha permesso di ipotizzare qui la presenza di una scuola, citata dalle fonti tarde a proposito del Foro di Traiano e di quello di Augusto.



Basilica di Giunio Basso



La basilica di Giunio Basso (basilica Iunii Bassi) era una basilica civile di Roma, è situata sull'Esquilino dove oggi è il seminario pontificio di Studi Orientali, in via Napoleone III 3.

Storia

Fu edificata dal console del 331, Giunio Annio Basso e nella seconda metà del V secolo, all'epoca di papa Simplicio (468-483), venne trasformata nella chiesa di Sant'Andrea Catabarbara.

Nel 1930 furono riscoperti gli ultimi resti dell'edificio, che in quell'occasione vennero definitivamente demoliti. Nella stessa occasione vennero alla luce i resti di una casa augustea con rifacimenti più tardi, nella quale furono trovati dei mosaici databili al III secolo: uno con soggetti dionisiaci e uno che riporta i nomi dei proprietari (Arippii e Ulpii Vibii). Oggi sono esposti nella sede del seminario.

Architettura

L'architettura dell'edificio era piuttosto semplice, con un'aula rettangolare absidata, preceduta da un atrio a forcipe con un unico ingresso e nicchie interne. Sulle pareti correva una triplice finestratura (non sul lato dell'abside).

Decorazione in opus sectile

La magnificenza era data dal rivestimento interno di incrostazioni marmoree figurate (opus sectile), che ricopriva le pareti e che fu visibile fino al XVI secolo, quando fu disegnato da Giuliano da Sangallo e altri artisti. In queste copie si può osservare lo schema generale della decorazione: la parte bassa era occupata da un zoccolatura che il Sangallo riempì di completamenti di fantasia, presumibilmente perché molto rovinata e quindi suscettibile di essere reinventata con l'estro dell'artista; seguiva la zona a specchiature separate da pilastri, in corrispondenza dei piedritti delle finestre. In ciascuna delle specchiature, divise verticalmente in tre sezioni, si potevano vedere motivi a pelta (scudo). Sotto le finestre, più in alto, correva un fregio continuo di archetti pensili su mensole. Tra le finestre e sopra di esse, entro riquadri bordati da fasce con tripodi delfici, si trovavano poi altre due serie di pannelli figurati. Queste grandi scene erano contornate in basso da finti drappi, coi bordi ricamati e con scenette mitologiche, e in alto da lotte tra animali e centauri e immagini del processus consularis. Di questi pannelli oggi ne restano solo quattro frammenti, divisi tra il Museo dei Conservatori (due) e Palazzo Massimo alle Terme (due), queste ultime già nella raccolta privata di palazzo Del Drago. Più in alto, infine, il Sangallo disegnava scene di corteggio ufficiale e mitologico e pannelli con gorgoneia, molto probabilmente frutto della sua interpolazione.

Delle lastre superstiti, la più grande è quella a palazzo Massimo alle Terme, con un "drappo" inferiore ornato da scene egittizzanti, un "vela Alexandrina" citato anche da Plinio[1], e una scena principale del mito di Ila e le ninfe (il giovane amato da Ercole che recatosi a una fonte viene sedotto e rapito dalle ninfe). La seconda lastra di Palazzo Massimo, priva del velum, è quella del processus consularis di Giunio Basso, che è raffigurato su un cocchio, seguito da aurighi delle quattro fazioni circensi. I due pannelli di palazzo Drago raffigurano simmetricamente due tigri che sbranano buoi.

I marmi preziosi accostati nelle figure generano una policromia vivacissima, con la capacità talvolta di riprodurre anche il chiaroscuro disponendo in maniera studiata le screziature della pietra.

I motivi egittizzanti del drappo forse adombrano l'utilizzo di maestranze specializzate alessandrine, visto anche l'uso di pietre durissime come porfido e serpentino nelle tarsie, che erano a appannaggio praticamente esclusivo degli artigiani orientali.

Confronti con decorazioni simili si possono fare con la decorazione di una schola a Cenchreae in Grecia e soprattutto con un edificio di Ostia, forse pure una schola, più tardo (fine del IV secolo) ma con molto elementi decorativi in comune quali i motivi a pelta, le specchiature con tondi e i leoni che assalgono gazzelle. Si può quindi presumere che questo tipo di decorazione derivasse da fonti comuni, forse arazzi o da imitazioni di strutture reali.

La scena del cocchio invece è da mettere in relazione coi contorniati (tipo particolare di medaglioni in uso nel IV secolo), dove si trova un'analoga composizione dei cavalli, del carro e perfino delle ruote in prospettiva. La frontalità della raffigurazione è tipica del periodo (si vedano i rilievi dell'arco di Costantino), ma qui è ulteriormente esaltata dallo sfondo neutro color verde, dove le figure sembrano muoversi al di fuori di qualsiasi convenzione prospettica.

Interpretazione

Controversa è l'interpretazione del monumento. L'uso funerario sembra da escludersi, mentre è possibile un confronto con aule di ricevimenti ufficiali di quest'epoca successivamente trasformate in chiese, come Santa Susanna (del 320 circa) e Santa Balbina (del 330 circa), o altri edifici non coevi, come la basilica di Costantino a Treviri (inizio del IV secolo) e l'accostamento basilica/corridoio "della Grande caccia" nella villa di Piazza Armerina. Anche la tecnica edilizia, a mattoni molto regolari, è assimilabile alle opere approntate da Massenzio o da Costantino I nel suo primo periodo di governo.

Il soggetto delle decorazioni, permeato da valori simbolici legati alla filosofia neoplatonica allora molto in voga tra l'aristocrazia romana del Basso Impero, potrebbe ricondursi all'esaltazione della vita pubblica del console.


Biblioteca di papa Agapito I





La Biblioteca di papa Agapito I, citata in una lettera di Cassiodoro, è stata indicata in un edificio sul Clivus Scauri ("Clivo di Scauro") a Roma, adiacente e pertinente al complesso di San Gregorio al Celio.

Si tratta di un'aula absidata in muratura, che per tecnica dimostra una datazione molto tarda (papa Agapito regnò dal 535 al 536), collocata dietro l'oratorio di Sant'Andrea al Celio. Di questa biblioteca resta menzione anche in un'iscrizione dedicatoria ormai perduta ma copiata dall'Anonimo di Einsiedeln:

Sanctorum veneranda cohors sedet ordine
divinae legis mystica dicta docens.
Hos inter residens Agapetus iure sacerdos
codicibus pulchrum condidit arte locum.
Gratia par cunctis sanctus labor ómnibus unus
dissona verba quidem sed tamen una fides.

Un altro edificio poco più avanti sulla stessa strada, con facciata a filo della carreggiata, appartenne probabilmente allo stesso complesso della biblioteca.


Capitolium Vetus




Il Capitolium Vetus era un santuario arcaico di Roma antica situato sul colle Quirinale.

Era dedicato alla Triade Capitolina (Giove, Giunone, Minerva), la triade protettrice di Roma adorata nel tempio di Giove Capitolino, che sarebbe stata celebrata qui ben prima che sul Campidoglio.

La localizzazione esatta dell'antico complesso doveva essere all'incrocio tra le attuali via del Quirinale e via delle Quattro Fontane, sul lato verso piazza Barberini, dove si trovava anche il tempio di Quirino.


Casa Tonda (sepolcro romano)



La "Casa Tonda" è un mausoleo romano situato lungo l'antica via Labicana sulla sommità del colle Esquilino a Roma, nell'area oggi corrispondente all'angolo orientale di piazza Vittorio Emanuele II (Rione Esquilino). Il monumento è stato distrutto alla fine del XIX secolo e nulla rimane oggi visibile fuori terra.

Storia e descrizione

Il monumento funerario, datato tra la fine della Repubblica e gli inizi dell'Impero, era situato sull'asse della via Labicana-Praenestina circa 360 m fuori della Porta Esquilina (Arco di Gallieno). In età moderna fu trasformato in abitazione privata, al pari dei vicini "Trofei di Mario".

L'alzato della struttura consisteva in un tamburo cilindrico con diametro di 20 m, fondato su una base quadrata (lato 24 m). Similmente ad altri mausolei di grandi dimensioni la struttura non era internamente piena, ma presentava un'articolazione planimetrica cruciforme delle murature.

L'identità del proprietario del sepolcro rimane sconosciuta, sebbene Mecenate sia un plausibile candidato in virtù della vicinanza degli Horti Maecenatis e della testimonianza delle fonti letterarie, che pongono extremis Esquiliis le tombe del poeta Orazio e dello stesso Mecenate fra loro confinanti.

Il sepolcro fu distrutto nel 1886 per l'apertura di piazza Vittorio Emanuele II.

Nel 1975, in occasione di alcuni saggi di scavo effettuati dalla Soprintendenza Archeologica di Roma per la Metropolitana, sono state evidenziate le poderose fondazioni in opera cementizia del monumento funerario poco al di sotto dell'attuale livello a giardino della piazza.



Colonna Menia


La Colonna Menia (in latino Columna Maenia) era un'antica colonna nel Foro Romano.

Si trovava nella zona del Comizio, poco distante dal Carcere Mamertino, dove oggi passa la via che fiancheggia l'arco di Settimio Severo. L'origine del nome è incerta (forse dal nome del console Gaio Menio).

Citata da Cicerone come luogo "presso la quale i debitori erano perseguiti dai creditori", si trovava davanti al tribunale del pretore ed ai Rostra dove si affiggevano le proscriptiones.

Andò probabilmente distrutta durante la riorganizzazione di questa parte del Foro in epoca cesariana, con la creazione del Foro di Cesare. Dopo numerose questioni relative al suo posizionamento, ne venne infine trovato una parte del basamento a ovest della Curia Hostilia, davanti alle Scalae Gemoniae.
 
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morgana1869
view post Posted on 9/5/2013, 08:06     +1   -1




Colonna rostrata di Gaio Duilio





La Colonna rostrata di Caio Duilio (in latino Columna Rostrata C. Duilii) era un'antica colonna rostrale che si trovava nel Foro Romano.

Si trovava accanto ai Rostra imperiali, pur essendo molto più antica, verso il Volcanale. Era stata eretta durante il trionfo del generale Caio Duilio, primo trionfatore romano in una battaglia navale (nella battaglia di Milazzo contro i Cartaginesi nel 260 a.C.), ed era costruita con i rostri delle navi nemiche (da cui derivò lo stesso nome della tribuna dei Rostri).

La base della colonna venne rifatta all'epoca di Augusto, copiando esattamente l'antica iscrizione. Dispersa la colonna, la base venne rinvenuta nel XVI secolo presso l'arco di Settimio Severo, nella collocazione originaria. Oggi si trova nel Museo Nuovo Capitolino.


Comizio




Il Comizio (in latino Comitium) era il centro politico di Roma, situato nel Foro Romano. Qui si svolgevano le più antiche assemblee dei cittadini (comizi curiati). Oggi ne sono visibili solo pochi resti, dopo le trasformazioni dell'epoca cesariana e augustea che lo fecero sparire. Anticamente occupava l'angolo nord-orientale del Foro, tra la basilica Emilia, l'Arco di Settimio Severo e il Foro di Cesare. Proprio quest'ultimo ne invase gran parte della superficie per l'edificazione della nuova Curia Iulia.

Storia

Si racconta che al termine dell'episodio del ratto delle Sabine, Romani e Sabini dopo una dura battaglia decisero di collaborare, stipulando un trattato di pace, varando l'unione tra i due popoli, associando i due regni (quello di Romolo e Tito Tazio), lasciando che la città dove ora era trasferito tutto il potere decisionale continuasse a chiamarsi Roma, anche se tutti i Romani furono chiamati Curiti (in ricordo della patria natia di Tito Tazio, che era Cures) per venire incontro ai Sabini. Contemporaneamente il vicino lago nei pressi dell'attuale Foro romano, fu chiamato in ricordo di quella battaglia e del comandante sabino scampato alla morte (Mezio Curzio), Lacus Curtius , mentre il luogo in cui si conclusero gli accordi tra le due popolazioni, fu chiamato appunto Comitium, che deriva da comite per esprimere l'azione di incontrarsi.

Nel Comizio avevano luogo tutte le funzioni politiche della costituzione romana, anzi le sue tre parti, composte in un insieme unico e funzionale, rispecchiavano proprio i tre elementi della repubblica:
1.L'assemble popolare, che si svolgeva nella piazza circolare coi gradini, atterzzati per le riunioni
2.Il Senato, che si ritrovava nell'attigua Curia Hostilia e nell'area del Senaculum
3.I magistrati, che avevano la propria tribuna nei Rostra.

Fu la zona di maggiore importanza politica del Foro e di Roma stessa dalla fine dell'età regia fino alla tarda età repubblicana, quando gran parte delle le funzioni del Comizio passarono alla più ampia piazza del Foro e ad altri edifici che vi si affacciavano.

L'assemblea più antica che vi si teneva era quella dei comizi curiati, cioè dei patrizi romani, che vennero presto svuotati di ogni significato politico. Restarono qui però i comizi tributi, detentori del potere legislativo (che si potevano riunire anche sul Campidoglio). L'altra importante assemblea romana erano i comizi elettorali, che si svolgevano però in un'apposita zona del Campo Marzio, detta Ovilia o Septa.

Non è escluso che le gradinate del Comizio avessero potuto servire anche per spettacoli di gladiatori, che sarebbero tra i più antichi del genere, e che abbia fatto da modello per i successivi anfiteatri.

Descrizione

Il Comitium era una superficie aperta, consacrata dagli auguri e orientata secondo i punti cardinali, testimoniata da scrittori antichi e da alcuni resti archeologici, tra i quali vanno annoverati i pozzi rituali, il Lapis niger e i Rostra vetera. Aveva una forma circolare e culminava verso sud, coi Rostra, mentre l'altare sacro del Lapis Niger si trovava sul suo bordo accanto ai Rostra. Doveva essere dotato di gradini, del tutto somigliante ai Comizi dei Fori di altre colonie che sci sono pervenuti, come a Cosa e a Paestum (entrambi del 273 a.C.).

La piazza del Comitium comprendeva quindi la Curia Hostilia a nord; poco più a ovest si trovava la basilica Porcia, al di là della quale era collocato il Carcere Mamertino e poco più a sud la Colonna Menia. Il Senaculum, altro luogo di riunione dei senatori, doveva trovarsi sul lato ovest del comizio, mentre la parte sud era chiusa dalla Grecostasi, una piattaforma sopraelevata dove gli ambasciatori stranieri potevano assistere alle riunioni del Senato (il nome deriva probabilmente dai Greci, più importante gruppo etinico straniero a Roma). Accanto, in direzione sud-est, si trovavano i Rostra, la tribuna degli oratori che si chiamava così dal 338 a.C. quando vi furono affissi i rostri staccati dalle navi catturate nella battaglia navale di Anzio.

Individuazione

Gli edifici che erano sorti al posto del Comizio in epoca in imperiale avevano non solo stravolto l'area urbana, ma anche cancellato quasi ogni traccia del venerando luogo. Per rintracciarlo con esattezza ci si è basati sulle fonti scritte e su alcuni elementi conosciuti tranmite gli scavi.

Plinio il Vecchio afferma infatti che prima dell'introduzione del più antico orologio solare (nel 263 a.C. durante la prima guerra punica) le ore del giorno principali venivano annunciate da un araldo pubblico che si poneva sui grandini dell'antica Curia Hostilia (prima sede del Senato romano) e annunciava il passaggio del sole tra i Rostra e la Grecostasi per il mezzogiorno e il passaggio tra la Colonna Menia e il carcere per il tramonto; grazie alla conoscenza esatta della posizione dei Rostra repubblicani e del carcere Mamertino, si è evinto da ciò che la Curia era a nord del Comizio, mentre Rostra e Grecostasi erano a sud. La posizione antica dei Rostra, tra il Comizio e la piazza del Foro, è testimoniata anche da altri autori.

Monumenti nel Comizio

Col tempo, una gran quantità di statue e monumenti occupò ogni spazio libero nel Comizio. Tra questi c'erano:
La Cappella della Concordia, in bronzo, nella Grecostasi, eretta nel 304 a.C. dall'edile Gneo Flavio;
La statua dell'augure Atto Navio, fatta erigere, secondo la tradizione, da Tarquinio Prisco;
Le statue di Alcibiade e di Pitagora, "il più valoroso e il più saggio dei Greci", della fine del IV secolo a.C.;
Le statue delle tre Sibille, sui Rostri;
La statua di Camillo, sui Rostri;
Le statue di ambasciatori morti durante le loro missioni, in particolare di quelli morti a Fidene dalla Regina Teuta, sui Rostri;
Il fico ruminale, probabilmente nella piazza stessa.


Curia Hostilia




La Curia Hostilia era il più antico luogo di riunione del Senato romano, costruito nel Comizio (nell'area del Foro) secondo la leggenda dal terzo re di Roma, Tullo Ostilio.

Essendo un'area sacra agli auguri, era orientata sui punti cardinali, con un'aula rettangolare con il lato maggiore sull'asse nord-sud. Un primo ingrandimento risale all'epoca di Silla (80 a.C.), quando il numero dei membri del Senato venne portato da 300 a 600. Sempre nell'area del Comizio i senatori avevano a disposizione fin dalla prima età repubblicana anche la zona detta Senaculum.

Manio Valerio Massimo Corvino Messalla vi fece dipingere un affresco che raffigurava la vittoria da lui conseguita ad Imera, in seguito alla quale gli era stato concesso il trionfo.

L'edificio della Curia venne in seguito distrutto da un incendio nel 52 a.C., durante il funerale di Publio Clodio Pulcro e venne ricostruito dal figli di Silla. All'epoca della costruzione del Foro di Cesare venne definitivamente demolita e al suo posto venne costruita una struttura più imponente, la Curia Iulia, che nella forma della ristrutturazioni successive è sopravvissuta fino ad oggi. La Curia Hostilia oggi invece si trova sotto la chiesa dei Santi Luca e Martina.

 
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morgana1869
view post Posted on 10/5/2013, 07:09     +1   -1




Domus Transitoria






La Domus Transitoria era uno dei palazzi imperiali sul colle Palatino a Roma.

Era la più antica delle abitazioni imperiali di Nerone, distrutta dal grande incendio di Roma del 64 e sostituita in seguito dalla più sfarzosa Domus Aurea.

L'edificio si trovava nella parte centrale del colle e ne sono state trovare varie tracce sotto la Domus Flavia dell'epoca di Domiziano. Tra queste c'è un ricco pavimento marmoreo pertinente forse a un portico, rinvenuto sotto la sala della fontana ovale accanto alla Coenatio Iovis, e un ricchissimo ninfeo con colonnine di marmo e capitelli bronzei, rinvenuto nel 1721 sotto la Coenatio e subito distrutto. Oggi un angolo del ninfeo è stato ricostruito. Faceva inoltre parte del complesso il criptoportico di Nerone, che collegava l'abitazione con la vicina Domus Tiberiana.

Dalla Domus Transitoria, in particolare da un ambiente tagliato poi dai muri della Domus Aurea, provengono i soffitti dipinti con scene mitologiche staccati e conservati nell'Antiquarium del Palatino, i più antichi esempi di pittura di quarto stile, forse del pittore Fabullus.



Emporium





L'Emporium era l'antico porto fluviale della città di Roma, situato approssimativamente tra l'Aventino e Testaccio (il rione che prende il suo nome dal monte di cocci formatosi proprio dai rifiuti delle attività commerciali del porto).

Storia

Dall'inizio del II secolo a.C. l'impetuoso sviluppo economico e demografico aveva reso del tutto insufficiente il vecchio porto fluviale del Foro Boario, che non poteva essere ampliato per via della vicinanza ai colli. Per questo nel 193 a.C. i censori Lucio Emilio Lepido e Lucio Emilio Paolo decisero di affrontare il problema ricostruendo un nuovo porto in una zona libera al confine della città a sud dell'Aventino. In quell'occasione fu edificata anche la Porticus Emilia.

Nel 174 a.C. l'Emporium venne lastricato in pietra e fu suddiviso da barriere con scalinate che scendevano al Tevere. Qui era il punto d'approdo delle merci e delle materie prime (prioritariamente marmi, grano, vino, olio) che, arrivate via mare dal porto di Ostia, risalivano il Tevere su chiatte rimorchiate dai bufali (alaggio). Nei secoli, i cocci di anfore, che erano i contenitori dell'epoca per la movimentazione degli alimenti liquidi, furono accumulati a montagnola, componendo il Monte dei Cocci, ancora esistente: da esso deriva il nome antico di Mons Testaceum, il "Monte dei cocci", appunto. Il numero delle anfore accatastate si stima attorno ai 25 milioni.

All'epoca di Traiano le strutture furono rifatte in opera mista, mentre la pianura del Testaccio si andò via via riempiendo di magazzini, in particolare quelli annonari, con un'impennata quando si iniziarono le distribuzioni gratuite di grano e altri generi alimentari alla popolazione cittadina, a partire dell'epoca dei Gracchi (Horrea Sempronia, Galbana, Lolliana, Seiana, Aniciana).

Il porto fu scavato nel 1868-1870 durante i lavori di riarginatura e di nuovo nel 1952. Oggi restano alcuni tratti visibili incassati nel muraglione del Lungotevere Testaccio: una banchina lunga circa 500 metri e profonda 90 con gradinate e rampe verso il fiume, con blocchi di travertino sporgenti per fori dove ormeggiare le navi, simile in tutto a quella del porto romano di Aquileia (che però è meglio conservato). Costruendo il quartiere Testaccio moderno sono riapparsi vari resti di magazzini, tra i quali anche la tomba del console Servio Sulpicio Galba, uno dei più antichi sepolcri individuali pervenutici.


Fornix Fabianus



Il Fornix Fabianus era uno dei più antichi archi trionfali di Roma, eretto nel Foro Romano a cavallo della via Sacra tra la Regia e la Casa delle Vestali.

Era stato eretto da Quinto Fabio Massimo Allobrogico nel 121 a.C. per celebrare la sua vittoria sugli Allobrogi. Fu restaurato da suo nipote nel 56 a.C. Esistente ai tempi di Cicerone[1], fu abbattuto o riciclato in epoca imprecisata.

Nel XVI secolo furono rinvenuti nei paraggi frammenti di iscrizioni appartenenti al monumento, ma la sua collocazione è stata precisata solo in seguito a sondaggi nel XX secolo.


Forum Suarium


Il Forum Suarium era il mercato della carne suina di Roma imperiale, collocato nella parte nord del Campo Marzio nella VII regio augustea, non lontano dall'attuale piazza Santi Apostoli.

La presenza del mercato ci è tramandata da due iscrizioni databili all'inizio del II secolo (CIL VI, 3728=31046, 9631) e in documenti più tardi. L'amministrazione del luogo era sovrintesa dal prefetto o da un suo ufficiale.
 
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morgana1869
view post Posted on 16/5/2013, 08:36     +1   -1




Horrea Galbana







Gli Horrea Galbana (più anticamente noti come Horrea Sulpicia) erano dei magazzini annonari nell'antica Roma, situati nei pressi dell'antico porto fluviale dell'Emporium e dietro la Porticus Aemilia (con orientamento diverso), come testimonia anche la Forma Urbis Severiana.

Storia e descrizione

Vari frammenti delle pareti riapparsero durante la costruzione del moderno quartiere Testaccio, in più punti. La costruzione era stata effettuata interamente in opera reticolata di tufo (l'esempio più antico conosciuto di questa tecnica), ed era organizzata attorno a tre grandi cortili rettangolari e porticati, sui quali si aprivano le tabernae.

La costruzione primitiva dovette risalire alla fine del II secolo a.C., ad opera probabilmente del console Servio Sulpicio Galba (che aveva dato il nome di Sulpicia), la cui tomba, il primo monumento funebre individuale conosciuto a Roma, fu trovata nelle vicinanze (108 a.C.). Nel I secolo d.C. vennero restaurati dall'imperatore Galba, in onore probabilmente del suo antenato.


Horti Calyclani



Gli Horti Calyclani erano antichi giardini situati a Roma sul colle Esquilino (Rione Esquilino), presso la chiesa di sant'Eusebio.

Storia

I giardini sono noti soltanto da tre cippi terminali, ove sono menzionati, in due casi, assieme ai confinanti Horti Tauriani.

Due cippi furono trovati in situ nel 1873 presso la chiesa di sant'Eusebio, poco fuori la linea delle Mura serviane (agger), a nord di via Principe Amedeo[2]. Essi erano posti a separazione fra i due horti, ma non si ha nessuna indicazione topografica per poter collocare l'uno piuttosto che l'altro ad est o ad ovest rispetto alla fronte dei cippi.

Un terzo cippo, con la menzione dei soli Horti Calyclani, fu trovato nel febbraio 1951 su via Giolitti quasi all'angolo con via Cappellini, sostanzialmente in allineamento con i due trovati nel 1873 e con il lato iscritto rivolto a sud-est.

Per l'associazione fra il Forum Tauri e la chiesa di santa Bibiana sembra preferibile l'ipotesi che gli Horti Tauriani si estendessero verso oriente e gli Horti Calyclani a occidente rispetto alla chiesa di sant'Eusebio.

Oscura rimane l'origine del nome (forse forma oggettivale da Calycles o con minore probabilità da Calyx, personaggio sconosciuto).


Horti Epaphroditiani




Gli Horti Epaphroditiani erano dei giardini situati a Roma sul colle Esquilino, nella zona di Porta Maggiore.

Storia

I giardini erano situati nella Regio V augustea (Esquiliae) e prendevano il nome dal proprietario Epafrodito, potente liberto di Nerone che, secondo Svetonio, fu ucciso dall'imperatore Domiziano per impossessarsi dei suoi beni.

Frontino li localizza nella zona in cui l'acquedotto Anio novus si riversava nel condotto dell'aqua Tepula, dietro di Horti Pallantiani con cui essi confinavano.

Secondo un'altra interpretazione gli Horti Epaphroditiani sarebbero da posizionare in un'area esterna a Porta Maggiore.



Horti Lamiani




Gli Horti Lamiani erano giardini di eccezionale rilievo storico-topografico situati sulla sommità del colle Esquilino a Roma, nell'area grossomodo corrispondente all'attuale piazza Vittorio Emanuele II (Rione Esquilino).


Storia

Inizialmente di proprietà del console del 3 d.C. Lucio Elio Lamia, furono trasferiti nel demanio imperiale forse già sotto Tiberio (14-37) ed in seguito acquisiti da Caligola (37-41), che vi stabilì la propria residenza e vi fu anche seppellito per breve tempo dopo la morte.

Sappiamo che erano confinanti con gli Horti Maecenatis e che sotto Claudio (41-54) essi, riuniti agli Horti Maiani, furono amministrati da un apposito soprintendente (procurator hortorum Lamianorum et Maianorum).

A partire dal XVI secolo il sito fu teatro di importanti scoperte archeologiche ed antiquarie, come il Discobolo Lancellotti al Museo Nazionale Romano e le "Nozze Aldobrandini" alla Biblioteca Apostolica Vaticana, ma la maggior parte delle scoperte avvennero sul finire del XIX secolo durante i lavori di urbanizzazione del nuovo quartiere Esquilino, quando furono documentati da Rodolfo Lanciani in maniera frammentaria ed affrettata alcuni nuclei della proprietà imperiale, poi sacrificati sotto la spinta dell'urgenza edilizia.

Le decorazioni del complesso imperiale includevano pregevoli affreschi con pitture di giardino, rivestimenti architettonici in crustae marmoreae realizzate con raffinati intarsi di marmi colorati e decorazioni parietali in bronzo dorato con gemme incastonate.

Il complesso restituì anche importanti gruppi scultorei, come la ben nota Venere Esquilina assieme a due ancelle (o Muse) ed il ritratto di Commodo-Ercole fiancheggiato da Tritoni marini (entrambi ai Musei Capitolini). Altri importanti ritrovamenti scultorei collegabili con la residenza imperiale avvennero nella zona di piazza Dante (cosiddetto Ephedrismòs[6] nei Musei Capitolini) e presso il complesso termale di via Ariosto (statue alla Centrale Montemartini).

La villa si articolava scenograficamente in padiglioni e terrazze, adattandosi all'altimetria dei luoghi, secondo il modello culturalmente egemone della reggia di tradizione ellenistica armonicamente inserita nel paesaggio naturale.

L'unitarietà del contesto archeologico è stata restituita da Maddalena Cima e da Eugenio La Rocca in occasione della mostra Le tranquille dimore degli dei; la ricostruzione archeologica dei disiecta membra del complesso, rinterrato o peggio ancora distrutto per l'urgenza dei lavori umbertini di Roma Capitale, si è basata sulle testimonianze di Rodolfo Lanciani, sui resoconti di scavo e sui materiali conservati principalmente nei depositi comunali.

Gli scavi estensivi effettuati nel 2006-2009 sotto la sede dell'ENPAM hanno rimesso in luce alcuni settori finora sconosciuti degli Horti Lamiani, prossimi all’area dove Lanciani aveva documentato un lungo criptoportico dotato di un pavimento in alabastro e di preziose decorazioni parietali, scandito da colonne in marmo giallo antico con basi in stucco dorato, il cui arredo trova riscontro nella testimonianza delle fonti letterarie. Altri ritrovamenti collegabili con la residenza imperiale sono avvenuti nel corso degli scavi di ammodernamento della Metropolitana di Roma (Linea A) nel quadrante meridionale dei giardini di piazza Vittorio Emanuele II fra gennaio 2005 e novembre 2006.

Il settore individuato sotto la sede dell'ENPAM si sviluppa intorno ad un’aula di rappresentanza (400 m²), originariamente rivestita da sectilia, dotata di ambienti di servizio e d’una fontana. Il complesso, riferibile a diverse fasi edilizie, è articolato in terrazze-giardino contenute da strutture in opera reticolata, con un tratto di strada basolata connesso alla via Labicana, forse il limite della proprietà.

L’aula va attribuita agli interventi di Alessandro Severo (222-235), testimoniati all’Esquilino anche dalla costruzione dei "Trofei di Mario" (Nymphaeum Alexandri)[12] e da alcune fistulae aquariae che provano l’esistenza d’un complesso rientrante nel patrimonio personale dell’imperatore; raffinatissimi i centinaia di frammenti d’intonaci dipinti e i materiali decorativi di pregio, databili a partire dall’impianto della residenza imperiale e recuperati nel corso dello scavo. Il nuovo settore può collegarsi al complesso scoperto da Lanciani grazie al ritrovamento di elementi marmorei decorativi identici a quelli venuti in luce nel XIX secolo, oggi conservati nei Musei Capitolini.

I livelli più antichi sono da riferire alle fasi d’impianto della villa e, ancor prima, alla necropoli esquilina, ben attestata dalle fonti letterarie e in età moderna dagli studi di Giovanni Pinza.

Gli scavi

I primi scavi compiuti nell'area degli Horti Lamiani risalgono alla fine del XIX secolo e rimisero in luce i resti di un vasto ed articolato complesso edilizio. Dall'analisi delle notizie d'archivio e delle piante dei ritrovamenti confluite nella preziosa e monumentale Forma Urbis Romae di Rodolfo Lanciani è possibile tracciare un quadro approssimativo dello sviluppo edilizio della villa.

Lanciani fu il supervisore dello scavo eseguito dalla Commissione archeologica comunale di Roma e lasciò una vivida testimonianza delle attività di scavo archeologico dell'area:

« Ho visto una galleria di settantanove metri di lunghezza, il cui pavimento era costituito dalle più rare e costose varietà di alabastro e il soffitto sorretto da ventiquattro colonne scanalate di giallo antico, poggiate su basi dorate; ho visto un altro ambiente, pavimentato con lastroni di occhi di pavone, le cui mura erano ricoperte da lastre di ardesia nera, decorate da graziosi arabeschi eseguiti in foglia d'oro; e ho visto infine una terza sala, il cui pavimento era composto da segmenti di alabastro, incorniciati da paste vitree verdi. Nelle pareti di essa erano tutt'intorno vari getti d'acqua distanti un metro l'uno dall'altro, che dovevano incrociarsi in varie guise, con straordinario effetto di luce. Tutte queste cose furono scoperte nel novembre del 1875 »
(Rodolfo Lanciani, Fascino di Roma antica, Roma, Quasar, 1986, p. 156)

Le scoperte descritte riguardano i rinvenimenti effettuati tra piazza Vittorio Emanuele II e piazza Dante: oggi purtroppo nulla è più visibile.

Nei pressi degli stessi luoghi fu rinvenuto nel 1874 un gruppo di capitelli di lesena, probabilmente pertinenti alla decorazione architettonica di uno degli ambienti descritti; la lavorazione è raffinatissima, una lastra di marmo rosso antico (marmo del Tenaro) accoglie una decorazione ad intarsio di pietre dai colori contrastanti. Un lusso stupefacente degno di un imperatore “eccessivo” come Caligola.

Nel dicembre dello stesso anno durante i lavori di realizzazione del sistema fognario di via Foscolo, il terreno cedette e diede accesso ad una camera sotterranea piena di statue. La prima a comparire fu una testa di Bacco semi colossale, coronata di edera e corimbi; poco a poco lo scavo fu allargato e vennero alla luce altre sculture: il corpo semidisteso del Bacco, di cui era stata in precedenza trovata la testa; i busti di due Tritoni, sui capelli dei quali erano conservate tracce di doratura; il magnifico busto di Commodo e le varie parti della complessa allegoria che costituisce la sua base. Sempre nello stesso ambiente furono rinvenute anche due statue di Muse e la statua di Venere che si prepara ad entrare nel bagno allacciandosi un nastro intorno ai capelli e infine molti pezzi di altre sculture: braccia, gambe, mani e teste.

Secondo Lanciani queste sculture

« dovevano essere cadute per la rottura delle volte del piano superiore che era il piano nobile dell'edifizio e trovavasi al livello del suolo antico »
(Rodolfo Lanciani, Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma 3, 1875, p. 14)

In realtà la concentrazione in un unico vano di un gruppo di opere di natura e datazione assai diverse, piuttosto che alla decorazione di un unico ambiente, fa pensare ad un deposito in occasione di una ristrutturazione dell'edificio o per proteggerle da un pericolo imminente.

Molti degli oggetti ritrovati provengono dalla Grecia e testimoniano il gusto collezionistico dei proprietari della villa. Tra questi due stele funerarie e un singolare gruppo dell'Ephedrismòs databile al IV secolo a.C. proveniente dalla città di Tegea con due fanciulle intente alla “corsa alla cavallina”. La scultura fu rinvenuta nel 1907 in piazza Dante durante i lavori per la costruzione del Palazzo delle Poste

« che hanno rimesso in luce un gran complesso di edifici, a quanto pare, di epoca bassa, costruiti con materiale vecchio e con frammenti di marmi scolpiti »
(Lucio Mariani, L'Ephedrismòs di piazza Dante, Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma 35, 1907, p. 34)

Nel 1874 alcuni scavi compiuti in via Ariosto avevano portato in luce un piccolo impianto termale databile attraverso i bolli di mattone agli ultimi decenni del III secolo Nel momento in cui fu deciso l'abbattimento di tale edificio, gli archeologi si trovarono davanti una moltitudine di frammenti di sculture con i quali fu possibile addirittura ricomporre una raffinatissima tazza di fontana di età tardo repubblicana decorata con elementi vegetali inseriti all'interno di un disegno creato da tralci d'acanto. Dai muri delle terme riapparvero altri frammenti di sculture e un'iscrizione che in origine doveva appartenere alla base di una statua con la firma di un artista di Afrodisia. Le sculture conservavano tutte tracce di colore e di doratura.

I lavori per la Linea A della Metropolitana hanno consentito nel 2005-2006 la scoperta di un nuovo settore degli horti in corrispondenza all'angolo sud-orientale di piazza Vittorio Emanuele II. Lo scavo della Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma ha indagato un'area di 160 m² nella quale sono stati trovati degli ambienti in cui si succedono ben sette fasi edilizie, tra gli ultimi decenni del I secolo a.C. e l'età tardo antica. Alcuni degli edifici tardo repubblicani poggiano sui resti di un recinto sepolcrale costruito in opera quadrata di blocchi di tufo; questo sembra confermare i dati attestati nelle fonti antiche, secondo cui gli horti dell'Esquilino sarebbero sorti in seguito ad un intervento di bonifica dell'antica necropoli da parte di Gaio Cilnio Mecenate
 
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morgana1869
view post Posted on 16/5/2013, 09:04     +1   -1




Horti Liciniani





Gli Horti Liciniani erano dei giardini situati a Roma sul colle Esquilino, tra la via Labicana e la via Prenestina, a ridosso delle Mura aureliane. Confinavano a nord con gli Horti Tauriani e ad ovest con gli Horti Pallantiani e gli Epaphroditiani.

Storia

Essi presero il nome dalla gens Licinia che li possedeva. Nel III secolo furono di proprietà dell'imperatore Licinio Gallieno (253-268), che li mise in comunicazione con i vicini Horti Tauriani e vi realizzò una lussuosa residenza imperiale extraurbana, ricordata come Palatium Licinianum in documenti del IV e V secolo, da localizzarsi presso la chiesa di Santa Bibiana. Doveva trattarsi di un complesso di edifici che permetteva all'imperatore di ospitare l'intera corte e che comprendeva sale per banchetti e piscine.

Nella zona sommitale degli horti Gallieno progettò di erigere una statua colossale raffigurante se stesso nelle vesti del Dio Sole invitto, ma l'opera non fu mai portata a termine.

Le fonti letterarie antiche non consentono di definire con esattezza i confini topografici di questi horti e gli edifici che ne facevano parte, per cui è fondamentale, come già rilevava Rodolfo Lanciani, la testimonianza offerta dalle "Memorie medievali" riguardanti la zona. Sotto il pontificato di Urbano VIII (1623-1644) le prerogative archeologiche dell'area e la sua rilevanza furono, infatti, confermate dal ritrovamento del sepolcreto dei liberti Liciniani, avvenuto presso la chiesa di Santa Bibiana. Aldo Manuzio, inoltre, vi trascrisse l'epigrafe di un architetto, tale Alexander, vista "in via publica ad d. Crucis in Hierusalem".

I giardini dovettero mantenere a lungo la proprietà imperiale e la loro destinazione d'uso, se nel primo ventennio del IV secolo vi sorse il cosiddetto tempio di Minerva Medica, un ninfeo o ambiente termale che, con i suoi annessi solo in minima parte conservati, doveva essere utilizzato per funzioni di rappresentanza e di svago all'interno del complesso (specus aestivus).

Allo stesso periodo e al complesso di questi horti è generalmente attribuito un grande mosaico pavimentale con scene di caccia[8], rinvenuto nel 1903-1904 durante lavori sulla scarpata ferroviaria presso la chiesa di Santa Bibiana. Esso apparteneva ad una struttura porticata, la cui datazione confermerebbe per gli Horti Liciniani una grandiosa fase costruttiva successiva a quella del periodo di Gallieno.

Nell'area sono stati rinvenuti vari reperti artistici e statue a partire dal XVI secolo, come attestano Pirro Ligorio e Flaminio Vacca, a conferma del vasto corredo decorativo che doveva caratterizzare gli Horti Liciniani.

La tumultuosa espansione edilizia per la realizzazione del nuovo quartiere Esquilino, che ha consentito tra il 1875 ed il 1878 qualche notevole ritrovamento, ha in seguito reso impossibili ulteriori indagini archeologiche estensive. Tra i reperti recuperati in tale frangente vanno ricordati un busto di Manlia Scantilla, moglie dell'imperatore Didio Giuliano, alcuni capitelli con colonne e rilievi bacchici, un rilievo con la "fucina di Vulcano" e due splendide statue di magistrati nell'atto di lanciare la mappa per dare inizio alle gare nel Circo, ora ai Musei Capitolini (Palazzo dei Conservatori
 
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morgana1869
view post Posted on 17/5/2013, 07:17     +1   -1




Horti Lolliani



Gli Horti Lolliani erano dei giardini situati a Roma sul colle Esquilino, in un'area compresa fra l'attuale via Principe Amedeo e la zona successivamente occupata dalle Terme di Diocleziano.

Storia

I giardini, i cui proprietari sono da ricercare in alcuni esponenti della ricca ed influente gens Lollia, sono menzionati in due cippi terminali trovati nel 1883 presso Palazzo Massimo alle Terme.

I cippi provano che in età claudia gli horti rientravano senza dubbio nel demanio imperiale, sebbene sia arduo ricostruire con esattezza quando entrarono a farvi parte: se dopo il suicidio di Marcus Lollius avvenuto nel 2 a.C., oppure dopo la confisca dei beni e l'esilio di Lollia Paulina nel 49 d.C. in seguito al vano tentativo di matrimonio con l'imperatore Claudio.


Horti Maecenatis







Gli Horti Maecenatis erano giardini di proprietà del ricco Gaio Cilnio Mecenate (Arezzo, c. 68 a.C.–8 a.C.), potente consigliere ed amico dell’imperatore Augusto, situati a Roma sul colle Esquilino nella zona dell’antica Porta Esquilina, probabilmente a cavaliere delle Mura serviane. L’area corrisponde grossomodo all’angolo sud-occidentale dell’attuale piazza Vittorio Emanuele II. Confinavano (ad est) con gli Horti Lamiani, come riportato dalle fonti letterarie

Storia

Tra il 42 ed il 35 a.C. Mecenate realizzò i giardini e la sua villa sull’Esquilino bonificando l’area dell’antichissima necropoli che lo occupava, venendo per questo ricordato dal poeta Orazio per avere restituito ai luoghi "un tempo biancheggianti di ossa" la loro salubrità originaria. La bonifica consistette probabilmente in un interro di notevoli proporzioni, ma la memoria dell’antica destinazione funeraria del sito non volle forse essere cancellata del tutto dal potente amico di Augusto che in un settore specifico dei giardini collocò alcune pregevoli stele funerarie attiche.

Si tramanda che Mecenate sia stato il primo a costruire a Roma una piscina termale fornita di acqua calda, probabilmente da localizzare in questi giardini.

Gli horti divennero di proprietà imperiale dopo la morte di Mecenate ed il futuro imperatore Tiberio (14-37) vi soggiornò lungamente dopo il suo ritorno a Roma (2 d.C.) dall'esilio di Rodi.

Nerone li incorporò alla residenza del Palatino attraverso la Domus Transitoria e dall’alto di una torre situata al loro interno osservò probabilmente l’incendio di Roma del 64.

I giardini confinavano con le proprietà di Lucio Elio Lamia (Horti Lamiani), sebbene sia arduo conciliare le indicazioni topografiche fornite dagli autori antichi per determinare i loro esatti confini e la loro precisa collocazione. I topografi non sono concordi sul fatto che essi si estendessero su entrambi i lati dell'agger, a nord e a sud della Porta Esquilina. Il fatto, però, che numerosi puticuli (fosse comuni) dell'antica necropoli esquilina siano stati trovati presso l'angolo nord-occidentale di piazza Vittorio Emanuele II, che si trova fuori della Porta Esquilina e dell’agger e a nord della via Tiburtina vetus, induce a ritenere probabile che gli Horti Maecenatis si estendessero a nord della porta e della strada, su entrambi i versanti del rilevato difensivo di età repubblicana ormai in disuso.

Nel II secolo gli Horti Maecenatis divennero proprietà di Marco Cornelio Frontone (Cirta, 100 - Roma, 166), maestro di retorica e precettore di Marco Aurelio e Lucio Vero (sono probabilmente gli Horti Maecenatiani menzionati dal retore stesso in una sua epistola). Una fistula aquaria con il nome di Frontone fu trovata presso l'Auditorium di Mecenate, a breve distanza dal punto in cui la via Merulana moderna taglia il percorso delle Mura serviane.

L'unica testimonianza archeologica monumentale conservata della villa di Mecenate è costituita dal cosiddetto Auditorium di Mecenate, un triclinio estivo semi ipogeo decorato con pitture di giardino e arricchito con piccole sculture e fontanelle. Le pitture si datano all'epoca di Mecenate ed al primo decennio del I secolo, quando i giardini furono incorporati nel demanio imperiale.

È dubbio che la cosiddetta Casa Tonda, un sepolcro romano tardo repubblicano attestato sul percorso dell'antica via Labicana (oggi via Principe Eugenio) e ritenuto tradizionalmente la tomba di Mecenate, potesse rientrare nei confini di questi horti. Il monumento, di cui rimangono solo le fondamenta (non visibili) sull'angolo orientale di piazza Vittorio Emanuele II, fu abbattuto nel 1886, fra molte polemiche, in occasione dei lavori di sistemazione della piazza.

Le numerose opere d'arte ritrovate principalmente nelle aree delle scomparse villa Caserta e villa Palombara sul finire del XIX secolo (durante i lavori di edificazione del nuovo quartiere Esquilino) testimoniano il gusto collezionistico di Mecenate ed il lusso profuso negli arredi di questa residenza suburbana. Molte di esse si ritrovarono ridotte in frammenti riutilizzati come materiale edilizio all'interno di muri tardo-antichi, secondo una consuetudine ben attestata a Roma soprattutto sull'Esquilino.

Fra queste opere spiccano la fontana a forma di corno potorio (rhytón) firmata dall’artista greco Pontios, un raffinato rilievo con soggetto dionisiaco derivato da modelli ellenistici del II secolo a.C., la cosiddetta statua di Seneca morente, un rilievo con Menadi danzanti ispirato a modelli greci della fine del V secolo a.C., la testa di Amazzone copia di un originale datato V secolo a.C., la statua di Marsia in marmo pavonazzetto e una statua di cane in marmo verde (serpentino moschinato).

Molto significativa la presenza di un gruppo di Muse perfettamente inserite nel programma decorativo degli horti, che ben rispecchia le inclinazioni artistiche di Mecenate.

Il gruppo dell’Auriga dell'Esquilino, opera di notevole profilo artistico della prima età imperiale creata secondo lo stile del V secolo a.C., costituisce, assieme alla statua di Marsia, l’esempio di un fortunato recupero riassemblato con frammenti rinvenuti nella stessa area.

Altre opere rimarchevoli, che denotano un continuo richiamo alla civiltà artistica greca, sono rappresentate da un gruppo di stele funerarie di provenienza attica e da pregevoli copie di opere greche, quali la statua di Demetra o quella dell’Ercole combattente, da un originale della fine del IV secolo a.C.

Gli scavi

« Nel mese di marzo dell'anno corrente (scil. 1874), fu scoperta, entro la villa già Caetani (...), la sommità di un muro di forma curvilinea con residui d'intonaco vagamente dipinto »
(Rodolfo Lanciani, Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma 2, p. 137)

Inizia così la storia degli scavi degli Horti di Mecenate, con il ritrovamento del celebre Auditorium di Mecenate, ad oggi ancora l'unica testimonianza archeologica esistente della sontuosa residenza di Gaio Cilnio Mecenate.
L'edificio si presentava come una grande aula chiusa da un'abside, nello spazio della quale s'inseriva una piccola cavea formata da gradini disposti concentricamente. La suggestione indotta dalla figura di Mecenate, la cui presenza nell'area era nota attraverso le fonti letterarie, portò gli archeologi ottocenteschi a riconoscere nell'edificio una sala per recitazioni: si tentò quindi di spiegare la particolare conformazione della zona absidale come spazio destinato al pubblico che assisteva alle rappresentazioni letterarie o musicali tenute nella sala.

In realtà la collocazione dell'aula, la presenza di sistemi di adduzione idrica e di un canaletto che correva al centro della sala, fanno ritenere l'edificio un triclinio frequentato prevalentemente nella stagione estiva, ben riparato dal sole e rinfrescato dallo scorrere delle acque sui gradini.

Altre strutture attribuibili al settore residenziale della villa furono rinvenute in quegli stessi anni nell'isolato XXIX del nuovo quartiere Esquilino, adiacente all'Auditorium, all'interno del quale le scoperte di ambienti e di opere si susseguirono dal 1876 al 1880.

La situazione archeologica della zona doveva essere estremamente complessa, considerato che i giornali di scavo segnalano la presenza di più livelli di edifici. Quelli situati più in alto, in opera laterizia, erano forse pertinenti ad un impianto termale databile, secondo il giudizio del noto archeologo Rodolfo Lanciani, al III secolo. Negli strati più profondi, invece, si trovavano strutture in opera reticolata, attribuibili alla fase edilizia dell'epoca di Mecenate.

Gli edifici posteriori, realizzati sugli estradossi delle volte degli ambienti più antichi, riutilizzarono come materiale da costruzione le sculture appartenenti presumibilmente all'apparato decorativo degli horti. Ne furono trovate parecchie tra cui la bellissima statua di Marsia in marmo pavonazzetto, la statua della musa Erato, la statua di cane proveniente dall'Egitto, una splendida statua di Demetra, ecc.

Oltre a queste opere Lanciani segnalò "diversi torsi di fauni e Veneri, un vaso da fiori lavorato nella forma di un puteale e ornato da tralci di edera e fiori; un altare rotto (...), la parte inferiore di un gruppo di un eroe e di una donna panneggiata; sette erme di Bacco indiano, di filosofi, di atleti...". Insieme alle sculture c'erano anche numerosi mosaici, tra cui quelli in opus vermiculatum montati su tegole, da utilizzare come emblemata centrali di preziosi pavimenti.

Un altro notevole nucleo edilizio, comprendente sia strutture in reticolato sia muri in laterizio, fu rinvenuto nel 1914 all'incrocio tra via Merulana e via Mecenate, durante i lavori per la ricostruzione del Teatro Politeama Brancaccio. Le notizie sono estremamente scarse, ma rimane una pianta dei ritrovamenti che illustra una situazione archeologica coerente e probabilmente attribuibile, almeno in parte, all'impianto originale di un settore degli horti.

Il ricco apparato decorativo degli horti si rinvenne ridotto in numerosi pezzi riutilizzati come materiale da costruzione all'interno di muri tardo antichi, secondo una consuetudine attestata soprattutto sull'Esquilino. Questo è uno dei motivi per cui ancora oggi non si è in grado di ricostruire per intero il programma scultoreo degli horti e l'originaria collocazione delle statue e degli elementi ornamentali che ne facevano parte.

Appare altresì evidente lo straordinario valore artistico e culturale delle opere, che denuncia gli interessi del padrone di casa. Nel repertorio spiccano alcune bellissime creazioni d'ispirazione greca: una fontana a forma di corno potorio (rhytón) firmata dall’artista greco Pontios, rinvenuta il 15 maggio 1875 in corrispondenza dell'angolo sud-occidentale di piazza Vittorio Emanuele II, un raffinatissimo rilievo con soggetto dionisiaco e ancora un gruppo di Muse di forte ispirazione greca.



Horti Maiani



Gli Horti Maiani erano giardini situati sulla sommità del colle Esquilino a Roma, nell'area grossomodo corrispondente all'attuale piazza Vittorio Emanuele II (Rione Esquilino).

Storia

Gli Horti Maiani sono noti solo da testimonianze epigrafiche e sono brevemente citati in un passo di Plinio il Vecchio, il quale racconta della distruzione di una pittura colossale di Nerone che era stata collocata entro alcune costruzioni situate all'interno dei loro confini.

Da un'iscrizione databile all'età di Claudio sappiamo che erano amministrati, assieme agli Horti Lamiani, da uno specifico soprintendente, il procurator hortorum Maianorum et Lamianorum.

Annessi pertanto ai ben più famosi Horti Lamiani, essi entrarono a far parte delle proprietà imperiali ubicate sul colle Esquilino. Queste proprietà, attestate fin dall'età di Tiberio, furono tradotte in forma monumentale da Caligola con la costruzione di una lussuosa villa articolata in padiglioni e terrazze, scenograficamente inserita nel paesaggio naturale alla maniera ellenistica.

Alcuni autori ritengono che Maiani sia la corruzione di Maecenatiani, il che proverebbe l’identificazione con gli Horti Maecenatis.

La gens Maiana, il cui nomen è pochissimo attestato a Roma, è forse originaria di Aeclanum.


Horti Pallantiani




Gli Horti Pallantiani erano antichi giardini situati a Roma sul colle Esquilino (Rione Esquilino), nella zona di Porta Maggiore.

Storia

I giardini erano situati nella Regio V augustea (Esquiliae) e prendevano il nome da Pallante, potente liberto imperiale arricchitosi durante il regno Claudio, che Nerone fece uccidere nel 62 d.C. per impossessarsi dei suoi beni.

Ai margini di questi giardini era ubicata, secondo Plinio il Giovane, la tomba dello stesso Pallante.

Il toponimo Horti Pallantiani si mantenne per tutto l'impero e forse il loro assetto rimase intatto fino al IV secolo, quando sono ricordati nei Cataloghi regionari all'interno della Regio V (Esquiliae).

Forse si può riferire a questi giardini il frammento 57 della Forma Urbis Severiana
 
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morgana1869
view post Posted on 17/5/2013, 07:33     +1   -1




Horti Sallustiani





Gli Horti Sallustiani (i Giardini di Sallustio) erano i giardini fatti edificare dallo storico e senatore della repubblica romana Gaio Sallustio Crispo nel I secolo a.C., grazie ai fondi illecitamente ottenuti durante la sua propretura in Africa Nova. I giardini si estendevano in una vasta area nella zona nordorientale di Roma, in quella che sotto Augusto sarebbe divenuta la Regio VI; l'area è compresa tra i colli Pincio e Quirinale, tra il proseguimento della via Alta semita (attuale via XX Settembre), la via Salaria, le Mura Aureliane e l'attuale via Veneto, poco dopo la Porta Salaria. L'area dove oggi si estendono i resti della dimora dello storico prende il nome di rione Sallustiano.

Gli horti nell'antica Roma


I romani erano soliti chiamare horti (al singolare hortus) le abitazioni dotate di un grande giardino (hortus in latino significa proprio "giardino"), costruite entro la cerchia urbana, ma in aree suburbane. Erano un luogo di piacere, in cui era possibile vivere isolati e nella tranquillità, ma senza la necessità di allontanarsi troppo dalla città.

La parte più importante degli horti era senza dubbio la vegetazione, molto spesso foggiata secondo forme geometriche o animali, secondo i dettami dell'ars topiaria. Tra il verde si trovavano spesso padiglioni, porticati per passeggiare al riparo dal sole, fontane, terme, tempietti e statue, spesso repliche di originali greche. Il primo a dare origine a questa moda fu il ricchissimo Lucullo, che si fece costruire una lussuosa dimora sul colle del Pincio, a Roma; subito dopo seguì il suo esempio Sallustio.



Storia

Lo scrittore latino fece edificare i suoi horti tra il Quirinale, il Viminale e il Campo Marzio, in un'area precedentemente appartenuta a Cesare; i suoi giardini erano i più grandi e ricchi del mondo romano.

Nel 36 a.C., alla morte dello scrittore, la residenza passò in proprietà al nipote Quinto e poi ad Augusto. Da allora i giardini vennero ampliati ed abbelliti più volte, restando sempre nel demanio imperiale. Molti imperatori la scelsero come dimora temporanea, in alternativa alla sede ufficiale sul Colle palatino.

Vespasiano vi soggiornava volentieri e Nerva vi morì; qui nel 69 si erano svolti i duri combattimenti che avevano visto trionfare l'esercito di Vespasiano nel 69 d.C. Poi gli imperatori Adriano e Aureliano vi fecero fare altri importanti lavori. Quest'ultimo in particolare fece costruire una porticus miliarensis, probabilmente un complesso di portico, giardino e maneggio, dove si recava a cavalcare. Altri restauri vennero effettuati nel III secolo.

Quando nel 410 vi fu il sacco di Roma da parte dei Visigoti, comandati del re Alarico I, e che entrarono proprio dalla Porta Salaria), la villa subì gravissimi danni e non fu più ricostruita, come testimonia Procopio nel VI secolo.

Descrizione


Uno dei nuclei principali si trovava in fondo alla valle che divideva il Quirinale dal Pincio, sostenuto da potenti muraglioni a arcate e contrafforti appoggiati alle mura serviane, dove oggi corre la via Sallustiana. L'edificio i cui resti sono nella zona dell'attuale piazza Sallustio doveva essere simile al Canopo di villa Adriana: al centro della piazza, 14 metri sotto il livello attuale, ne sono stati scavati i resti, poggianti sulla collina retrostante e collegati ad altri resti di edifici scarsamente conservati. La parte principale dell'edificio era una grande sala circolare (11,21 metri di diametro per 13,28 di altezza), coperta da cupola a spicchi alternati concavi e piani (una forma molto rara, riscontrata solo nel Serapeo di villa Adriana). Le pareti ospitano tre nicchie per lato, due delle quali erano aperte come passaggi per ambienti laterali. Le nicchie restanti pochi anni dopo la costruzione vennero chiuse e coperte da incrostazioni marmoree, che coprivano anche le pareti. Anche il pavimento era marmoreo, mentre la cupola e la parte alta delle pareti erano decorate da stucchi.

Si accedeva alla sala rotonda da un vestibolo rettangolare, al quale corrispondeva un ambiente simmetrico sull'altro lato, attraverso il quale si accede a una sala rettangolare in asse, fiancheggiata da due sale minori di forma allungata. Sul lato nord della sala circolare si trovano altri ambienti e una scala che permetteva di recarsi ai piani superiori.

A sud si trova un ambiente coperto di forma semicircolare e diviso in tre zone con tramezzi, due delle quali conservano ancora mosaici antichi in bianco e nero e resti di pitture parietali probabilmente stese in un secondo momento; il terzo ambientem verso sud, è occupato da una rampa di scale per i due piani superiori, mentre quella nord era inframezzata con un ambiente usato come latrina. La facciata di questo emiciclo è frutto in larga parte dei restauri del XIX secolo.

I bolli laterizi di questo edificio confermano una datazione posteriore al 126, e si doveva probabilmente trattare di una cenatio estiva, come il modello simile di Villa Adriana a Tivoli. La datazione è particolarmente significativa perché ci permette di conoscere gli sviluppi dell'architettura privata imperiale dopo la Domus Augustana, cogliendo le profonde evoluzioni rispetto al modello della Domus Aurea nel corso di poco meno di cinquant'anni, con influenze dall'architettura a più piana civile conosciuta a Ostia e Roma stessa.

Tra gli altri resti di edifici del complesso c'è un criptoportico decorato da pitture, oggi nel garage dell'Ambasciata Americana dal lato su via Friuli, e un muro a nicchie lungo via Lucullo. Nel collegio Germanico si trova poi una grandiosa cisterna adrianea, all'angolo fra via San Nicola da Tolentino e via Bissolati, composta da due piani: il primo, alto 1,80 metri, fa da sostruzione al secondo, che organizzato su quattro navate parallele intercomunicanti (complessivamente 38,55 x 3,30 metri).

Faceva parte del complesso anche il tempio di Venere Erycina.

Testimonianza dell'importanza e della ricchezza degli Horti Sallustiani sono le grandi opere d'arte rinvenute, nonostante le numerose trafugazioni avvenute nel corso dei secoli. Da qui proviene l'obelisco Sallustiano, oggi davanti a Trinità dei Monti, e il suo basamento di granito, oggi nei giardinetti dell'Aracoeli. Anche il trono Ludovisi e la grande testa femminile detta "Acrolito Ludovisi", entrambi al Museo Nazionale Romano, provengono da questi paraggi, forse da bottini di guerra conservati nel tempio di Venere Erycina.
 
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morgana1869
view post Posted on 17/5/2013, 07:49     +1   -1




Horti Tauriani




Gli Horti Tauriani erano dei giardini situati a Roma sul colle Esquilino (Rione Esquilino). In età augustea rientravano all'interno dei confini della Regio V (Esquiliae)[1] e occupavano l’intero territorio compreso tra la via Labicana antica, l'agger serviano ed il limite poi rappresentato dalle Mura aureliane per un'estensione di circa 36 ettari.


Storia

I giardini prendevano il nome dal proprietario Tito Statilio Tauro, console del 44 d.C., accusato di magia nel 53 e costretto al suicidio da Agrippina minore, la quale desiderava impossessarsene[2]. All'inizio dell'impero, infatti, la gens Statilia era proprietaria dell'ampia area compresa tra le viae Tiburtina e Labicana-Praenestina[3], in cui si trovavano anche i suoi monumenti funerari e quelli della gens Arruntia.

In seguito, sotto Claudio e Nerone, i giardini furono divisi (Horti Pallantiani, Horti Epaphroditiani) in favore dei liberti imperiali Epafrodito e Pallante[4]. Parzialmente riuniti da Gallieno nel III secolo, entrarono a far parte dei confinanti Horti Liciniani di cui l'imperatore era proprietario.


Successivamente furono di nuovo smembrati: alla fine del IV secolo il praefectus Urbi Vettio Agorio Pretestato ne possedeva una parte, gli Horti Vettiani, che si estendevano nella zona dell'attuale Palazzo Brancaccio. I resti della domus appartenuta a Pretestato e a sua moglie Aconia Fabia Paulina sono stati identificati attraverso i nomi iscritti sulle fistulae aquariae trovate all'interno dell'edificio. Una struttura muraria realizzata con materiali di recupero ha restituito, come verificatosi in diversi altri casi sull’Esquilino, una straordinaria quantità di frammenti sculturei.

Dall'area degli Horti Tauriani provengono numerose sculture ben inseribili nell'apparato decorativo dei giardini: una statua di mucca appartenente ad un gruppo pastorale (copia dell'originale in bronzo di Mirone creato per l'acropoli di Atene), un raffinato rilievo rappresentante un paesaggio sacro con un santuario circondato da alte mura, un rilievo frammentario con le quadrighe affrontate di Helios (il Sole) e Selene (la Luna), nonché due grandi crateri marmorei e tre splendidi ritratti imperiali di Adriano, Vibia Sabina e Salonina Matidia.

Gli scavi


Gli scavi realizzati nell'area attribuibile agli Horti Tauriani e Lolliani non hanno permesso d'individuare strutture architettoniche riconducibili con certezza ai nuclei residenziali delle ville. Inoltre non è possibile precisare il piano decorativo degli Horti Tauriani a causa della probabile coincidenza dei loro confini con quelli di villa Montalto Peretti (poi Negroni-Massimo), dove le attività di ricerca, nei secoli passati, non furono documentate.

Nel volume dedicato all'innalzamento dell'Obelisco Vaticano, l'architetto Domenico Fontana riferisce, tra i fatti più significativi del pontificato di papa Sisto V, che il pontefice fece radere al suolo tutti gli antichi monumenti che ingombravano la sua villa esquilina per regolarizzare con le macerie l'andamento del suolo.

Per quanto riguarda l'estensione degli splendidi Horti Tauriani, un dato topografico certo consiste in alcuni cippi di confine in travertino, che recano l'iscrizione CIPPI HI FINIV[NT] / HORTOS CALYCLAN(os!) / ET TAVRIANOS, rinvenuti in situ alle spalle della chiesa di Sant'Eusebio. Questi cippi indicano che la proprietà confinante era riferibile ad un non meglio identificato Calycles e dove fosse collocato il limite occidentale degli Horti Tauriani (quello orientale è stato ipoteticamente situato in corrispondenza di Porta Maggiore).
Un nucleo importante di ritrovamenti gravita intorno a una struttura di buona opera reticolata caratterizzata da tre grandi nicchie, scoperta nel 1875 in via Principe Amedeo; qui, insieme ad una fistula aquaria con l'iscrizione T(iti) STATILI TAVRI che conferma la proprietà dell'area, furono trovate numerose sculture: particolarmente significativa la statua più grande del vero probabilmente raffigurante Igea. Di proporzioni simili, ma conservata solo nella parte superiore, è l'altra figura femminile nella quale si deve forse riconoscere Artemide; da questo stesso luogo proviene la statua, anch'essa maggiore del vero, trasformata in Roma Cristiana alla fine del XIX secolo per decorare la Torre Capitolina. Le tre sculture sembrano concepite insieme per la decorazione di un unico monumento: la coincidenza della presenza di un edificio con tre nicchie monumentali appare, in questo caso, particolarmente significativa.

Nello stesso scavo furono rinvenuti: una statua di mucca, forse parte di un gruppo pastorale e probabile copia dell'originale bronzeo di Mirone, e tre rilievi; uno rappresenta un paesaggio sacro con un santuario circondato da alte mura, mentre gli altri due, di fattura neoattica, rappresentano le quadrighe di Helios (il Sole) e Selene (la Luna) che corrono una incontro all'altra.
Un altro importante complesso di sculture fu scoperto tra il 1872 e il 1873 ad est di piazza Manfredo Fanti, durante la demolizione di un muraglione di fondazione annesso ad un edificio nel quale Rodolfo Lanciani riconosce diverse fasi edilizie dal II al IV secolo. Nelle murature dell'edificio fu trovata una serie di fistulae con i nomi di Vettio Agorio Pretestato, praefectus Urbi del 367-368, e di sua moglie Aconia Fabia Paulina, elementi che fecero supporre a Lanciani la pertinenza dell'edificio ad una domus di loro proprietà. Nello smontaggio del muraglione furono rinvenuti i ritratti di Adriano e di sua moglie Vibia Sabina, i due crateri marmorei (uno di stile arcaistico raffigurante le nozze di Elena e Paride, l'altro con una vivace raffigurazione di un corteggio dionisiaco) e una testa colossale di Baccante. Nella stessa occasione fu ritrovato anche l'Auriga dell'Esquilino, che forma, dopo la ricongiunzione con una statua di cavallo rinvenuta a qualche centinaio di metri di distanza in un altro muro, un notevole gruppo scultoreo databile in età giulio-claudia.

Il fenomeno legato alla costruzione dei muri con frammenti di sculture caratterizza tutta l'estensione dell'Esquilino e ha avuto diverse spiegazioni. Quella più accreditata (Coates-Stephens) lo pone in relazione con la rapidissima costruzione delle Mura aureliane, erette tra il 270 ed il 273. La necessità di spianare ampi settori del territorio, per consentire il passaggio della struttura difensiva, avrebbe causato vaste distruzioni con la conseguente inesauribile disponibilità di materiali marmorei in frantumi.


Horti Torquatiani




Gli Horti Torquatiani erano antichi giardini situati a Roma sul colle Esquilino (Rione Esquilino), nella zona di Porta Maggiore.

Storia

I giardini, il cui proprietario rimane sconosciuto, sono menzionati due volte dall'erudito Frontino[2], nella località detta ad Spem Veterem, ove si congiungevano i rami dell'aqua Appia e della aqua Augusta (località altrimenti nota anche come ad Gemellos).

Secondo Samuel Ball Platner e Thomas Ashby i giardini sarebbero da collocare ad ovest della Spes Vetus (e quindi a sud della via Labicana), mentre a giudizio di Pierre Grimal occuperebbero la zona a sud di Porta Maggiore.
 
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morgana1869
view post Posted on 21/5/2013, 07:37     +1   -1




Meta Romuli






La Meta Romuli era una piramide che si trovava a Roma, nel quartiere del Borgo vicino alla Basilica di San Pietro in Vaticano e fu denominata anche "Piramide vaticana" o "Piramide di Borgo".

Storia

Si trattava di una sepoltura monumentale che in antichità sorgeva in prossimità dell'incrocio tra la via Cornelia e la via Trionfale, in un'area fuori porta, l'Ager Vaticanus, che vedeva la presenza di numerose aree cimiteriali come la vicina necropoli vaticana. Si trovava al fianco di un altro grande mausoleo, il cosiddetto Therebintus Neronis demolito a partire dal VII secolo, che invece era a pianta circolare. Sopravvisse ai grandi cambiamenti dovuti alla costruzione della primitiva basilica di San Pietro, giungendo fino al medioevo e divenendo un elemento importante della topografia urbana.

Il suo nome era dovuto alla credenza popolare, che la collegava alla piramide Cestia (meta Remi), identificandole con i sepolcri dei due mitici fondatori e facendole oggetto di varie leggende. Tradizionalmente si credeva che il luogo del martirio di San Pietro fosse posto nel punto di mezzo tra le due piramidi e conseguentemente la piramide fu rappresentata per secoli nelle raffigurazioni del martirio. La troviamo raffigurata per esempio nel Polittico Stefaneschi di Giotto, nella Porta del Filarete della Basilica di San Pietro, nell'affresco della Visione della croce nelle Stanze di Raffaello, negli affreschi della volta della basilica di San Francesco ad Assisi di Cimabue.

Nel Rinascimento fu creduta il "Sepolcro degli Scipioni". Fu demolita a partire dal 1499, su ordine di papa Alessandro VI, con la collaborazione dei pellegrini, per l'apertura della nuova via Alessandrina (Borgo Nuovo) che collegava l'area del Vaticano con il ponte sul Tevere. Alcuni resti del nucleo di calcestruzzo sopravvissero ancora per qualche decennio.

Struttura

La forma a piramide per i monumenti sepolcrali fu in uso in epoca augustea nell'ambito di influenze culturali egittizzanti. Sorsero moltissimi sepolcri piramidali, alti tra i 40 e 50 metri di cui sopravvive solo quella di Caio Cestio.

La piramide vaticana doveva essere presumibilmente della stessa epoca e secondo le testimonianze era più grande di quella Cestia, alta circa 40 metri, circondata da una pavimentazione con lastroni di travertino riutilizzati nel VII secolo per i gradoni della basilica di san Pietro. Era probabilmente costruita anch'essa in calcestruzzo e laterizi con rivestimento in marmo, smontato nel corso dei secoli, e camera sepolcrale interna coperta a volta.


Meta Sudans





La Meta Sudans era una fontana di età flavia, che si trovava vicino al Colosseo.

Era una fontana imponente, di forma tronco-conica, alta 17 o forse anche 18 metri.

È rappresentata in una moneta di Tito datata 80 d.C.: la sua costruzione iniziò quindi a partire da quell'anno.

Veniva chiamata meta per via della sua forma che rappresentava la meta attorno alla quale, nei circhi, si doveva svoltare, e sudans perché sembrava sudasse.

Era collocata nel punto di convergenza di 4 o 5 regioni (II, III, IV, X e forse I) delle 14 nelle quali era divisa Roma.

La fontana sorgeva su un'altra più antica ancora, meno alta (16 metri) e risalente all'epoca giulio - claudia. Essa bruciò nel grande incendio di Roma del 64. L'esistenza di quest'ultima, attestata nelle Lettere di Seneca (56, 4), è stata confermata dai risultati delle indagini condotte nell'area tra il 1986 e il 2003 dal Dipartimento di Scienze dell'Antichità della Sapienza - Università di Roma sotto la direzione della prof.ssa Clementina Panella.

I resti della fontana flavia sono stati demoliti definitivamente tra il 1933 e il 1936 insieme ai resti della base del Colosso di Nerone durante i lavori per la costruzione di Via dell'Impero, attuale Via dei Fori Imperiali, voluta da Mussolini.


Palazzo Branconio dell'Aquila




Palazzo Branconio dell'Aquila era un palazzo di Roma, situato nel quartiere del Borgo, sulla via Alessandrina, nei pressi della basilica di San Pietro in Vaticano.


Storia e descrizione

Fu progettato da Raffaello Sanzio probabilmente nell'ultimo anno della sua vita, quindi intorno al 1520, per l'amico Giovanbattista Branconio dell'Aquila, facoltoso consigliere del papa e orafo.

Il prospetto dell'edificio si allontanava dall'autorevole modello bramantesco di Palazzo Caprini e dallo stile misurato mostrato dallo stesso Raffaello nel Palazzo Jacopo da Brescia e forse nel Palazzo Vidoni Caffarelli, costituendo una facciata senza precedenti.

L'edificio esibiva un ricco repertorio ornamentale ed una sintassi compositiva estremamente libera, che possiamo considerare come uno dei punti di partenza dell'architettura manierista e che influenzò gli sviluppi futuri dell'architettura romana, come la facciata di Palazzo Spada.

Ribaltando il modello corrente, che vedeva un basamento bugnato e l'ordine al piano nobile, il pian terreno, dove si aprivano alcune botteghe, presentava colonne tuscaniche addossate alla parete che inquadravano degli archi e che erano sovrastate da una trabeazione continua; il piano nobile invece era caratterizzato dall'alternarnanza, ripresa dai Mercati di Traiano, di nicchie e finestre, quest'ultime incorniciate in una serie di edicole sormontate da timpani ricurvi e triangolari, oltre le quali correva una fascia decorata con festoni da Giovanni da Udine che conteneva un piano mezzanino. L'edificio era poi completato da un piano attico con un cornicione e triglifi. Viene meno in questo progetto la perfetta corrispondenza tra linguaggio architettonico e struttura costruttiva, per esempio ponendo il vuoto delle nicchie al piano primo con l'asse dell'ordine del piano terra.

Il palazzo fu demolito verso il 1660 per permettere la costruzione di uno slargo davanti al colonnato della piazza San Pietro (piazza Rusticucci). Conosciamo la sua conformazione da stampe precedenti alla sua distruzione, ma sono conservati anche disegni di progetto con alcune varianti che mostrano la genesi delle innovazioni linguistiche di Raffaello.



Palazzo Caprini






Storia

Il palazzo Caprini fu un edificio progettato da Bramante intorno al 1510 (o forse prima) per il protonotario apostolico viterbese Adriano de Caprinis. Si trovava a Roma nel quartiere del Borgo, in angolo tra piazza Scossacavalli e via Alessandrina, tracciata in occasione del giubileo del 1500. Era chiamato anche Palazzo di Raffaello (o Casa di Raffaello) perché l'artista nel 1517 lo aveva acquistato e vi aveva dimorato fino alla morte. Alla fine del XVI secolo l'edificio venne poi inglobato nel Palazzo dei Convertendi e poi definitivamente demolito nel XVII sec. Nonostante questo fu un prototipo fondativo dell'architettura civile rinascimentale e del classicismo in genere.

Conosciamo le caratteristiche del monumento scomparso solo da un'incisione di Antonio Lefreri (Antoine Lafréry) e da uno schizzo con parziale veduta d’angolo, già attribuita a Palladio.

Caratteri stilistici

L'edificio rappresentò una nuova tipologia di palazzo, ripresa nei decenni successivi dai suoi allievi e continuatori a Roma (palazzo Branconio dell'Aquila di Raffaello e Palazzo Vidoni Caffarelli di un allievo di Raffaello) e diventando un modello ripreso da vari architetti del '500 (palazzo Porto di Palladio, Palazzo Uguccioni a Firenze) e nelle epoche artistiche successive.

L'edificio era caratterizzato da una facciata su due livelli e cinque campate, trattata con un possente bugnato al piano inferiore come alto basamento dell’ordine dorico; il piano superiore era infatti scandito da colonne binate sormontate da una trabeazione completa. Il palazzo era costituito da un piano terreno destinato a botteghe e da un ammezzato compresi nel basamento bugnato, da un piano nobile occupato da un grande appartamento illuminato da finestre a timpano con balaustra, poste nelle campate dell'ordine ed un piano sottotetto di servizio le cui finestrelle si aprivano nel fregio dorico della trabeazione.

Dalle tecniche costruttive antiche Bramante recupera la tecnica della realizzazione del finto bugnato a stucco, o meglio mediante il getto di malta in casse forme di legno facendole assumere la consistenza visiva della pietra bugnata ma probabilmente anche della pietra liscia delle colonne binate.
Questa tecnica avrà un rapido successo a Roma (per esempio Palazzo Massimo alle colonne ed il suo uso continuerà fino al XX secolo.



Palazzo Jacopo da Brescia






Storia

Il palazzo fu costruito, forse su edifici preesistenti, per il committente Jacopo o Giacomo di Bartolomeo da Brescia, medico di Leone X, tra il 1515 e il 1519. La sua progettazione viene concordemente attribuita a Raffaello. Si trovava a Roma nel rione di Borgo, sul Borgo Nuovo (via Alessandrina), in angolo con Via dell'Elefante (la prosecuzione di Borgo sant'Angelo), nei pressi di piazza Scossacavalli, in un lotto di forma irregolare. Fu demolito per i lavori di realizzazione di via della Conciliazione nel 1936. Nel 1937 fu elevata una rievocazione della facciata del palazzo, con materiale originale, non lontano dal sito originario.

Caratteri stilistici

L'edificio ha come modello il vicino Palazzo Caprini, anch'esso scomparso, archetipo del palazzo romano, progettato da Bramante ed abitato dallo stesso Raffaello. La facciata presentava cinque campate con il piano terreno, destinato a botteghe, trattato come un basamento bugnato di peperino a fasce orizzontali e soprastante ammezzato. Il piano nobile, illuminato da finestre ad edicola, era invece scandito da lesene doriche con soprastante trabeazione, così come il soprastante piano attico. I piani superiori presentano uno dei primi esempi a Roma di utilizzo di una cortina di laterizio a vista (accostato in questo caso alle membrature di peperino), in un edificio rappresentativo.

Lo stretto fianco su sul Borgo Sant'Angelo fu risolto da Raffaello con una serliana di cui fu uno dei primi utilizzatori
 
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morgana1869
view post Posted on 22/5/2013, 09:04     +1   -1




Ponte di Probo





Il ponte di Probo (pons Probi) è attestato dalle fonti a Roma e scavalcava il Tevere tra l'Aventino e Trastevere. Fu costruito sotto l'imperatore Marco Aurelio Probo (276-282) e subì rifacimenti sotto Teodosio I, con lavori che per difficoltà di cantiere si prolungarono dal 381 al 387. Fu quindi conosciuto come "ponte nuovo" (pons novus) o come ponte di Teodosio (pons marmoreus Theodosii).

La sua precisa ubicazione non è ancora stata definita. Secondo alcuni[senza fonte] va identificato con alcuni resti presenti nel fiume fino al XIX secolo, che potrebbero tuttavia essere resti di crolli dall'Aventino.

Cesare D'Onofrio ritiene che ponte di Probo sia un appellativo relativo al ponte di Agrippa assegnatogli in seguito a lavori di restauro eseguiti sul ponte e che i resti nell'alveo del Tevere siano da ricondurre a delle strutture difensive localizzate nel punto in cui le Mura aureliane passavano dalla sponda sinistra del fiume alle pendici del Gianicolo sulla sponda destra.


Ponte Neroniano




Il Ponte Neroniano o Ponte Trionfale a Roma, consentiva all'antica via Trionfale, asse della viabilità del Vaticano in epoca romana, di attraversare il fiume Tevere. Il ponte venne costruito sotto l'imperatore Nerone nel I secolo, per migliorare i collegamenti con le sue proprietà sulla riva destra del fiume (tra cui la villa della madre Agrippina). Si è discussa anche una sua possibile attribuzione a Caligola, che l'avrebbe costruito per dare accesso al suo circo.

Non si conosce l'epoca della distruzione e forse andò in disuso in occasione della costruzione delle mura aureliane, nelle quali sembra mancare una porta in corrispondenza del ponte, anche a causa della vicinanza del ponte Elio. Potrebbe tuttavia essere contato tra i tredici ponti menzionati da un'iscrizione del IV secolo. Non doveva più essere utilizzabile nel VI secolo ai tempi della guerra gotica.

Attualmente nei periodi di magra del fiume sono visibili i resti dei piloni, in prossimità dell'odierno Ponte Vittorio. I resti in elevato dei piloni furono demoliti nel XIX secolo per facilitare la navigazione.


Ponte Sublicio





Ponte Sublicio, noto anche come ponte Aventino o ponte Marmoreo, è un ponte che collega piazza dell'Emporio a piazza di Porta Portese, a Roma, nei rioni Ripa, Trastevere e Testaccio e nel quartiere Portuense.

Il più antico ponte di Roma oltrepassava il fiume Tevere poco a valle dell'Isola Tiberina, in corrispondenza dell'antico guado che rappresentava una tappa obbligata del percorso nord-sud in epoca protostorica, ai piedi dell'Aventino. La sua costruzione è attribuita al re Anco Marzio (642 - 617 a.C.) da Tito Livio e da Dionigi di Alicarnasso.


Origine del nome

Il nome deriva dal termine sublica, attribuito alla lingua volsca, con il significato di "tavole di legno". Il ponte era infatti costruito originariamente interamente in legno e vi è legato il mitico episodio di Orazio Coclite, nei primi anni della Repubblica romana.

L'attuale ponte

Dello scomparso ponte romano porta la stessa denominazione il ponte - costruito nel 1918 su progetto di Marcello Piacentini - che congiunge le due rive del Tevere all'altezza di Piazza di Porta Portese con Piazza dell'Emporio.

L'antico ponte


Dell'antico ponte non resta oggi alcuna traccia, ma la sua ubicazione era all'altezza dell'odierna via del Porto, all'estremità settentrionale del complesso del San Michele.

La tradizione religiosa (originata dalla necessità di poterlo smontare facilmente per esigenze di difesa) prescriveva che non fosse utilizzato altro materiale che il legno. Il ponte era considerato sacro (dal termine pons deriva la designazione di "pontefice" o pontifex) e vi si svolgevano cerimonie arcaiche, tra cui quella del lancio nel fiume degli Argei, o pupazzi di paglia (forse in sostituzione di più antichi sacrifici umani), durante il cerimoniale dei Lemuria.

Il ponte subì frequenti restauri e ricostruzioni (60 a.C., 32 a.C., 23 a.C., 5 d.C., 69 d.C., sotto Antonino Pio e forse sotto gli imperatori Traiano, Marco Aurelio e Settimio Severo). Sulle raffigurazioni monetali di epoca imperiale compaiono alle estremità archi con statue.

Cospicue tracce del ponte sono state visibili nell'alveo del Tevere fino al 1890 circa, quando i resti furono completamente demoliti, nell'ambito delle misure di risistemazione del corso urbano del fiume, come misura di prevenzione delle piene.


Porticus absidata





La Porticus absidata era un portico di Roma ricordato nei Cataloghi regionari dell'epoca di Costantino.

La sua individuazione non è certa, ma si è supposto che fosse la grande esedra a ferro di cavallo alle spalle del muro perimetrale del Foro Transitorio, collocata in posizione concava rispetto al foro stesso. Era dotata di colonnato.


Porticus Aemilia



La Porticus Aemilia era un portico commerciale di Roma antica utilizzato come magazzino e situato all'Emporium, il porto fluviale cittadino a sud dell'Aventino. I suoi resti si trovano oggi tra via Beniamino Franklin e via Marmorata. Alcuni muri superstiti, in opera incerta di tufo, sono tuttora visibili in via Branca, in via Rubattino e in via Florio. Di recente è stata suggerita un'identificazione alternativa con i Navalia repubblicani, destinati ad ospitare le navi da guerra della flotta romana.

La porticus venne edificata nel 193 a.C. dagli edili Marco Emilio Lepido e Lucio Emilio Paolo (da cui il nome legato alla Gens Aemilia), e venne completata nel 174 a.C. dai censori Marco Emilio Lepido e Marco Fulvio Nobiliore.

L'edificio era molto grande, lungo ben 487 metri, largo 60 e suddiviso in più ambienti da 294 pilastri, che creavano sette file (nel senso della profondità) e 50 navate, ciascuna coperta da un serie di volticelle sovrapposte e larghe 8,30 metri, per una superficie coperta di 25000 m².[1].

L'edificio era in strettissima relazione col porto dell'Urbe: era distante circa 90 metri dal fiume e qui venivano immagazzinate le merci scaricate dalle imbarcazioni che rifornivano tutta la città. A livello architettonico la tipologia di edifici utilitari rientrava in un campo molto ambito dagli architetti romani poiché in questa classe di edifici potevano largamente sperimentare i materiali da costruzione cercando anche di scoprirne nuove applicazioni.

In epoca traianea o più tarda altri edifici si interposero tra il fiume e la porticus.


Porticus Vipsania



La Porticus Vipsania erano dei portici fatti edificare dalla sorella di Marco Vipsanio Agrippa, Polla, e poi terminati da Augusto. Si trovavano nella VII regio augustea alle pendici del Pincio, lungo le arcate dell'Acqua Virgo. Probabilmente si tratta dei resti scoperti durante la costruzione della Galleria Sciarra.
 
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morgana1869
view post Posted on 6/6/2013, 10:46     +1   -1




Ponte di Probo




Il ponte di Probo (pons Probi) è attestato dalle fonti a Roma e scavalcava il Tevere tra l'Aventino e Trastevere. Fu costruito sotto l'imperatore Marco Aurelio Probo (276-282) e subì rifacimenti sotto Teodosio I, con lavori che per difficoltà di cantiere si prolungarono dal 381 al 387. Fu quindi conosciuto come "ponte nuovo" (pons novus) o come ponte di Teodosio (pons marmoreus Theodosii).

La sua precisa ubicazione non è ancora stata definita. Secondo alcuni[senza fonte] va identificato con alcuni resti presenti nel fiume fino al XIX secolo, che potrebbero tuttavia essere resti di crolli dall'Aventino.

Cesare D'Onofrio ritiene che ponte di Probo sia un appellativo relativo al ponte di Agrippa assegnatogli in seguito a lavori di restauro eseguiti sul ponte e che i resti nell'alveo del Tevere siano da ricondurre a delle strutture difensive localizzate nel punto in cui le Mura aureliane passavano dalla sponda sinistra del fiume alle pendici del Gianicolo sulla sponda destra.



Ponte Neroniano



Il Ponte Neroniano o Ponte Trionfale a Roma, consentiva all'antica via Trionfale, asse della viabilità del Vaticano in epoca romana, di attraversare il fiume Tevere. Il ponte venne costruito sotto l'imperatore Nerone nel I secolo, per migliorare i collegamenti con le sue proprietà sulla riva destra del fiume (tra cui la villa della madre Agrippina). Si è discussa anche una sua possibile attribuzione a Caligola, che l'avrebbe costruito per dare accesso al suo circo.

Non si conosce l'epoca della distruzione e forse andò in disuso in occasione della costruzione delle mura aureliane, nelle quali sembra mancare una porta in corrispondenza del ponte, anche a causa della vicinanza del ponte Elio. Potrebbe tuttavia essere contato tra i tredici ponti menzionati da un'iscrizione del IV secolo. Non doveva più essere utilizzabile nel VI secolo ai tempi della guerra gotica.

Attualmente nei periodi di magra del fiume sono visibili i resti dei piloni, in prossimità dell'odierno Ponte Vittorio. I resti in elevato dei piloni furono demoliti nel XIX secolo per facilitare la navigazione.
 
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