Un Mondo Accanto

Tutta la mitologia Greca, In ordine alfabetico

« Older   Newer »
  Share  
Demon Quaid
view post Posted on 26/9/2010, 14:24 by: Demon Quaid     +1   -1
Avatar

Vampiro di dracula

Group:
Administrator
Posts:
16,003
Reputazione:
+105
Location:
Dall'isola che non c'è....l'Inferno?

Status:


M



Macaone (mitologia)

Macaone il chirurgo cura la ferita di Menelao, causata da una freccia di Pandaro. Opera tratta dal Diario medico.

Macaone è un personaggio della mitologia greca, figlio di Asclepio ed Epione, fratello di Podalirio. Celebre medico, imparò le sue arti guaritrici dal padre e dal maestro Chirone. Era tra i pretendenti di Elena.

Giunse al porto di Aulide insieme al fratello Podalirio, portando con sé 40 navi. Curava le ferite degli Achei ma combatteva comunque nelle battaglie. Guarì la ferita di Menelao causatagli dalla freccia di Pandaro. Venne a sua volta ferito quando i troiani attaccarono il muro acheo e fu costretto a ritirarsi insieme a Nestore nella sua tenda. Curò l’ulcera di Filottete quando questi venne portato via dall’isola di Lesbo dove era stato confinato. Morì per mano di Euripilo, figlio di Telefo, secondo un’altra tradizione fu invece l’amazzone Pentesilea a ucciderlo. La sua salma venne riportata in Grecia da Nestore.

Macaone è invocato da Antonio Abati nella sua opera Le Frascherie. Nella sua satira sulla pazzia, questo carissimo autore del'600, scrive: "sian dei fusti di Anticira ripiene e Macaone el dìa...". Nella visione abatiana Macaone è visto quale dispensatore di "libertà" se accettiamo le sue medicine anti-inibitorie. Da questa esortazione si evince forse alcuna normalità nell'assunzione di Elleboro detto anticira dal nome della città turca famosa per la produzione di questa sostanza.

Macareo 1

Figlio di Eolo e di Enarete si giacque con la sorella Canace. Eolo, inorridito, gettò in pasto ai cani il frutto del loro amore incestuoso e mandò a Canace una spada con cui essa si trafisse. Più tardi tuttavia Eolo venne a sapere che tutti i suoi altri figli e figlie, ignari che l'incesto tra i mortali fosse un'offesa per gli dèi, si erano accoppiati innocentemente e ormai si consideravano marito e moglie. Per non irritare Zeus, che considerava l'incesto un prerogativa degli olimpi, Eolo spezzò queste unioni e ordinò a quattro dei suoi figli superstiti di emigrare. Essi si recarono in Italia e in Sicilia, dove ciascuno di loro fondò un regno famoso, e si rivelarono emuli del padre per castità e saggezza; soltanto il quinto figlio, il maggiore, rimase a Lipari come successore al trono.
Taluni dicono che Macareo e Canace ebbero una figlia, Anfissa, che più tardi fu amata da Apollo.

Macareo 2

Compagno di Odisseo, si fermò nell'attuale Gaeta. Secondo Ovidio riconobbe il suo antico compagno Achemenide che riteneva morto, nella flotta troiana guidata da Enea, e gli raccontò la storia del viaggio di Odisseo da Troia.

Macaria

L'unica figlia di Eracle e di Deianira. Dopo la morte del padre sull'Eta, si rifugiò con i fratelli a Trachis, presso il re Ceice. Ma, perseguitati dall'odio di Euristeo, gli Eraclidi si recarono ad Atene, dove Teseo li installò a Tricorito, una città della tetrapoli attica, e si rifiutò di consegnarli a Euristeo: questa fu la causa della prima guerra tra Atene e il Peloponneso. Infatti, quando tutti gli Eraclidi giunsero all'età virile, Euristeo radunò un esercito e marciò contro Atene. Poiché un oracolo aveva detto che gli Ateniesi sarebbero stati sconfitti a meno che uno dei figli di Eracle non si fosse sacrificato per il bene comune, Macaria si offrì spontaneamente. Gli Ateniesi sconfissero Euristeo in una furibonda battaglia e uccisero i suoi figli, oltre a molti dei suoi alleati. Euristeo fuggì sul suo cocchio, ma venne raggiunto e ucciso presso le rocce Scironie.
In ricordo di Macaria vi era, presso Maratona, in Attica, una fonte chiamata Macaria.

Macride

Figlia d'Aristeo e di Autonoe, allevò con altre ninfe sul monte Nisa, in Elicona, il piccolo Dioniso che era stato loro affidato da Ermete. Esse lo celarono in una grotta e lo nutrirono di miele. Quando Era riconobbe in lui il figlio di Zeus, benché fosse molto effeminato per via dell'educazione ricevuta, lo fece impazzire. Dioniso andò vagando per il mondo e si rifugiò nell'isola di Corcira (Corfù), che si chiamava allora Drepane, e qui visse nella Grotta di Macride, dove più tardi Giasone e Medea celebrarono le loro nozze con un sontuoso banchetto e stesero il Vello d'Oro sul loro talamo.
Medea, dietro preghiera di Dioniso, fece ringiovanìre la ninfa Macride e le sue sorelle quando le incontrò a Drepane o Corcira; Zeus, in segno di gratitudine, pose poi la loro immagine tra le stelle, come costellazione delle Iadi.

Sacerdote di Delfi, figlio di Daita, che uccise Neottolemo, figlio di Achille.
Neottolemo si era recato a Delfi a consultare l'oracolo e a chiedergli il motivo della sterilità del suo matrimonio con Ermione, figlia di Menelao. Ora, per antica usanza, le carni delle vittime sacrificate a Delfi venivano consumate dai sacerdoti del tempio; Neottolemo, che non conosceva questo particolare, non potè tollerare di vedersi portar via di sotto agli occhi quei bei quarti di bue grasso ch'egli aveva sacrificato, e tentò di impedirlo con la forza. Al che uno dei sacerdoti, chiamato Machereo, abbattè Neottolemo con il suo coltello sacrificale, per far rispettare i privilegi della casta sacerdotale.
Neottolemo fu sepolto sotto la soglia del tempio di Delfi, e gli furono tributati onori divini.

Maia 1

Nella mitologia greca era una ninfa, considerata come figlia di Atlante e di Pleione o Sterope, la maggiore e la più bella delle Pleiadi. Maia era anche ninfa dei boschi perché viveva sul monte Cillene in Arcadia. Amata da Zeus in una caverna solitaria del monte diede alla luce Ermete, la cui crescita era tanto rapida che il primo giorno di vita riuscì a rubare ad Apollo gli armenti. Maia fu stranamente immune dalla gelosia di Era e sul monte Cillene fu anche nutrice di un figlio di Zeus e di Callisto, di nome Arcade. Essa rapresenta con le altre Pleiadi il principio vivificante del cielo, simbolo del periodo delle piogge che fanno germogliare dalla terra i semi. Nel culto Maia è talvolta associata a Ermete.

Maia 2

Anche Roma e gli Italici avevano una loro antica divinità Maia, omonima, ma ben diversa dalla greca madre di Ermete, o Maiesta, la divina compagna di Vulcano. Il nome di Maia è connesso con magnus e con il nome del mese di maggio, maius. A lei, come dea e personificazione del risveglio della natura a primavera, era dedicato il primo giorno di maggio, e il flamine Vulcanale (sacerdote di Vulcano) alle calende di maggio sacrificava una scrofa pregna, simbolo del favore che si attendeva dalla dea perché il calore del sole diffondendosi sulla terra desse sviluppo tanto alla vita vegetale quanto alla vita animale.
Sotto l'influenza della Grecia le due dee omonime, la greca e la romano-italica, furono identificate, e questa identificazione contribuì alla diffusione del culto della Maia italica, e portò anche all'assimilazione di Ermete con Mercurio, sotto l'influsso del culto di Ermete e di Mercurio praticato nella Campania. La più antica testimonianza del culto comune di Maia e Mercurio si ha nel calendario anziate precesareo: il 15 maggio si sacrificava Mercurio Maiae nel sacrario di Mercurio presso il Circo Massimo.

Mane (mitologia)

Nella mitologia greca, Mane o Mani, era un re della Frigia, che tuttavia è di caratettere puramente leggendario e non ha alcun rapporto con la storia.

Questo re frigio era ritenuto dai suoi sudditi generato dall'unione di Zeus e della Terra, Gea. Ad eccezione della sua genealogia, nulla si possiede sul suo mito; tuttavia passava anche per aver dato origine ad una prospera stirpe frigia.

Mane si era unito infatti ad un'Oceanina, chiamata Calliroe, la quale gli diede tre figli: Ati, Coti e Acmone. Il secondo di questi, secondo una versione, si sarebbe a sua volta sposato e dalla sua discendenza ebbero origine Lido e Tirreno, entrambi figure legate al culto etrusco.

Mani

Numi romani per gli spiriti dei morti, solitamente chiamati di manes. In tempi più tardi la parola manes fu usata anche nel senso topografico di "inferi" e a volte anche per nominarne gli dèi, Ade (Plutone) e Persefone (Proserpina). Secondo i Romani i mani degli antenati (di parentes) uscivano dalle tombe per alcuni giorni ogni febbraio (parentalia, "il giorno di tutte le anime", feralia, "il giorno delle offerte") e dovevano essere propiziati con sacrifici.

Manto

Manto, figlia dell'indovino tebano Tiresia dal quale aveva ereditato le capacità magiche e divinatorie, è ricordata da Virgilio (Eneide X, 198-200), da Servio nel suo commento a Virgilio, da Ovidio (Metamorfosi VI, 157 e seguenti) e da Stazio (Thebais, IV 463-466 e VII 578 e seguenti)

A seconda degli autori essa ha diversi connotati. Fu consacrata sacerdotessa di Apollo a Delfo. Per Virgilio fu moglie di Tosco (il mago personificazione del fiume Tevere) e madre di Ocno, leggendario fondatore di Mantova che prese il nome proprio da Manto. Secondo altri autori greci generò Mopso.

In Stazio, dopo la morte del padre durante l'assedio di Tebe, essa iniziò a vagare per molti paesi, prima di fermarsi lungo le rive del Mincio dove creò un lago con le sue lacrime, il lago che circonda Mantova appunto. Queste acque avevano il magico dono di conferire capacità profetiche a chi le beveva.

Dante Alighieri la riprese per includerla tra i dannati all'Inferno, nella quarta bolgia del ottavo girone dei fraudolenti, tra altri indovini mitologici compreso il padre Tiresia.

La sua presenza dà l'occasione al poeta di scrivere una lunga parentesi sulle origini di Mantova, che viene fatta pronunciare da Virgilio stesso. Smentendo sé stesso, Dante immagina che egli rettifichi la sua versione dei fatti, circoscrivendo la fondazione a fatti scevri da riti magici: Manto sarebbe morta nel sito dove poi altri uomini, "sanz'altra sorte" cioè senza sortilegi, fondarono la città, scegliendo il nome in onore della donna lì sepolta. In realtà l'Alighieri la cita anche in Pg. XXII 113 come figlia di Tiresia ospitata invece nel Limbo, commettendo quindi una probabile svista.

Maride


Nella mitologia greca, Maride (o, secondo altre versioni, Mari) era il nome di un giovane guerriero alleato dei troiani che prese parte alla guerra di Troia, il conflitto scoppiato in seguito al rapimento di Elena, la regina di Sparta, da parte di Paride, principe troiano, suo amante. La vicenda di tale personaggio è raccontata da Omero nell'Iliade.
Indice

Omero afferma che Maride era figlio di un certo Amisodaro, personaggio conosciuto per aver tenuto a bada, nutrendola, la Chimera, l'orrenda creatura generata da Tifone ed Echidna, che venne infine sconfitta da Bellerofonte. Oltre a Maride, Amisodaro aveva anche un altro figlio, Atimnio, che come il fratello possedeva la rara dote di abile guerriero. L'autore dell'Iliade si sofferma infatti nell'elogiare i due giovani combattenti, entrambi descritti come "gloriosi" e "figli guerrieri".

La morte in guerra

Allo scoppio della guerra di Troia, Maride partì alla volta della città insieme al fratello, arruolandosi nell'esercito di Sarpedone, un valoroso capitano della Licia alleatosi con i Troiani. Pur parlando bene dei due guerrieri, Omero non si sofferma sugli episodi delle loro gesta, ma li menziona esclusivamente al momento della loro morte.
Il primo ad essere trafitto dal nemico fu Atimnio che cadde sotto la lancia di Antiloco, figlio di Nestore. Acceso di ira alla vista del fratello morto, Maride si scagliò sul suo assassino, parandosi di fronte al cadavere, ma Trasimede, valoroso guerriero acheo fratello di Antiloco, intervenne tempestivamente trapassando la spalla del nemico con la lancia maciullandone muscoli e ossa.

Marmace

Fu il primo a presentarsi come pretendente alla mano di Ippodamia, figlia del re di Pisa, in Elide, Enomao.
Un oracolo aveva predetto ad Enomao la morte per mano del genero ed egli, per allontanare i pretendenti, aveva posto la mano della figlia come premio d'una corsa col carro. Egli non aveva alcuna difficoltà a battere il concorrente, poiché possedeva cavalli divini che gli erano stati dati da Ares. Poi, una volta vinto, tagliava la testa al pretendente e la inchiodava alla porta della sua casa, per spaventare, si dice, i futuri pretendenti. Quando uccise Marmace, il primo pretendente, ne sgozzò anche le cavalle, Partenia ed Erifa, e le seppellì presso il fiume Partenio dove ancora si vede la loro tomba.

Marone

Figlio di Evante e sacerdote di Apollo a Ismaro, città dei Ciconi.
Dopo che Odisseo ebbe lasciato Ilio, approdò nella terra dei Ciconi e la saccheggiò. Odisseo considerò che essendo Marone un sacerdote di Apollo, non era conveniente attirarsi le ire del dio uccidendo un suo sacerdote, quindi impedì che i suoi uomini facessero del male a Marone e ai suoi familiari. Marone gli donò per gratitudine alcune giare del suo portentoso vino: era di una tale forza che per poterlo bere senza ubriacarsi, ogni coppa doveva essere allungata con dodici parti di acqua. Proprio con questo vino Odisseo riuscì a ubriacare il ciclope Polifemo e, infine a sfuggirgli.
Marone, tipo del perfetto ubriaco, figurava su una fontana, a Roma, nel portico di Pompeo.

Marpessa

Marpessa, è una figura della mitologia greca, figlia del dio del fiume Eveno.

Idas la rapì e si scontrò con Apollo per lei. Dovette intervenire Zeus, che separò i contendenti, lasciando libera Marpessa di scegliere.

Marpessa scelse Idas, timorosa dell'incostanza del dio Apollo, che fu costretto ad allontanarsi.

Marsia

Marsia è una figura della mitologia greca, figlio di Eagro. Secondo altre versioni sarebbe invece figlio di Olimpo.
Marsia legato nudo ad una corteccia d'albero, scultura di marmo, copia romana da I-II secolo dopo l'età ellenistica, da Roma, Parigi, Louvre.

Era un sileno, dio del fiume Marsia, affluente del Meandro in Anatolia.

Pindaro narra di come la dea Atena una volta inventato l'aulos lo gettò via, infastidita del fatto che le deformasse le gote quando lo suonava.

Marsia lo raccolse, causando il disappunto di Atena, che lo percosse. Non appena Atena si fu allontanata Marsia riprese lo strumento ed iniziò a suonarlo con una tale grazia che tutto il popolo ne fu ammaliato, affermando che avesse più talento anche di Apollo.

Marsia, orgoglioso, non li contraddisse, finché un giorno la sua fama arrivò ad Apollo, che testé lo sfidò (secondo altre versioni fu lo stesso Marsia a sfidarlo).

Al vincitore, decretato dalle Muse che sarebbero state i giudici della tenzone, era concesso il diritto di far ciò che volesse del contendente. Dopo la prima prova, però, le Muse assegnarono un pareggio che ad Apollo, ovviamente, non andava bene. Così, il dio invitò Marsia a rovesciare il suo strumento e a suonare: Apollo, logicamente, riuscì a rovesciare la cetra e a suonarla ma Marsia non poté fare altrettanto con il suo flauto e riconobbe Apollo vincitore. Il dio, allora, decise di punire Marsia per la sua superbia (hýbris, in greco) e, legatolo ad un albero, lo scorticò vivo.

L'episodio ispirò molti artisti tra cui Mirone, Prassitele, Ovidio, Tiziano e Dante; quest'ultimo in particolare lo ricorda nell'invocazione ad Apollo nel canto I del Paradiso.

Ovidio menziona la sorte dell'auleta nel VI libro delle Metamorfosi.

Marte

Antica divinità italica. Egli è con Giove la divinità più schiettamente italica, al cui nome sono legati i miti e le leggende più care della tradizione romana. Marte è il dio della vegetazione primaverile, a cui è sacro il primo mese dell'anno secondo l'antico calendario romano (marzo), a lui erano votati i giovani della primavera sacra (ver sacrum), che in una data primavera si allontanavano per sempre dalla patria e andavano a fondare una nuova colonia, per esempio, gli Irpini, i Picenti, i Marsi, guidati sempre da un animale sacro al dio: il picchio, il lupo, il toro. I fratelli Arvali (un antico collegio di dodici sacerdoti), durante le Ambarvalia, eseguivano un antico canto in cui veniva invocata la sua protezione sulle genti e sui campi. Ogni anno il 14 di marzo si compiva nel Campo di Marte la cerimonia della cacciata, a colpi di bastone, di un vecchio, Mamurio Veturio (Marte vecchio), che, come tanti altri riti simili, vuole significare la fine dell'anno vecchio.
Marte tuttavia, come protegge i campi dalla lue insidiatrice del raccolto, così deve guardarli dalle devastazioni del nemico in tempo di guerra: e qui sta il punto di passaggio dal Marte naturistico a quello guerriero. E poiché la guerra fu per i Romani una necessità imprescindibile per conquistarsi una salda posizione politica, si capisce come il secondo aspetto di Marte abbia finito con oscurare l'antico. All'inizio di ogni spedizione il duce entrava nel tempio e dinanzi ai sacri scudi (ancili) e alla lancia lo avvertiva di vigilare: "Mars, vigila!". All'aprirsi e al chiudersi del periodo utile per le operazioni militari (marzo e ottobre) si facevano in suo onore varie feste destinate alla consacrazione e purificazione di vari oggetti guerreschi: cavalli (Equiria, 27 febbraio e 14 marzo); trombe (Tubilustrium, 23 marzo e 23 maggio); armi (Armilustrium, 19 ottobre). L'identificazione con Ares è tarda, quando la cultura greca incominciò a penetrare in Roma.
Secondo i Romani, Giunone diede alla luce Marte che, secondo una tradizione riferita da Ovidio, era stato concepito senza il soccorso di Giove, ma grazie a un fiore magico che Flora le aveva procurato. I Greci invece attribuiscono la paternità di Ares a Zeus. Marte era sposato a una dea minore a nome Nerio (parola che significa "forza"). Il suo culto romano aveva un'immensa importanza per lo Stato, si riteneva che egli fosse il padre di Romolo, nato dalla vestale Rea Silvia. Aveva visitato Rea Silvia, si diceva, mentre dormiva e insieme avevano concepito due gemelli, Romolo e Remo. Lo zio Amulio cercò di ucciderli gettandoli nel Tevere, ma una lupa li salvò, e quando divenne adulto Romolo fondò la città di Roma. La lupa e il picchio, che avevano contribuito a salvare i due bambini, erano sacri a Marte.
Vi sono altre due vicende del mito: una narra del sacro Ancile, lo scudo bronzeo che sarebbe caduto dal cielo ai tempi del regno di Numa Pompilio. Poiché il destino di Roma, secondo questa leggenda, anzi il destino di tutto l'impero, era legato a quello scudo, Numa ne fece costruire altri undici, e confuse quello originale tra di essi, e poi li nascose nel tempio di Marte. Il collegio dei Salii era preposto particolarmente alla custodia dei dodici ancili. Nell'altra leggenda, Marte si innamorò di Minerva e chiese all'anziana dea Anna Perenna di fargli da pronuba; Anna disse a Marte che Minerva voleva sposarlo e quando il dio andò a prendere la sua sposa alzò il velo e vide che al posto della dea Minerva c'era la vecchia Anna Perenna. Gli altri dèi si divertirono allo scherzo.
Marte diede il nome al territorio sulla sinistra del Tevere destinato agli esercizi militari e ginnici e chiamato appunto Campo di Marte. Ai tempi di Augusto gli venne dato il nome di Ultor ("vendicatore") in memoria della parte sostenuta dall'imperatore nella vittoria sugli assassini di Giulio Cesare.

Mastusio

Nella mitologia greca, Mastusio era il nome di un nobile della città di Eleonte di cui si raccontano le gesta.

Nella città vi era una regola ferrea: ogni anno doveva essere sacrificata una donna nobile, lo aveva voluto l'oracolo del luogo. Lui aveva diverse figlie che voleva salvare in tutti i modi dal destino, per far ciò decise che non avrebbe mai inserito il loro nome nelle urne se non faceva altrettanto il suo re. Il tiranno un giorno decise che non vi era bisogno dell'estrazione e uccise la figlia di Mastusio. Egli cercò vendetta invitando le figlie e il re a casa sua. Giunsero prima le ragazze che lui uccise e prese da loro il sangue che versò in un calice. alla venuta del re gli offrì la bevanda nefasta, appena accortosi dell'orribile gesto il sovrano prese il nobile e lo fece precipitare in mare che da allora prese il nome del nobile: mare mastusiano.

Mater Matuta

Antichissima divinità latino-italica che aveva culto in Roma e in tutta l'Italia centrale, a Satrico, a Cora, a Preneste, a Pesaro. In origine fu una divinità della luce mattutina, una dea dell'aurora. Da alcune testimonianze epigrafiche si può desumere che accanto a Mater Matuta vi fosse stato originariamente un Pater Matutinus, identificato poi con Giano. Dal significato primitivo era facile il passaggio a quello di divinità protettrice dei Parti (una specie di sdoppiamento di Giunone Lucina), perché i Romani vedevano un parallelismo tra la nascita degli uomini e il sorgere della luce dalle tenebre.
Il tempio più famoso di Mater Matuta era quello della volsca Satrico. A Roma aveva un solo tempio che la tradizione attribuiva a Servio Tullio, rinnovato da Marco Furio Camillo nel 395 avanti Cristo. Il tempio sorgeva sul Forum Boarium entro la porta Carmentale. Il culto di Mater Matuta in Roma doveva essere molto antico, perché la sua festa delle Matralia era notata nell'antico calendario numano e perché vigevano in queste feste usi arcaici. Fra l'altro le matrone nelle loro preghiere a Mater Matuta nominavano i figli dei fratelli e delle sorelle prima dei figli propri, e ciò può venire spiegato come un residuo del matriarcato di qualche antichissima tribù preitalica. Le Matralia erano celebrate l'11 giugno e adesse intervenivano soltanto vergini o donne univire, cioè non risposate. Dal culto erano escluse le schiave, e questa esclusione si rinnovava ogni anno, introducendo nelle cerimonie una schiava che veniva scacciata a frustate dal tempio. Le matrone facevano alla dea l'offerta rituale che consisteva in focacce cotte sul focolare in vasi di terra.

Meandro (mitologia)

Meandro è un personaggio della mitologia greca. Era il re di Pessinunte, in Frigia. In conflitto con la città di Possene, fece voto a Cibele di sacrificare la prima persona che avesse visto al suo ritorno in patria se gli avesse concesso la vittoria. Incontrò contemporaneamente la madre, la sorella ed il figlio e li sacrificò tutti e tre. In seguito si pentì del suo gesto e, tormentato dal rimorso, si uccise gettandosi nel fiume Anabenone che prese per questo il suo nome.

Mechisteo


Mechisteo (o Mecisteo) è una figura della mitologia greca, figlio di Talao e di Lisimache.

Eroe della città di Argo e padre di Eurialo, prese parte ai giochi funebri in onore di Edipo.

Partecipo alla spedizione dei Sette contro Tebe, dove venne ucciso da Melanippo.

Mecisteo è anche il nome di due guerrieri di parte achea nella guerra di Troia.

Mecisteo (Iliade)

Nella mitologia greca, Mecisteo è il nome di due guerrieri di parte achea che presero parte alla guerra di Troia sotto il comando del re Agamennone. Sono citati nell'Iliade di Omero ma spesso la loro somiglianza ha portato a confonderli tra loro.

In ordine di menzione sono i seguenti:

* Mecisteo, guerriero acheo, figlio di Echio.
* Mecisteo, guerriero acheo.

Meda (mitologia)

Nella mitologia greca, Meda era il nome della moglie di Idomeneo, re di Creta.

Dall'unione nacque Clisitera una ragazza a cui venne imposto il fidanzamento con Leuco, un ragazzo abbandonato dai genitori che Idomeneo aveva cresciuto. Appena il re lasciò il regno Leuco uccise sia la donna che Meda, anche se si erano nascoste nel tempio.

Medea (mitologia)

Medea (dal greco: Μήδεια, Mèdeia) è una figura della mitologia greca, figlia di Eete, re della Colchide, e di Idia. Era inoltre nipote di Elio (secondo altre fonti di Apollo) e della maga Circe, e come quest'ultima era dotata di poteri magici.

Invece secondo la variazione del mito (Diodoro Siculo), il sole, Elio ebbe due figli, Perse e Eeta. Perse ebbe una figlia, Ecate potentissima maga, che lo uccise e più tardi si congiunse con lo zio Eeta. Da questa unione sarebbero nati Circe, Medea ed Egialpo.

Figlia di Eete, re della Colchide, è uno dei personaggi più celebri e controversi della mitologia greca. Il suo nome in greco significa "astuzie, scaltrezze", infatti la tradizione la descrive come una maga dotata di poteri addirittura divini.

Quando Giasone arriva in Colchide insieme agli Argonauti alla ricerca del Vello d'oro, lei se ne innamora perdutamente. E pur di aiutarlo a raggiungere il suo scopo giunge a uccidere il fratello Apsirto, spargendone i poveri resti dietro di sé dopo essersi imbarcata sulla nave Argo insieme a Giasone, divenuto suo sposo. Il padre così, trovandosi costretto a raccogliere le membra del figlio, non riesce a raggiungere la spedizione, e gli Argonauti tornano a Corinto con il Vello d'Oro.

Dopo dieci anni, però, Creonte, re della città, vuole dare sua figlia Glauce in sposa a Giasone, dando così a quest'ultimo la possibilità di successione al trono. Giasone accetta, abbandonando così sua moglie Medea.

Vista l'indifferenza di Giasone di fronte alla disperazione della donna, Medea medita una tremenda vendetta. Fingendosi rassegnata, manda in dono un mantello alla giovane Glauce, la quale, non sapendo che il dono è pieno di veleno, lo indossa per poi morire fra dolori strazianti. Il padre Creonte, corso in aiuto, tocca anch'egli il mantello, e muore.

Ma la vendetta di Medea non finisce qui. Secondo la tragedia di Euripide, per assicurarsi che Giasone non abbia discendenza, uccide i figli [Mermo e Fere] avuti con lui: il dolore per la perdita dei propri discendenti porta Giasone al suicidio. La maggior parte degli storici greci del tempo di Euripide, tuttavia ricorda che i figli di Medea, che ella non riuscì a portare con sé, furono uccisi dagli abitanti di Corinto per vendetta.

Fuggita ad Atene, a bordo del carro del Sole, Medea sposa Egeo, dal quale ha un figlio: Medo. A lui Medea vuole lasciare il trono di Atene, finché Teseo non giunge in città. Egeo ignora che Teseo sia suo figlio, e Medea, che vede ostacolati i suoi piani per Medo, suggerisce al marito di uccidere il nuovo venuto durante un banchetto. Ma all'ultimo istante Egeo riconosce suo figlio, e Medea è costretta a fuggire di nuovo.

La Medea di Ovidio


Ovidio tratta del mito di Medea in due distinte opere: le Heroides e le Metamorfosi. Nel primo testo è la donna a parlare cercando di commuovere il marito, ma il racconto si interrompe prima del compimento della tragedia e il suo completamento è possibile al lettore solo attraverso la memoria letteraria. La Medea delle Metamorfosi è ben diversa: essa oscilla tra ratio e furor, mens e cupido, riprendendo, almeno in parte, la giovane tormentata dai rimorsi di Apollonio Rodio, divisa tra il padre e Giasone. Medea si dilania tra incertezza, paura, commozione e compassione.

La metamorfosi avviene in modo repentino ed è possibile rintracciarla attraverso il confronto tra la scena dell'incontro con Giasone nel bosco sacro e il ringiovanimento del padre dell'amato: se nel primo caso appare come un medico antico, nel secondo utilizza esplicitamente la parola "arte" mostrandosi come una vera strega.

Anche Ovidio riprende la scena del carro, presente già in Seneca e Euripide, ma se in questi due casi l'episodio è inserito alla fine del racconto, Ovidio lo colloca a metà della narrazione: in tal modo Medea perde le sue qualità umane e il mondo reale cede il posto a quello fantastico.

All'inizio della "Metamorfosi", Medea è la protagonista assoluta, ma pian piano cessa di essere un'eroina in cui il lettore può identificarsi e diviene un personaggio che appare e sparisce come per magia.

La tragicità del finale non è sfruttata al massimo: Medea è divenuta una vera strega e quindi non soffre dell'infanticidio commesso né potrebbe soffrire di un'ipotetica punizione.

La Medea di Draconzio

Nella parte introduttiva Draconzio afferma di voler fondere tutti i motivi tipici del mito di Medea; lo fa invocando la Musa Melpomene e la Musa Calliope. Medea e Giasone appaiono tutti mossi dal destino e dalla volontà degli dei, legati come sono agli scontri tra Venere e Diana. Infatti la dea della caccia sentendosi tradita per il matrimonio della sua sacerdotessa scaglia una maledizione contro di lei, da cui si snoderà la morte del marito e dei figli. All'inizio Medea è descritta come una "virgo cruenta", ma viene definita maga solo a verso 343. Caratteristica di questo racconto è che è la donna a rubare il vello d'oro donandolo poi a Giasone, che appare per tutta la narrazione una figura passiva. Anche quando entra in scena Glauce l'eroe è semplice oggetto del desiderio, che la giovane otterrà anche a costo di rompere il legame matrimoniale che lo vincola. Entrambe le donne trasgrediscono così le norme morali: da un lato Medea tradisce la dea Diana, dall'altro Glauce porta al tradimento Giasone. Durante le nozze l'attenzione si concentra sulla coppia mentre Medea prepara la vendetta: sarà lei a donare a Glauce la corona da cui prenderà fuoco l'intero palazzo. Ma il punto culminante della tragedia è il sacrificio che Medea offre a Diana: i suoi figli, così che l'infanticidio non è più condotto per vendetta, ma come richiesta di perdono. Nella scena finale l'autore riprende l'episodio del carro, ma questa volta il volo della donna ha valore semantico e non narrativo: Medea si riunisce a Diana e ritorna la "virgo cruenta" dell'inizio della narrazione, lasciando a terra tutto ciò che era ancora legato a Giasone.

Edited by demon quaid - 29/12/2014, 20:50
 
Top
94 replies since 12/6/2010, 23:03   25202 views
  Share