Un Mondo Accanto

Chi troviamo nell'oscura selva?

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view post Posted on 2/4/2010, 13:16     +1   -1
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Il diavolo è sicuramente donna.

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Lonza (animale)

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Lonza (dal francese antico lonce), probabilmente ai tempi di Dante Alighieri indicava un felino, presumibilmente la lince (ma avrebbe potuto trattarsi anche di un leopardo o una Pantera nera), un tempo presente in tutta Europa, attualmente solo nelle Alpi ma in quei tempi evidentemente anche negli Appennini.

Dante la pone tra le tre fiere, lince-leone-lupa, simboli di altrettanti peccati capitali, che gli sbarrano la strada nel primo canto dell'Inferno (Divina Commedia I, vv. 31-60).

Allegoricamente i commentatori antichi indicano la lonza come la lussuria, che si interpone tra Dante e il colle con l'intento di farlo ripiombare nei suoi dubbi peccaminosi.

Su un antico documento viene citato che una lonza o leonza veniva tenuta in una gabbia nel Comune di Firenze, forse da qui l'idea di Dante di rappresentare allegoricamente la sua città con questo animale. In reatà il serraglio di leoni che Firenze teneva dietro Palazzo Vecchio, in quella che oggi si chiama appunto Via dei Leoni, è ben documentato, e non si vede perché egli non avrebbe usato il leone stesso, che incontrerà poco dopo, per indicare la sua città.

Quindi l'interpretazione legata a un vizio umano, sebbene non tutti siano concordi nell'indicare proprio la lussuria, sembra quella più valida e accettata, considerando che nei bestiari medievali la lonza veniva definita un animale sempre in calore e che quindi si accoppiava in ogni stagione.

Virgilio

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Virgilio è la guida di Dante nel viaggio attraverso i nove cerchi infernali e nell'ascesa al monte del Purgatorio. Dalla settima Cornice del Purgatorio ai due poeti si affianca Stazio, che ha completato il cammino di purgazione e si accinge ad ascendere al Paradiso. Giunti nel Paradiso Terrestre, Virgilio saluta Dante e si appresta a tornare nel Limbo.
Beatrice si sostituisce al poeta latino nel ruolo di guida attraverso i nove cieli del Paradiso.
Giunti nel decimo cielo, l'Empireo, Beatrice torna al suo seggio nella Candida Rosa ed il ruolo di guida, nell'ultimo tratto del viaggio ultraterreno, viene assunto da S. Bernardo di Chiaravalle.

Le scuole

Publio Virgilio Marone nacque il 15 ottobre del 70 a. C. ad Andes, un piccolo villaggio nei pressi di Mantova, da una oscura famiglia di coltivatori.
La sua formazione ebbe inizio a Cremona, dove frequentò la scuola di grammatica, e dove, a quindici anni, prese la toga virile.
Da Cremona si trasferì a Milano e poi nuovamente a Roma, alla scuola del retore Epidio, esponente dell'indirizzo asiano, così chiamato perchè di moda in Grecia, uno stile oratorio ricco e brillante, in netto contrasto con lo stile semplice degli oratori classici. Epidio, inoltre, annoverava tra i suoi discepoli i giovani che sarebbero diventati gli elementi di spicco della futura classe dirigente di Roma, fra cui Marco Antonio e Ottaviano.
Virgilio, tuttavia, schivo per natura, non aveva talento oratorio, nè intendeva perseguire la carriera forense. Abbandonò così la retorica per dedicarsi agli studi filosofici, e in particolare all'Epicureismo, che approfondì a Napoli alla scuola di Sirone.
Qui divenne intimo amico di Vario Rufo e Plozio Tucca, che saranno poi i curatori della prima edizione dell'Eneide.

La perdita delle terre

Dopo la morte di Cesare, fra il 44 ed i primi mesi del 43, Virgilio fece ritorno ad Andes, dove ritrovò l'amico della sua giovinezza, Asinio Pollione, che ricopriva l'incarico di distribuire le terre ai veterani.
Grazie a lui, uomo sensibile alle arti ed alla cultura, il poeta potè in un primo tempo sottrarre le sue terre all'esproprio, tuttavia, un anno più tardi, mentre era impegnato nella composizione delle Bucoliche, i suoi campi di Mantova furono assegnati ai soldati di Ottaviano, per i quali si era rivelato insufficiente il territorio di Cremona.
Virgilio non dimenticò mai il dolore causato dalla perdita della sua terra, per la quale sentì sempre una viva nostalgia.

Il trasferimento a Roma

Perdute le sue terre nel mantovano, Virgilio si trasferì a Roma, dove pubblicò le Bucoliche, composte dal 42 al 39 a.C.. L'anno successivo entrò a far parte del circolo letterario di Mecenate.
Catullo e Lucrezio erano morti da poco e soltanto la poesia alessandrina, coltivata da Cornelio Gallo, conservava ancora un certo splendore, mentre Orazio, che Virgilio stesso presentò a Mecenate, iniziava allora a scrivere le satire.
Mecenate ed Ottaviano, il suo referente politico, offrirono a Virgilio una casa a Roma, nel quartiere dell'Esquilino, ma il poeta spesso preferiva ritirarsi a sud verso il mare ed il sole, mentre si dedicava alla composizione delle Georgiche, compiuta in sette anni, durante un soggiorno a Napoli, fra il 37 ed il 30.
Le Georgiche diedero a Virgilio la fama e suscitarono l'ammirazione di Mecenate, che gli era stato particolarmente vicino nelle varie fasi della composizione.

L'Eneide


Nell'estate del 29 Ottaviano, tornato dall'Asia dopo la vittoria conseguita ad Azio su Antonio e Cleopatra, si era fermato ad Atella per riprendersi da un mal di gola. Là Virgilio gli lesse per quattro giorni di seguito i libri compiuti delle Georgiche, aiutato da Mecenate, che lo sostituiva nella lettura quando era stanco.
Dopo questo episodio, certo non senza un suggerimento da parte dello stesso Augusto, Virgilio fu scelto quale cantore del nuovo impero e del nuovo principe.

Da questo momento fino alla fine della vita Virgilio attese all'Eneide, un poema epico sulle origini di Roma. Virgilio aveva nella tradizione letteraria latina predecessori illustri nell'ambito di questo genere letterario, ma l'Eneide si richiamava più da vicino al modello omerico.
Il poema era stato inizialmente concepito come una narrazione allegorica delle imprese di Ottaviano, ma il poeta cambiò idea ed il poema storico venne sostituito dal poema epico sulle vicende di Enea, progenitore dei Romani.

Ancora tre anni dopo l'inizio della stesura dell'Eneide, Virgilio scriveva ad Augusto che il poema era solo "incominciato" e ci vollero ancora tre anni perchè la prima redazione dell'Eneide fosse terminata.
Nel 22 Virgilio lesse all'imperatore alcuni canti del poema, ma non si trattava ancora della stesura definitiva.

Il viaggio in Asia

Nel 19 a.C. Virgilio partì per un lungo viaggio attraverso la Grecia e l'Asia allo scopo di arricchire la propria cultura e, nello stesso tempo, verificare la topografia dei luoghi descritti nel poema.
Ad Atene il poeta incontrò Augusto, di ritorno dalle province orientali. Questi, notate le sue precarie condizioni di salute, lo persuase a tornare in Italia. Virgilio, che aveva appena visitato Megara sotto un sole cocente, era estenuato ed il suo stato si aggravò durante la traversata verso le coste italiane.
Sbarcato a Brindisi, il poeta era in fin di vita, ma prima di morire chiese il manoscritto dell'Eneide, ancora incompiuta, per bruciarlo. Gli amici non gli ubbidirono.
Era il 22 settembre del 19 a.C..
Il corpo di Virgilio fu trasferito a Napoli e sepolto sulla via di Pozzuoli. Suoi eredi furono Augusto e Mecenate, che diede incarico a Vario e Tucca di pubblicare l'Eneide.

Virgilio e Dante

L'incontro di Dante con Virgilio, all'uscita dalla "selva oscura" così come la sua elezione a guida nel viaggio attraverso l'Inferno e lungo le sette cornici del Purgatorio "non ha soltanto un significato simbolico, nel contesto religioso e morale del poema, ma anche un preciso avvertimento letterario, preceduto ed accompagnato dal ripudio di un altro poeta, Ovidio, e della poesia d'amore, in un più ampio ed ambizioso progetto di rinascenza culturale" (G. Petrocchi, Il I canto dell'Inferno, in Nuove letture dantesche, 1966).

"Tu se' lo mio maestro" (Inf. I, 85) gli dice Dante, in cui "magister" ha un significato più ampio del modello di bello scrivere, per diventare maestro di vita morale, colui che, pur non avendo avuto la rivelazione della fede, ha tenuta alta la lampada per far luce a quanti vengono dopo di lui.

Pg. XXII, 67-69
Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte.
Virgilio rappresenta, così, quell'umana virtù che costituisce il primo gradino del processo di ascesi dell'anima che, partendo dalla ragione, giunge ad una fede consapevole.


"Tu se' ... 'l mio autore" (Inf. I, 85) dice ancora Dante. Virgilio è l'"auctor", il precedente imprescindibile, il modello sicuro, la memoria, insieme personale e storica, colui che testimonia e conferma a Dante, con l'Eneide, la natura provvidenziale ed universale dell'Impero Romano, che prepara ed accompagna la redenzione spirituale operata da Cristo.
Nel Convivio il poeta aveva, infatti, asserito che "'autore' ... si prende per ogni persona degna d'essere creduta e obedita" (Convivio IV, vi, 5).


Il rinnovato incontro con Virgilio, che pure aveva già segnato profondamente gli anni della formazione, segna, per Dante, il passaggio dalla giovinezza spirituale e poetica alla piena maturità stilistica ed interiore.
Proprio grazie a questo passaggio Dante potrà parlare ancora di Beatrice, l'altro evento fondamentale nella sua vita, e finalmente nel modo degno che si augurava alla fine della giovanile Vita Nuova.

Enea

250px_Enea



Enea ferito da una freccia, curato dal medico Iapige, sorretto dal figlio Ascanio e assistito da Venere, pittura parietale, I secolo a.C., da Pompei, Napoli, Museo Archeologico NazionaleEnea (greco: Αἰνείας; latino: Aenēās, -ae) è una figura della mitologia greca e romana. Figlio del mortale Anchise e di Afrodite/Venere, dea della bellezza. Suo padre era il cugino di Priamo, re della città di Troia. Principe dei Dardani, partecipò alla guerra di Troia dalla parte di Priamo e dei Troiani, durante la quale si distinse molto presto in battaglia. Guerriero valorosissimo, assume tuttavia un ruolo secondario all'interno dell'Iliade di Omero.

Enea è il protagonista assoluto dell'Eneide di Virgilio: le vicende successive alla sua fuga da Troia, caratterizzate da lunghe peregrinazioni e da numerose perdite, favorite dall'ira di Giunone, si concluderanno con il suo approdo nel Lazio e col suo matrimonio con la principessa Lavinia, figlia del re locale Latino. Da questa unione sarebbe nato Silvio, futuro regnante di Albalonga e possibile capostipite dei re di Roma.

La figura di Enea, prototipo dell'uomo sottomesso e obbediente agli dèi e umile di fronte alla loro volontà, è stata ripresa da numerosi autori antichi, posteriori a Virgilio e a Omero, come Quinto Smirneo nei Posthomerica.

Mito

Origini


(GRC)
« Αἰνείαν δ᾽ ἄρ᾽ ἔτικτεν ἐυστέφανος Κυθέρεια
Ἀγχίσῃ ἥρωι μιγεῖσ᾽ ἐρατῇ φιλότητι
Ἴδης ἐν κορυφῇσι πολυπτύχου ὑληέσσης. » (IT)

« Diede la vita ad Enea Citerèa dalla vaga corona,
che con Anchise l'eroe si strinse d'amabile amore
sopra le vette dell'Ida selvosa, solcata di valli. »


Afrodite, con l'aiuto del Tempo, partorisce Enea, opera di Giovanni Battista Tiepolo, 1754-1758 ca, Londra, National Gallery.Un tempo Zeus, il padre degli dèi, stanco delle continue tentazioni che la magica cintura di Afrodite stimolava di continuo in lui, come in qualsiasi altro essere, mortale o divino che fosse, stabilì di punire la dea, facendola innamorare perdutamente di un comune mortale.
Il prescelto fu Anchise, un giovane pastore frigio, figlio di Capi e di Temisto (oppure, secondo altre leggende, di Egesta), che di consueto faceva pascolare le sue vaste mandrie sui colli del monte Ida.

Afrodite, rimasta sedotta dalla sua straordinaria bellezza, dopo averlo scorto a compiere il suo lavoro, decise di ottenere subito i sui favori.
Una notte, mentre egli giaceva nella sua capanna da mandriano, la dea assunse l’aspetto di una comune mortale e sotto tale travestimento si accostò a lui, sostenendo di essere una principessa frigia, figlia del re Otreo, la quale, rapita dal dio Ermes, di lei perdutamente invaghito, era stata poi trasportata dal dio sui pascoli dell’Ida.
Indossato poi un seducente peplo di colore rosso smagliante, la dea riuscì nel suo intento erotico e, sdraiatasi accanto al giovane, giacque con lui in un giaciglio di pelli animali. Accompagnati dal sereno ronzare delle api, per tutta la notte i due amanti godettero delle passioni amorose e proprio da questo amplesso la dea dell’amore rimase incinta di un bambino. Quando, al sorgere dell’alba, Afrodite rivelò all’uomo la sua vera natura, Anchise, temendo di essere punito per aver scoperto le nudità di una dea, la pregò di risparmiargli la vita.
Tuttavia la dea lo rassicurò, predicendogli la nascita di un bambino che sarebbe stato capace di regnare sui Troiani, acquistando un potere straordinario che si sarebbe mantenuto anche con i suoi discendenti.
Ma allo stesso tempo Afrodite mise in guardia il suo amante, esortandolo a nascondere la verità sulla nascita del bambino, ben sapendo che se Zeus ne fosse venuto a conoscenza, lo avrebbe senza dubbio fulminato.

La punizione di Anchise
(LA)
« Iam pridem inuisus diuis et inutilis annos
demoror, ex quo me diuum pater atque hominum rex
fulminis adflauit uentis et contigit igni. » (IT)
« È molto che, in odio agli dèi, inutile, gli anni trascino,
da quando il padre dei numi e sovrano degli uomini
mi sfiorò con la vampa del fulmine, mi toccò col suo fuoco. »

(Commento di Anchise, Virgilio, Eneide, libro II, versi 647-649)

Alcuni giorni dopo, mentre Anchise si trovava presso una locanda in compagnia dei suoi amici, uno di essi gli chiese se avrebbe preferito passare una notte con la figlia del Tal dei Tali piuttosto che con Afrodite. Il giovane troiano, dimentico della promessa e stordito dall’ebbrezza, si vantò affermando di essere andato a letto con entrambe e giudicando un tale paragone impossibile.

Udita la temibile vanteria, Zeus dall’alto dell’Olimpo si affrettò a punire un così sfrontato mortale, scagliando una folgore destinata ad incenerirlo. Ma Afrodite, postasi in difesa del suo amato, lo protesse grazie alla sua cintura magica, di fronte alla quale la terribile arma di Zeus nulla poté fare; la folgore raggiunse comunque Anchise, ma invece di incenerirlo, scoppiò innocuamente sotto i suoi piedi.
Il giovane mortale provò comunque un incredibile spavento alla vista di quelle scintille, tanto che da allora, egli non riuscì più a raddrizzare la schiena, traumatizzato com’era alla vista dell’ira divina.

Nascita e infanzia dell'eroe

Il pargolo nacque sul monte Ida dove lo allevarono le ninfe e il centauro Chirone, la madre infatti, essendo dea, doveva vivere sul monte Olimpo e il padre, punito da Zeus, venne reso storpio per aver rivelato ad altri il suo rapporto con Afrodite. Sposò Creusa, figlia del re Priamo, cugino di suo padre, e da lei ebbe Ascanio.

Guerra di Troia - Primi combattimenti

Achille assalì il monte Ida e depredò le mandrie di Enea, che fuggì. In seguito Enea parteciperà alla guerra di Troia dalla parte dei Troiani, ovviamente; sarà a capo di un contingente di Dardani.

Contro Diomede e aiuto di Afrodite

Fu eroe valoroso, secondo solo ad Ettore, e spesso supportato dagli dei. Nella battaglia che seguì al duello fra Paride e Menelao, combatté sul carro da guerra in compagnia di Pandaro. Quest’ultimo venne ucciso da Diomede ed Enea lasciò incustodito il carro (che verrà poi portato al campo greco da Stenelo, fedele compagno d'armi e auriga di Diomede) per difendere il corpo dell’amico dagli assalti greci.

« Balzò a terra Enea, con la lunga lancia e lo scudo, temendo che gli Achei gli strappassero il morto. Gli si mise accanto come un leone che della sua forza si fida; teneva davanti a sé la lancia e lo scudo rotondo, pronto ad uccidere chiunque gli venisse di fronte, e gridava in modo terribile. »
(Omero, Iliade, Canto V, vv. 299-302)


Affrontò Diomede ma venne ferito a causa di un masso scagliato dal greco. Venne salvato dalla madre che lo avvolse nel suo velo. Diomede, non temendo l’ira della dea, la colpì costringendola alla fuga. Apollo scese dunque in soccorso del troiano, contro di lui non poterono nulla neanche i colpi di Diomede. Enea venne ricoverato nel tempio di Apollo, a Pergamo, e curato da Artemide e Latona. Al suo posto combatté sul campo un fantasma con le sue sembianze. Enea, benché non venga ricordato per altre imprese, combatté comunque anche in altre battaglie, come quella presso le navi greche, soccorrendo Ettore, ferito da un masso scagliato da Aiace, insieme agli altri comandanti troiani.

Contro l'eroe Achille

Dopo la morte di Patroclo, Achille decise di tornare a combattere. Enea volle affrontarlo a duello, scagliò la sua lancia contro il greco ma non riuscì a colpirlo.

« Achille a sua volta scagliò l’asta dalla lunga ombra e colpì Enea nello scudo rotondo al bordo estremo dove il bronzo è più sottile e più sottile la pelle di bue. Da parte a parte passò, il frassino del Pelio, e lo scudo risuonò sotto il colpo. »
(Omero, Iliade, Canto XX, vv. 273-277)


Poseidone decise allora di salvare il figlio di Anchise avvolgendolo in una spessa nebbia e ponendolo fra le ultime file dell’esercito.

Fuga da Troia

Statua di Gian Lorenzo Bernini che raffigura la fuga da TroiaLa notte in cui i greci sarebbero usciti dal cavallo di legno, gli apparve in sogno Ettore, terribile d’aspetto, che gli annunciò l’inevitabile caduta di Troia e il suo arrivo in terra italica. Durante l’incendio della città tentò, insieme a pochi uomini, di difenderla ma dopo aver capito che tutto ciò era ormai inutile, decise di fuggire portando con sé il padre Anchise sulle spalle e il figlio Ascanio. Durante la fuga perse però la moglie Creusa che, sotto forma di fantasma, gli rivelò il suo futuro di fondatore di un grande popolo. Secondo Omero Enea divenne fondatore di un grande regno nella Troade, la versione di Stesicoro, invece, consacrata da Virgilio, è quella più conosciuta.

Approdo in Italia, eroe nell'Eneide

Fuggito da Troia, Enea giunse, insieme a un drappello di compagni, in terra di Tracia, dove venne a conoscenza della terribile fine di Polidoro, figlio di Priamo, ucciso da Polimestore, che voleva appropriarsi delle sue ricchezze. A Delo, Enea chiese responso ad Apollo, che ordinò al troiano di recarsi nella terra natia del fondatore di Troia, Dardano. Ma Anchise pensò si riferisse a Teucro, un altro capostipite del loro popolo, originario di Creta. Si fece dunque rotta verso Creta. Lì i troiani vennero colpiti da una pestilenza, Enea ordinò di muovere verso Corito-Tarquinia (III, 170), in Italia, la terra di Dardano. Decisi a fare rifornimenti i troiani si fermarono nelle isole Strofadi dove vennero attaccati dalle Arpie che devastarono la loro mensa e li costrinsero alla fuga. Giunsero nell’Epiro dove incontrarono Eleno e Andromaca, fondatori della città di Butroto

« M’incammino dal porto, lasciata la flotta e il lido, proprio mentre per caso nel bosco, davanti alla città, accanto all'onda d'un falso Simoenta, Andromaca libava annuali vivande e mesti doni ai morti e ne invocava i mani sopra il tumulo d’Ettore, che con un verde cespo, aveva, se pur vuoto, consacrato, e con due altari, causa di pianto. »
(Virgilio, Eneide, Canto III)


Eleno, dotato del dono della profezia, annunciò all’amico di recarsi in Italia, cercando di evitare la terra di Sicilia, patria dei ciclopi e di Scilla e Cariddi. Consigliò invece di sbarcare presso Cuma per chiedere responso alla sibilla che lì abitava. I troiani si salvarono per un pelo da quella minaccia e sbarcarono vicino l’Etna, dove si unì alla loro flotta Achemenide, un compagno di Ulisse abbandonato in quella terra. Enea sbarcò in Italia nell'attuale Salento, a Porto Badisco. Dopo aver assistito al terribile arrivo del ciclope Polifemo, Enea e i suoi uomini si fermarono ad Erice, benevolmente accolti dal re Aceste, dove il vecchio Anchise morì e fu sepolto. Era, piena d’odio per i troiani, scatenò una tempesta contro la flotta che venne trascinata verso l’Africa.

Le passioni di Enea e Didone, affresco romano da Pompei, Casa del Citarista, III stile, 10 a.C - 45 d.C.Lì Enea e i suoi uomini vennero accolti dalla regina Didone, a Cartagine dove l’eroe narrò le sue terribili vicende. I due si innamorarono perdutamente ma, per ordine di Zeus, Enea dovette ripartire. Seppure a malincuore dovette dire addio a Didone. Fu un terribile colpo per la povera regina

« Le ancelle la accolgono, e riportano sul talamo marmoreo il corpo svenuto e lo adagiano sui cuscini. Ma il pio Enea, sebbene desideri calmare la dolente, e confortarla, e allontanare con parole le pene, molto gemendo e con l’animo vacillante per il grande amore, tuttavia esegue i comandi degli dei, e ritorna alla flotta. »
(Virgilio, Eneide, Canto IV)


Didone, guardando in lontananza la nave di Enea che si allontanava, si uccise. Sbarcarono di nuovo a Erice, dove per l'anniversario della morte del padre Anchise ,furono celebrati, tra siciliani e troiani, i giochi in suo onore, i ludi novendiali (libro V). Nella vicina città di Drepano, alcune donne, fra le esuli, stanche per il peregrinare, decisero di dare fuoco alle navi. Enea ordinò dunque che chi non voleva continuare il viaggio sarebbe rimasto a Drepano, mentre gli altri avrebbero continuato il tragitto. Giunto a Cuma, Enea incontrò la sibilla con la quale scese nel regno dei morti. Lì incontrò Caronte e Cerbero, che cadde addormentato per un inganno della sibilla. Giunto ai campi del pianto vide poi il triste spirito di Didone.

« Tra di esse, fresca della ferita, la fenicia Didone errava nella vasta selva; appena l’eroe troiano le ristette vicino e la riconobbe tra le ombre, indistinta, quale si vede sorgere la luna al principio del mese, o si crede di averla veduta tra le nubi, gli sgorgarono lacrime e parlò con dolce amore. »
(Virgilio, Eneide, Canto VI)


Incontrò in seguito l’anima di Deifobo, il cui cadavere era stato sfregiato da Menelao. Infine venne accolto dal padre Anchise che gli presentò le anime di coloro che avrebbero fatto grande il regno promesso ad Enea in Italia. Tornato nel mondo dei vivi, Enea sbarcò finalmente alle rive del Tevere, dopo aver visitato anche Gaeta e il Circeo. Il re del luogo, Latino, decise di affidargli la mano della figlia Lavinia, scatenando però così l’ira di Turno, il re dei Rutuli. Ascanio, senza saperlo, uccise una cerva domestica e per questo venne inseguito dai pastori del luogo. I troiani corsero in aiuto del figlio di Enea e uccisero uno degli inseguitori, Almone (Eneide), giovane cortigiano del re Latino. Questa fu la scintilla che fece scoppiare la guerra. Turno radunò i suoi uomini e mosse contro i troiani. Enea invece risalì il fiume Tevere, giungendo così nel territorio di Evandro, re degli Arcadi. Quest’ultimo consigliò inoltre all’eroe troiano di recarsi fra gli Etruschi per chiedere aiuto a Tarconte. Fra gli alleati di Turno vi era infatti Mezenzio, ex sovrano degli Etruschi, cacciato per la sua crudeltà. Durante l'assenza di Enea il campo troiano venne assediato dalle truppe di quattordici giovani condottieri rutuli, ognuno dei quali era seguito da altri cento giovani. Eurialo e Niso, due inseparabili amici troiani, decisero di raggiungere Enea, per avvertirlo del pericolo. Usciti di notte, penetrarono tra le linee nemiche dove sorpresero nel sonno due dei condottieri assedianti, Ramnete e Remo, e altri giovani che combattevano nei loro contingenti, uccidendoli con le spade; poi ripresero il loro cammino, ma intercettati da una pattuglia nemica vennero accerchiati e messi a morte. Dopo una dura battaglia, durante la quale Turno fece strage di troiani, Enea, tornato via mare da Corito-Tarquinia assieme agli Etruschi guidati da Tarconte, ed agli Arcadi guidati dal Pallante, figlio di Evandro, riuscì ad accorrere in aiuto dei compagni.Ma proprio Pallante, in quello scontro, cadde per mano di Turno. Enea andò su tutte le furie e la sete di vendetta riuscì perfino a soffocare la sua famosa pietà, decapitando il giovane semidio etrusco Tarquito, che vinto da lui in duello lo implorava di essere risparmiato, e gettando il suo busto in acqua. Allora Giunone, temendo per la vita di Turno, riuscì ad allontanarlo dal campo di battaglia. Enea affrontò Mezenzio a duello ferendolo: quindi uccise il figlio Lauso, intervenuto per difendere il padre. Commosso per il coraggio del giovane, Enea riconsegnò la salma e le armi a Mezenzio che, in uno scontro successivo, cadde sotto la spada del troiano. L’eroe, dopo aver sepolto il giovane Pallante, ordinò ai suoi uomini di marciare contro la città dei Latini. Turno e Camilla, regina guerriera dei Volsci, schierarono le proprie truppe. Il re rutulo decise di affrontare la fanteria troiana, Camilla la cavalleria etrusca. Nello scontro che ne seguì Camilla cadde in battaglia. Turno decise allora di affrontare a duello Enea. Il troiano ebbe presto il sopravvento e per qualche attimo si trattenne dall'ucciderlo; ma ricordando poi il dolore di Evandro per la morte di Pallante, conficcò la sua spada nel petto del nemico (...vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras).

« Dicendo così gli affonda furioso il ferro in pieno petto; a quello le membra si sciolgono nel gelo, e la vita con un gemito fugge sdegnosa tra le ombre. »
(Virgilio, Eneide, Canto XII)


Edited by demon quaid - 12/12/2015, 01:10
 
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Anchise

Eneasanquises



La fuga di Enea, che sorregge Anchise sulle spalle, opera di Charles-André van Loo, 1729, Parigi, Musée du Louvre.Anchise (in greco antico Ἀγχίσης) è una figura della mitologia greca.
Il nome significa "curvo", "storto", e si collega alla sua storia, nella quale Zeus lo rende zoppo.

Eroe di Troia, figlio di Capi e di Temisto, era cugino di Priamo in quanto ambedue discendenti da Dardano.

Da un amore con Afrodite nacquero Enea e Lirno (o Liro). Afrodite si innamorò di Anchise mentre egli si recava a pascere le sue mandrie nei pressi di Troia. La dea per convincerlo a corrispondere il suo amore aveva assunto le vesti di una principessa frigia. Quando lei stava per procreare l'eroe troiano gli rivelò la vera identità e gli preannunziò che il nuovo arrivato avrebbe avuto fama eterna. Dopo la caduta di Troia il figlio se lo portò a spalla mentre la città era in fiamme. Anchise infatti, punito per aver amato una divinità, secondo alcune fonti leggendarie era diventato cieco, oppure paralitico, secondo altre.

Più tardi, dopo la spiacevole storia con Afrodite, il giovane decise di sposarsi con una certa Eriopide, dalla quale ebbe numerose figlie, la maggiore delle quali si chiamava Ippodamia. Ma Anchise non disdegnò nemmeno la compagnia di alcune schiave, dalle quali ebbe altri figli, tra cui Elimo ed Echepolo.

Durante il viaggio verso l'Italia, morì a Trapani dove il figlio gli diede onorata sepoltura sul monte Erice dove c'era un tempio consacrato ad Afrodite. Oggi, sulla spiaggia dove egli morì si può vedere la stele che ricorda lo storico evento. La stele, detta appunto stele di Anchise, si trova presso la contrada Pizzolungo facente parte del Comune di Erice. Enea sceso nell'aldilà incontra il padre che gli dà le profezie sulla grandezza di Roma.

L'amore di Afrodite per Anchise è narrato nell'Inno omerico ad Afrodite. Secondo la leggenda, Anchise, ubriaco, osò vantarsi del suo amore con la dea durante una festa: Zeus, per punirlo, lo colpì con un fulmine e lo rese zoppo (cfr. anche Omero, Iliade II, 819 ss.; V, 3 11 ss.; Esiodo, Teogonia 1008 ss.).

Muse



Muse_danzano_con_Apollo_Peruzzi_Baldassarre



Baldassarre Peruzzi, Apollo e le Muse (Firenze, Galleria Palatina).Le Muse (in greco: Μοῦσαι, -ῶν; in latino: Mūsae, -ārum) sono 9 personaggi della mitologia greca e romana, figlie di Zeus e di Mnemosine o Memoria, o, secondo un'altra versione, di Gea (Terra) e Urano (Cielo). L'importanza delle muse nella mitologia antica fu assai elevata: esse infatti rappresentavano l'ideale supremo dell'Arte, di cui erano anche patrone.

Mito

Erano dette anche Eliconie , poiché la loro sede era il monte Elicona; dato che tale monte si trova in Beozia, regione abitata dagli Aoni, venivano anche chiamate Aonie. A volte erano definite anche Aganippidi, dal nome della fonte omonima, Aganippe, situata proprio in prossimità del monte Elicona.

Origini

Esiodo le enumera nella sua Teogonia, fissandone il numero in nove, ma non specifica quale sia raggio di azione di ognuna, specializzazione che si sarebbe avuta solo più tardi. Sempre secondo il mito, Apollo era il loro protettore, quindi venivano invitate alle feste degli dèi e degli eroi perché allietassero i convitati con canti e danze. Spesso allietavano Zeus, loro padre, cantandone le imprese. Le Muse erano considerate anche le depositarie della memoria (Mnemosine era la dea della memoria e secondo altre fonti anche quella del canto e della danza) e del sapere in quanto figlie di Zeus. Il loro culto fu assai diffuso fra i Pitagorici.

Un altro autore riferisce che originariamente fossero tre, ossia Melete, la Pratica, Mneme, il Ricordo, e Aoide, il Canto. Altri inoltre riferiscono che fossero figlie di Urano e Gea[3].

Muse

Clio, Talia, Erato, Euterpe, Polimnia, Calliope, Tersicore, Urania e Melpomene, sarcofago in marmo (Parigi, Louvre).Preposte all'Arte in ogni campo, chiunque osasse sfidarle veniva punito in maniera severa. Le Sirene, volendole sfidare nel canto, furono private delle proprie ali, utilizzate poi dalle stesse Muse. Anche le Pieridi, sempre in una sfida simile, vennero tramutate in uccelli.

Il numero delle muse e il campo dell'arte in cui esse agivano venne precisato intorno al IV secolo a.C. I loro nomi erano:

Calliope, colei che ha bella voce, la Poesia epica, con una tavoletta ed un libro;
Clio, colei che rende celebri, la Storia, seduta e con una pergamena in mano;
Erato, che provoca desiderio, la Poesia amorosa, con la lira;
Euterpe, colei che rallegra, la Poesia lirica, con un flauto;
Melpomene, colei che canta, la Tragedia, con una maschera, una spada ed il bastone di Eracle;
Polimnia, dai molti inni, il Mimo, senza alcun oggetto;
Talia, festiva, la Commedia, con una maschera, una ghirlanda d'edera ed un bastone;
Tersicore, che si diletta della danza, la Danza, con plettro e lira;
Urania, la celeste, l'Astronomia, con un bastone puntato al cielo.
Per memorizzare i nomi delle nove Muse era in voga nel liceo classico questo acronimo: "ClEuTa MelTer Era PUrCA".

Culto

I sacrifici dedicati a loro prevedevano l'uso di acqua, latte e miele. Il loro culto, diffusosi dalla Beozia in tutto il mondo greco, giunse anche a Roma. Benché non fossero oggetto di vera e propria divinazione, venivano comunque considerate come protettrici delle Arti; qui vennero considerate parallelamente alle Camene.

Iconografia

Scuola di Prassitele, base da Mantinea (Atene, Museo Archeologico).Le Muse sono oggetto di grande devozione in tutti i campi dell'arte, ma dal punto di vista iconografico se ne conoscono esempi dal mondo greco arcaico fino ad oggi. Fra le più antiche, si ricorda la base di Mantinea attribuita a Prassitele, ed oggi conservata al Museo Archeologico Nazionale di Atene. Nel mondo romano sono noti moltissimi dipinti provenienti da Pompei. Raffaello realizzò nel 1511 l'affresco Parnaso, mentre in tempi più moderni Giorgio De Chirico dipinse Le Muse inquietanti (1918).

Edited by demon quaid - 24/3/2016, 19:43
 
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view post Posted on 2/4/2010, 16:54     +1   -1
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Il diavolo è sicuramente donna.

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Beatrice

Dante_and_beatrice



Virgilio è la guida di Dante nel viaggio attraverso i nove cerchi infernali e nell'ascesa al monte del Purgatorio. Dalla settima Cornice del Purgatorio ai due poeti si affianca Stazio, che ha completato il cammino di purgazione e si accinge ad ascendere al Paradiso. Giunti nel Paradiso Terrestre, Virgilio saluta Dante e si appresta a tornare nel Limbo.
Beatrice si sostituisce al poeta latino nel ruolo di guida attraverso i nove cieli del Paradiso.
Giunti nel decimo cielo, l'Empireo, Beatrice torna al suo seggio nella Candida Rosa ed il ruolo di guida, nell'ultimo tratto del viaggio ultraterreno, viene assunto da S. Bernardo di Chiaravalle.

Beatrice: persona e personaggio

Beatrice viene da Dante definita, nel sonetto "Tanto gentile e tanto onesta pare", in un modo straordinario, cioè come una "cosa venuta / di cielo in terra a miracol mostrare". "Cosa" è il termine dell'indefinibile, e le parole di Dante indicano che Beatrice fu, insieme, una donna realmente vissuta, una creatura celeste, un riflesso dell'ansia di ascesa spirituale e di purificazione del poeta.
Beatrice donna appartiene alla sfera privata della vita di Dante, alla sua giovinezza fiorentina, agli anni della maturazione umana e poetica. Anche se i riscontri storici sono scarsi, nessuno dubita che Beatrice sia realmente esistita e che sia da identificare con la Beatrice, o Bice Portinari, sposa di Simone De' Bardi, morta giovanissima l'8 giugno del 1290.

Dante, all'inizio l'amò secondo i canoni dell'amor cortese, cantando la dolcezza del suo sguardo, "che 'ntender no la può chi no la prova", la bellezza del suo volto, la grazia e la modestia dei suoi gesti.
Presto, tuttavia, quell'amore acquisì un significato diverso, libero da ogni aggancio con la realtà terrena, stimolo ad una profonda introspezione umana e morale.

Vita Nuova


L'incontro con Beatrice diventa il punto di svolta della maturazione umana e poetica di Dante, la cui vita è, da quel momento "rinnovata dall'amore".
Dante, infatti, racconta che il suo primo incontro con Beatrice avvenne quando entrambi avevano nove anni, numero che identifica il miracolo.
Nella Vita Nuova viene delineato il cammino interiore che porta il poeta a comprendere come il fine del suo amore non sia legato a nulla di materiale, neppure al semplice saluto, elemento pur così caro all'amor cortese. Unico fine dell'amore è per il poeta cantare le lodi della sua donna: Beatrice è per Dante uomo stimolo per l'introspezione spirituale e per Dante poeta fonte di ispirazione letteraria.
Al termine della Vita Nuova Dante, che ha compreso la svolta impressa dalla donna alla sua spiritualità ma è ancora incapace di trasferire nella realtà questa acquisizione dell'anima, promette di non scrivere più di lei se non quando potrà farlo in modo completamente degno.

Nella Vita Nuova Beatrice conserva sempre la sua precisa individualità storica, ma è, al tempo stesso, "figura" di Cristo, e, come Lui, incarna la rivelazione divina. Tale funzione è, tuttavia, riservata esclusivamente all'uomo Dante, e solo nella Divina Commedia potrà estendersi all'intera umanità.

Divina Commedia

L'inizio della Divina Commedia riprende il filo della narrazione dove l'opera giovanile lo aveva interrotto.
La crisi spirituale e poetica in cui lo aveva gettato la morte della sua donna, fa smarrire il poeta in un intrico di falsi amori e futili scopi. La nuova e definitiva svolta nella vita del poeta si compirà sempre nel nome di Beatrice. E', infatti lei, non più donna ma solo creatura angelica, a dare inizio al processo di salvezza e di parallelo recupero della propria identità del poeta, inviando in suo soccorso Virgilio, il maestro, di bello stile come di vita, e l'"autore", il modello, la memoria, insieme personale e storica.
Ma le possibilità umane, se pur eccellenti, impersonate da Virgilio, non possono condurre Dante oltre la comprensione della natura del peccato, nell'Inferno, e della necessità di redenzione, nel Purgatorio.

Nel Paradiso guida del poeta è la stessa Beatrice. Per comprendere la natura dell'amore divino è necessario un totale abbandono dell'anima: nell'oltremondo non esistono più convenzioni sociali, nè turbamenti, nè fraintendimenti, e Beatrice può assumere in pieno il suo significato. Il ruolo e la funzione della donna sono però di portata ben diversa rispetto a quelli descritti nella giovanile Vita Nuova.
Nella Commedia infatti Dante rappresenta l'intera umanità, in nome della quale compie il suo viaggio, voluto da Dio. In questa nuova dimensione il miracolo che Beatrice, incarnazione della rivelazione divina, aveva rappresentato per Dante acquista un nuovo significato ed una nuova pienezza. Il compito di Dante è quello di indicare all'intera umanità la via per giungere alla salvezza: il miracolo che era avvenuto per Dante diventa così il miracolo di tutta l'umanità.
Se nella Vita Nuova Beatrice era stata "figura" di Cristo per il solo Dante, ora è rivelazione incarnata e simbolo di Cristo per l'intera umanità.
La donna amata da Dante, divenuta l'ispiratrice della sua poesia è, nella Divina Commedia, maestra di verità, il tramite che permette a Dante e all'intera umanità di arrivare al Paradiso e alla contemplazione di Dio.

Rachele
Inf. II, 102; Inf. IV, 60; Pg. XXVII, 104

Rachele era la seconda figlia di Labano, fratello di Rebecca che, sposa di Isacco, diede alla luce i gemelli Esaù e Giacobbe.
Quando Giacobbe fu in età da moglie, la madre gli suggerì di scegliere come sposa una delle sue cugine.

Giacobbe si recò, così, presso lo zio Labano (Genesi 29) e, innamoratosi della giovane Rachele, lavorò sette anni per il padre di lei per averla in moglie.
Al termine dei sette anni fu organizzata la cerimonia di nozze, ma il mattino seguente Giacobbe si accorse di avere accanto non l'amata Rachele, ma la sorella maggiore Lia.
Giacobbe infuriato cercò di protestare, ma per ottenere anche Rachele dovette lavorare altri sette anni per Labano. Dopo questo periodo, divenuto incredibilmente ricco ed accortosi che Labano aveva intenzione di sfruttare ancora il suo lavoro con qualche pretesto, radunò mogli, figli, schiavi e bestiame e si allontanò di nascosto verso Canaan.
Mentre Lia continuava a generare figli maschi, era ormai opinione comune che Rachele fosse sterile. Tuttavia a sorpresa, dopo lunghi anni di attesa, anche Rachele diede alla luce un figlio, Giuseppe, che divenne il preferito.

Qualche anno dopo Rachele era nuovamente incinta


"Mancava ancora un tratto di cammino per arrivare ad Efrata, quando Rachele partorì ed ebbe un parto difficile. Mentre penava a partorire, la levatrice le disse: 'Non temere: anche questo è un figlio!.' Mentre esalava l'ultimo respiro, perchè stava morendo, essa lo chiamò Ben-Oni (figlio del mio dolore), ma suo padre lo chiamò Beniamino (figlio di buon augurio). Così Rachele morì e fu sepolta lungo la strada verso Efrata, cioè Betlemme."
(Genesi 35, 16-19).
L'esegesi biblica ha fatto di Rachele il simbolo della vita contemplativa, mentre di sua sorella Lia il simbolo della vita attiva, e nello stesso modo Dante sogna le due sorelle quando, insieme a Virgilio e Stazio, sosta per il sopraggiungere della notte prima della salita al Paradiso Terrestre.

In Inf. IV, 58, Virgilio spiega come l'anima di Rachele sia stata liberata dal Limbo dal passaggio di Cristo nel tempo intercorso fra la morte e la resurrezione.

Edited by demon quaid - 24/3/2016, 19:46
 
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