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Nono cerchio

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view post Posted on 20/4/2010, 13:42     +1   -1
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Il diavolo è sicuramente donna.

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Nono cerchio

Il nono e ultimo cerchio dell'Inferno colpisce ancora i colpevoli di malizia e fraudolenza, ma questa volta contro chi si fida. Il nono cerchio è materialmente staccato dal precedente da un immenso pozzo, e nella struttura stessa del poema esso è messo in risalto dall'inserzione di un canto per così dire di passaggio, ma comunque molto importante. In questo pozzo sono puniti i giganti, che sono al di fuori dalla struttura ternaria dell'Inferno allo stesso modo in cui sono estranei alla natura umana, pur somigliandovi: essi sono al tempo stesso dannati e custodi dell'ultimo cerchio, che è in tal modo inquadrato da titaniche figure di ribelli contro la divinità, i Titani appunto che si ribellarono a Giove e Lucifero che pur essendo il più bello e potente degli angeli si ribellò al suo creatore. Ora, per contrasto all'aver voluto elevarsi usurpando un potere non loro, divino, tutte queste figure sono immobili nel più profondo dell'Inferno: qui in particolare troviamo i giganti, incatenati lungo le pareti del pozzo dall'ombelico in giù; solo Anteo è in parte più libero, in quanto non partecipò alla guerra dei fratelli contro Giove.

L'ultimo cerchio è costituito da un immenso lago di ghiaccio, detto Cocito, reso tale dal vento causato dal movimento delle ali di Lucifero. Sono qui puniti i traditori di chi si è fidato, simboleggiati dalla freddezza del ghiaccio, così come furono freddi i loro cuori e le loro menti nell'ordire il peccato, in contrapposizione alla carità, tradizionalmente simboleggiata dal fuoco. Ma si può notare un contrappasso anche nella materia stessa del poema: se il loro isolamento rispetto al resto dell'Inferno è sottolineato dall'inserimento di un canto e da un nuovo proemio all'inizio del successivo, il clima proditorio nel quale agirono in vita questi dannati è ben rappresentato dal clima che Dante ricrea, clima di silenzi e di non-detti, che non dice quasi mai apertamente il peccato per il quale sono dannati, e che anche quando si dilunga in un discorso più vasto sembra voler nascondere i dettagli importanti, come nel discorso del conte Ugolino, che narrando distesamente della sua morte non ci dice in realtà né quale fu la sua colpa, né in che modo l'arcivescovo si macchiò di tradimento nei suoi confronti. Inoltre il Cocito è suddiviso in quattro zone, eppure, in contrasto con la grande varietà di colpe e pene in Malebolge e in generale nei cerchi precedenti, è sostanzialmente uniforme: quasi uguale è la pena, come uguale fu la colpa: si nota infatti che, al di là della superficiale suddivisione di questi dannati in traditori dei parenti, della patria eccetera, essi si sono resi colpevoli in vita di più di un tradimento, oppure questa colpa riguarda più zone: chi ha tradito i parenti ha tradito nello stesso tempo compagni di partito (i fratelli Alessandro e Napoleone degli Alberti) od ospiti (Frate Alberigo e Branca d'Oria), Gano di Maganza tradisce il re Carlo Magno che è anche suo zio, Bruto tradisce Cesare che è anche suo padre, ecc.

Edited by demon quaid - 1/2/2017, 14:36
 
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view post Posted on 20/4/2010, 15:32     +1   -1
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Il canto trentunesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge tra l'ottavo e il nono cerchio, nel Pozzo dei giganti, puniti per essersi opposti a Dio; siamo nel pomeriggio del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

Anteo aiuta Dante e Virgilio, acquerello di William Blake
Si tratta di un canto di raccordo tra due zone diverse dell'Inferno, come lo era stato il canto IX (presso le mura della città di Dite) tra i peccatori di incontinenza e quelli di malizia, e i canti XVI e XVII (con il volo di Gerione) tra violenti e fraudolenti.

1. Incipit
Canto XXXI, ove tratta de' giganti che guardano il pozzo de l'inferno, ed è il nono cerchio.

2. Analisi del canto
2. 1. I giganti - versi 1-45

I Giganti, Gustave Doré



Il Canto inizia con la chiusura dell'episodio del canto precedente: Virgilio aveva sgridato severamente Dante per la sua pulsione plebea a guardare il battibecco volgare tra Maestro Adamo e Sinone; poi però l'aveva scusato vista la grande vergogna provata.

Dante dice quindi che la stessa lingua che lo "morse", facendolo arrossire su entrambe le guance, l'ha anche poi guarito (la medicina mi riporse), come la lancia di Peleo ereditata da Achille, che con un colpo (mancia, da alcuni inteso anche come francesismo di manche) feriva e con l'altro guariva, una figura mitologica che venne ripresa anche dal Petrarca e altri poeti trecenteschi a simbolo del bacio della donna amata.

I due poeti quindi stanno camminando sull'ultimo argine dell' ottavo cerchio dopo aver attraversato l'ultima Malebolgia, procedendo in silenzio nell'oscurità che era men che notte e men che giorno, tanto che la vista si poteva spingere avanti ben poco. In questo silenzio irrompe improvviso e assordante il suono di un alto corno, più forte di qualsiasi tuono, che fece alazare gli occhi a Dante verso dove proveniva: Dante la paragona allo strabiliante suono dell'olifante che il paladino Orlando suonò a Roncisvalle (dalla Chanson de Roland) per richiamare Carlo Magno, e che non fu altrettanto forte a questo suono infernale.

Poco dopo Dante aguzzando la vista crede di scorgere alcune alte torri e chiede al maestro a quale 'terra (cioè città) appartengano. Virgilio lo riprende dicendogli che nell'oscurità a troppa distanza i sensi si ingannino facilmente facendoci sbagliare: perciò e bene affrettarsi per vedere meglio.

Poi prende Dante per mano, dandogli animo in questo passaggio cruciale e inizia a spiegare acciò che 'l fatto men ti paia strano, che non sono torri ma giganti, che stanno nel pozzo attorno all'argine dall'ombelico in giù.

Via via che i due si avvicinano Dante si rende effettivamente conto della realta e si discela l'errore, ma cresce la paura di trovarsi davanti questi esseri mostruosi. Come le mura di Monteriggioni coronate dalle sue torri, così sull'orlo del pozzo torreggiano a mezzo busto li orribili giganti, che Giove continua a minacciare dal cielo ogni volta che tuona (poiché essi vennero sconfitti dai fulmini del Dio nella battaglia della Flegrea).

Dante insiste continuamente sulle torri perché vuole sottolineare la grande maestosità dei giganti, ma anche la loro immobilità.

I commentatori hanno discusso se essi siano peccatori o guardiani del prossimo cerchio dei traditori: Dante ne sottolinea l'umanità, eliminando qualsiasi elemento soprannaturale in essi (a parte la statura) come se ne trovano in Lucano o in Ovidio per esempio; inoltre essi non furono traditori di nessuno, quindi è improbabile che simboleggino il tradimento (come per esempio Gerione quale custode del cerchio dei fraudolenti è simbolo di frode), ma piuttosto, anche dagli elementi che Dante sceglie per descriverli, pare che essi siano un'introduzione a Satana, situato al centro del lago ghiacciato dei traditori. Essi infatti peccarono, come Lucifero-Angelo ribelle, di superbia e assomigliano al Demonio dantesco in più elementi: la statura, l'inespressività, il paragone a edifici (torri e mulino), la posizione che impedisce di vederne le gambe, ecc.

Le torri di Monteriggioni
La pigna di San Pietro
2. 2. Nembrot - vv. 46-81

Nembrot, Gustave Doré



Intanto Dante inizia a scorgere la faccia, il petto, il ventre e braccia pendenti lungo i lati del gigante più vicino, A questa visione straordinaria viene in mente al poeta una riflessione sulla Natura, che secondo lui fece bene a cessare l'"arte" di creare tali esseri, così spesso esecutori di Marte, cioè strumento di guerra; essa crea ancora elefanti e balene senza pentirsene, e in questo chi guarda sottilmente la giudica giusta e discreta: poiché nei giganti si sommano la ragione e il mal volere alla potenza, contro le quali nessuno può ripararsi; nei grandi animali no.

La faccia del gigante ricorda a Dante la Pina di Basilica di San Pietro, una pigna in bronzo di fattura romana che allora era situata davanti alla chiesa del papa e che oggi si trova nel cortile appositamente creato da Bramante nei Palazzi Vaticani: era alta più di quattro metri; le altre membra, descrive Dante, erano proporzionate a tale misura (è la prima delle nozioni metriche che il poeta mette a dare realismo alla descrizione e che per ogni gigante danno un risultato attorno ai 25 metri).

L'argine (la ripa) gli fa da perizoma (parola piuttosto dotta per l'epoca, che deriva dal greco, presente nella Genesi a proposito della veste di Adamo e in Isidoro da Siviglia) e ne sporgeva abbastanza che tre frisoni (abitanti della Frisia creduti come della popolazione più alta al mondo) non sarebbero arrivati dall'argine ai suoi capelli: era infatti alto 30 palmi abbondanti da dove si vedeva fino a dove si attacca il mantello (le spalle). Queste misura danno più o meno lo stesso risultato di circa 25 metri d'altezza in proprozione.

« Raphèl maì amècche zabì almi »
(v. 67)

Il Pozzo dei Giganti, illustrazione di Giovanni Stradano (1587)



Il gigante allora parla, ma il suo grido non è un "dolce salmo" e Virgilio lo rimprovera dicendogli di sfogarsi piuttosto col corno e indicandoglielo ben tre volte chiamandolo anima sciocca e anima confusa, al che alcuni hanno creduto che così Dante volesse indicare la stupidità dei giganti; in realtà la questione non è così semplice e tutto sommato non vi sono elementi sufficienti per valutare.

Per quanto riguarda l'oscura frase essa non ha dato luogo a grandi studi circa il suo significato, che Virgilio stesso definisce pochi versi dopo come incomprensibile, a differenza del più conosciuto Pape Satàn. Piuttosto è stata a lungo discussa la sua accentazione per questioni di metrica difficili da valutare in opresenza di questo linguaggio non reale.

Parlando con Dante Virgilio spiega come questo sia Nembrot (o Nimrod), gigante biblico, che si rivela per quello che è: legato alla leggenda della Torre di Babele (secondo la dottrina dei padri della Chiesa, che collegava due passi non correlati della Genesi, X 8-10 e XI 1-9) egli usa un linguaggio che comprende solo lui e non comprende nessuna parola umana, quindi si può solo lasciarlo stare, per non parlare a vòto. La lingua di Nemrut sarebbe quindi la lingua pura delle origini (prima della catastrofe della Torre di Babele) oppure sarebbe la conseguenza, più probabilmente del fatto che a chi fosse in posizione più alta ricevette una lingua più degradata: essendo Nimrod il re di Babilonia che aveva avviato l'impresa, egli ricevette una lingua "ignobile", che Dante sottolinea con parole tronche, suoni duri ("z", doppie consonanti...) e andamento disarmonico.

2. 3. Fialte, Briareo - vv. 82-111

I due poeti allora si allontanano proseguendo a sinistra ed a distanza di un tiro di balestra trovano un altro gigante, più fiero e di dimensioni maggiori. Chiunque lo avesse incatenato, pensa Dante, gli aveva messo il braccio sinistro davanti e quello destro dietro, legati da una catena che solo nella parte scoperta dal collo in giù lo cingeva cinque volte.

Dopo un gigante biblico, con il piacere di pescare liberamente da più repertori iconografici e letterari, Dante introduce i Giganti della mitologia greca, in particolare Fialte, che Virgilio presenta come colui che volle superbamente sperimentare la sua potenza contro quella di Giove durante la Gigantomachia. Il contrappasso viene detto al verso 96: "le braccia ch'el menò, già mai non move", cioè sta nella sua immobilità che rende inutile la sua potenza.

Dante allora, ripensando alla scalata dei Giganti dell'Olimpo, chiede dove sia il più crudele, lo smisurato Briareo, ma Virgilio gli risponde che esso si trova dall'altra parte del cerchio, ben lontano, mentre tra poco potrà invece vedere Anteo che parla (e quindi capisce il loro linguaggio, a differenza di Nimrod) ed è sciolto (a differenza di Fialte e Briaeo): due condizioni che presto si capirà perché necessarie. Segue una veloce descrizione di Briaeo: "è legato e fatto come questo, / salvo che più feroce par nel volto".

Improvviso arriva un terremoto, per Dante il più violento (rubesto) che abbia mai scosso una torre. È stato Fialte che si è scosso gettando Dante nella paura di morire più che mai: egli sarebbe certo entrato nel panico se non avesse visto le salde catene imprigionare il Gigante. Sulle ragioni di questo scatto ci sono due spiegazioni principali: o il gigante non ha gradito le parole di Virgilio, perché descrivevano Briaeo come più imponente di lui (quindi per superbia), oppure è solo uno scatto d'ira per essere costretto a farsi vedere in quella meschina immobilità (simile alla vergogna di Capaneo o di Caifa, già incontrati altrove nell'Inferno).

2. 4. Anteo - vv. 112-145

Anteo, illustrazione di Gustave Doré



Andando avanti allora i due arrivano ad Anteo, che, testa esclusa, sporgeva dal pozzo per cinque "alle", una misura in uso nelle Fiandre che corrisponde a circa 1 metro e 40.

Virgilio si rivolge a lui senza perdere tempo, usando un discorso retorico con una captatio benevolentiae da manuale: prima la suasio con esagerazioni delle gesta dell'interlocutore, poi la lusinga (parafrasando spesso frasi della Pharsalia di Lucano), il confronto con altri giganti meno forti e la promessa di fama. Nel dettaglio il suo discorso è: (parafrasi vv. 115-129) " Oh tu, che cacciasti più di mille leoni nella valle che Scipione l'Africano riempì di gloria facendo ritirare Annibale e i suoi (la valle di Zama in Libia), e che se fossi stato presente nell'alta guerra (la Gigantomachia) che combatterono i tuoi fratelli essi (i figli di Gea, la terra) l'avrebbero vinta, mettici giù, se non te ne fa schifo (sdegno), dove il freddo gela il Cocito. Non ci far andare da Tizio né da Tifeo: tu puoi darci quello di cui abbiamo bisogno, perciò chinati e non girarci le spalle (letteralmente il volto, grifo). Egli dopotutto (Dante) nel mondo può renderti fama, poiché egli è vivo e lunga vita ancora lo aspetta se la Grazia non lo chiama a sé innanzitempo".

Sul fatto per il quale Anteo non sia legato da catene, viene spiegato quale conseguenza del fatto che egli non partecipò alla guerra dei Giganti; per questo Virgilio lo lusinga dicendogli che se lui fosse stato presente essa sarebbe stata vinta.

Senza dire niente, Anteo distende la mano, la cui morsa fu già provata da Ercole (nell'episodio di Ercole e Anteo), e prende Virgilio, il quale a sua volta afferra Dante abbracciandolo. A Dante, vedere il gigante che si piega su di loro, fa venire voglia di scappare e ricorda un effetto provato al di sotto della Torre Garisenda di Bologna: mettendosi dal lato della pendenza e guardando in alto, al passaggio delle nuvole sembra che la torre cada addosso e che le nuvole siano invece ferme. Una notazione quindi di grande sagacia e realismo che specifica vividamente quest'esperienza soprannaturale, un po' come la descrizione del volo in groppa a Gerione (Inf. XVII).

Lievemente i due poeti vengono deposti al fondo che divora / Lucifero con Giuda, cioè nel fondo del pozzo del Cocito.

Il gigante allora non rimane chinato, ma nel rispetto della sua pena all'immobilità, si leva subito come albero in nave.

Edited by demon quaid - 1/2/2017, 14:46
 
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view post Posted on 20/4/2010, 18:43     +1   -1
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Prima zona

Il canto trentaduesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella prima e nella seconda zona del nono cerchio, nella ghiaccia del Cocito, ove sono puniti rispettivamente i traditori dei parenti (Caina) e quelli della patria e del partito (Antenora); siamo nel pomeriggio del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

Dante incontra Bocca degli Abati (Canto XXXII). Illustrazione di Paul Gustave Doré.

1. Incipit

Canto XXXII, nel quale tratta de' traditori di loro schiatta e de' traditori de la loro patria, che sono nel pozzo de l'inferno.

2. Analisi del canto
2. 1. Invocazione di Dante - versi 1-15

Il canto inizia con le celebri terzine nelle quali Dante invoca le Muse per trovare rime aspre e chiocce, cioè abbastanza dure e rauche, da adattarsi alla triste degradazione della zona più bassa dell'Inferno, il cerchio nono dedicato ai traditori, coloro che, secondo quanto si legge nel canto XI, sono coloro che hanno violato il patto di che la fede spezïal si cria, cioè quello tra persone propense a fidarsi per i vincoli speciali di parentela, di dovere civico, di ospitalità o di benevolenza. Dante quindi cercava un effetto retorico-linguistico che fosse estremamente opposto alla dolcezza (come il dolce stil novo).

Dante è quindi nel triste buco, il pozzo, sul quale pontan, cioè si appoggiano con la base, tutte le altre rocce dell'Inferno. Qui non trova parole adatte per descrivere (Dante usa il verbo "spremere") pienamente il "succo" del suo pensiero, e nel Dante-scrittore si affaccia il timore di non essere all'altezza: dopotutto narrare il fondo dell'universo (il punto più basso del cosmo secondo la concezione tolemaica geocentrica, inteso come il più lontano da Dio) non è impresa da pigliare a gabbo (da prendere sottogamba) né è cosa adatta per la lingua che chiami mamma o babbo.

Su cosa intendesse Dante con la lingua di "mamma o babbo" non è chiaro ed è oggetto di controversia: la spiegazione più semplice è che indichi la lingua infantile, ma perché Dante avrebbe avuto bisogno di usare una lingua da bambini adesso? Altrimenti essa viene intesa come l'italiano in generale, anche se l'espressione apparirebbe un po' svilente verso quel volgare che Dante proprio con la sua Comedìa si proponeva di nobilitare; mediando le due ipotesi si può intendere l'espressione come indicante una lingua istintiva, al contrario della lingua controllata e ricercata del linguaggio dell'arte letteraria. Può essere utile la citazione del De Vulgari Eloquentia dove Dante condannava "mamma" e "babbo" come termini puerili inadatti per lo stile elevato, forse da intendere in questo caso come stile adeguato a ciò che il poeta si apprestava a descrivere.

Segue quindi un'invocazione a quelle donne [...] ch'aiutarono Anfione a chiudere Tebe (vv. 10-11), cioè le Muse che diedero la capacità al poeta greco di richiamare addirittura le pietre con la bellezza del suo canto che spontaneamente scesero dal monte Citerone e formarono le mura di Tebe (in questo senso chiudere è usato nel senso di recintare). Questo affinché l'esperienza vissuta (il fatto) e quella narrata (il dir) non siano divergenti.

Infine un'invettiva di una terzina contro i dannati di questo loco onde parlare è duro (che è difficile da descrivere), che meglio sarebbe stato se fossero nati pecore o capre (zebe).

2. 2. La Caina: i traditori dei congiunti - vv. 16-51

Canto 32, Priamo della Quercia

La narrazione poetica riprende quindi dal lago ghiacciato del Cocito, dove i due pellegrini sono stati appoggiati da Anteo, e Dante specifica come, guardando all'alta parete rocciosa appena sorpassata, essi si trovino ora più in basso dei piedi dei giganti. Improvvisa si leva una voce quasi di fantasma, da parte di un non precisato peccatore: (parafrasi vv. 19-21) "Guarda dove cammini: procedi in modo da non pestare con le piante dei piedi le teste dei fratelli miseri e stanchi nel fisico e nel morale (lassi)".

Dante si gira, ma la sua attenzione viene subito catturata non dal parlatore (forse le due anime appiccicate descritte poco dopo), ma dal lago ghiacciato che si accorge di avere sotto ai piedi, più simile al vetro che all'acqua: non era così "velato" da crosta di ghiaccio il Danubio in Austria (da notare i germanicismi di Danoia e Osterlicchi), né il Tanai (il nome latineggiante del Don) sotto il freddo cielo del Nord; inoltre su questa crosta infernale sarebbe potuto cadere il "Monte Tambernicchi" (oggi noto con il nome di Monte Tambura) o il "Monte Pietrapana" (oggi noto con il nome di Monte Pania), due montagne delle Alpi Apuane, ma avrebbero fatto nemmeno scricchiolare il bordo del lago (dove la crosta è generalmente più sottile).

Analogamente alle rane che stanno affacciate col muso a gracidare d'estate (quando la villana sogna di mietere molto), così stavano i dannati, livide fino al volto (indicato con perifrasi come il luogo dove appare il rossore della vergogna) e con i denti che battevano come fanno le cicogne cole becco nella stagione amorosa. Questi dannati hanno tutti la faccia rivolta verso il basso e il loro dolore per questo freddo è testimoniato dalla bocca che batte, appunto, e dagli occhi che lacrimano (simbolo di cor tristo).

Dopo un'occhiata esplorativa, Dante guarda a due peccatori che sono vicini ai suoi piedi, così appiccicati da avere i capelli impiastricciati assieme. Dante gli chiede chi siano, ma essi, macabre carcasse umane, riescono solo a piegare in su il collo e far scorrere giù dagli occhi molli qualche lacrima fino alla bocca, prima che il flusso si congeli "riserrando" loro gli occhi; poi come assi di legno legate da dura spranga di ferro (forse si deve pensare a una botte), le loro teste sbatterono in sieme dall'ira che li prese: l'immagine non è chiarissima, non si capisce se sbattano perché si erano allontanati per odio reciproco (si scoprirà tra pochi versi come siano due fratelli che si tradirono a vicenda) o per effetto della disperazione delle lacrime congelate, o per volere divino causato dall'aver alzato della testa infrangendo la propria pena. In ogni caso questa azione brutale, la prima del lago del Cocito, rende bene il clima di silenziosa desolazione e degradazione estrema del luogo.

In ogni caso, come verrà chiarito anche nella Tolomea, il fatto di avere il capo abbassato è un vantaggio per questi dannati, che almeno possono far scorrere via il pianto, mentre per i dannatia testa in su esso si congela negli occhi facendo rifluire il dolore all'interno di loro.

2. 3. Camicione de' Pazzi - vv. 52-69

La Caina, versione cinematografica de L'Inferno (1911)

Un dannato allora prende la parola, sebbene stia rivolto in basso. Egli, notazione macabra, ha gli orecchi staccati dal gelo e probabilmente sta osservando Dante riflesso nel ghiacchio: (parafrasi vv. 54-69) "Perché ti specchi fissandoci così a lungo? Se vuoi sapere chi siano codesti due, essi sono figli di Alberto, possidente della valle dove scorre il Bisenzio. Uscirono dallo stesso corpo (cioè in parole meno aride nacquero dalla stessa madre) e per quanto tu possa cercare nella Caina non troverai ombra più degna d'esser fitta in gelatina (nel gelo, con intonazione ironica): non colui che ebbe il petto e l'ombra trafitti da un colpo di spada di Re Artù (Mordred), né il Focaccia (Vanni de' Cancellieri); né questo che col suo capo mi copre la vista e si chiama Sassol Mascheroni, dopotutto se sei toscano saprai bene chi fu. E poi, perché tu non stia a tormentari con altre domande (notare il tono irritato) sappi che io sono Camicione de' Pazzi e che aspetto solo Carlino che mi scagioni, con la sua colpa ben più grave della mia."

In questo lungo monologo Camicione, esponente della famiglia dei Pazzi di Valdarno, che uccise a tradimento il suo congiunto Ubertino de' Pazzi, indica innanzi tutto che questa zona del lago ghiacciato si chiama "Caina". Il nome deriva da Caino, biblico esempio primario di tradimento dei parenti o dei congiunti in generale.

Prima aveva descritto i due dannati avvinghiati ai piedi di Dante come figli del conte Alberto degli Alberti, Conti di Vernio e di Mangona, proprietari di numerosi castelli in Val Bisenzio: essi sono Napoleone e Alessandro Alberti, uccisi tra di loro tra i 1282 e il 1286 per questioni politiche e di interesse. A differenza dei mitologici Eteocle e Polinice, la cui fiamma si biforcava per l'odio anche durante la pira che bruciava i loro cadaveri (citata da Dante in Inf. XXVI, 54), essi sono invece condannati ad essere per l'eternità uniti l'uno all'altro.

In questo girone popolato in larga maggioranza da figure contemporanee, Camicione cita solo l'esempio praticamente didascalico di Mordred, il traditore di Re Artù che nel ciclo bretone viene trafitto a morte da Lancillotto con tale furia che nel testo del Lancillotto del lago si ricorda come la ferita era profonda tanto da passarci un raggio di sole che buco quindi anche la sua ombra.

Focaccia è invece Vanni de' Cancellieri, della rissosa famiglia pistoiese che per prima creò le fazioni dei guelfi bianchi e neri, il quale uccise un suo consorte a tradimento (secondo alcuni commentatori un parente stretto o un familiare, ma mancano elementi d'archivio per una vera documentazione). Pure Sassol Mascheroni, citato con cinica irritazione per come la sua testa copra la visuale a Camicione, è un traditore del quale non si hanno notizie storiche fondate.

Scopriremo presto come in questo girone i dannati non desiderano essere ricordati, anzi ci terrebbero a tenere ben nascosto il fatto di essere colpevoli di peccati così turpi. Ugolino della Gherardesca racconterà la sua storia solo per denunciare l'efferatezza del suo nemico l'Arcivescovo Ruggieri, mentre in questo caso Camicione si nomina solo per evitare di essere tormentano da domande di Dante, in un'insofferente irritazione: egli però non manca di prendere l'occasione per nominare con infamia anche un'altra persona, Carlino de' Pazzi (in relatà non era un parente ma apparteneva ai guelfi Pazzi di Firenze), che quando morirà verrà punito in una zona ancora più bassa dell'Inferno, tra i traditori della patria per il crimine di aver venduto il castello di Pietravigne ai guelfi neri, ottenendo un salvacondotto per rientrare a Firenze sebbene guelfo bianco; perciò anche la colpa di Camicione, in confronto gli sembrerà meno grave, stabilendo così una maligna graduatoria di reità.

2. 4. L'Antenora: Bocca degli Abati - vv. 70-123

[CENTER]Caina e Antenora, illustrazione di Alessandro Vellutello (1534)



Dante prosegue senza commentare la scena precedente e si trova attorno a più di mille visi "cagnazzi" per il freddo: paonazzi? lividi? In ogni caso il pensiero di quella visione da ribrezzo al Dante-scrittore (cioè il personaggio del narratore) e sempre gliene darà a ripensare a quei guadi gelati; e mentre procedono verso il centro, verso il quale ogni peso tende (il centro della terra), Dante trema nel gelido vento eterno. Tra le diverse zone del nono cerchio non vi sono barriere, ma solo una densa nebbia che svela i luoghi gradualmente.

In questa terzina egli usa la rima in ezzo e in azzi, le peggiori combinazioni di suono che egli aveva indicato nel De Vulgari eloquentia, da evitare assolutamente nella poesia di stile elevato. È questo un esempio di rime aspre e chiocce richiamate a inizio del canto, unite alle numerose rime con suoni cupi (uso della u) e forti come le rime con doppia consonante (-accia, -etti, -olli, -inse, -ecchi, -onta...), e la rima tronca in "u" (Artù, più, fu).

A un certo punto egli percuote forte col piede una testa, forse per volontà sua, forse per destino (ovvero per la Provvidenza) o forse un caso della fortuna: come se la sua persona in quel caso fosse stato strumento di punizione divina. Quell'anima lo sgrida piangendo chiedendo perché lo pesta e perché gli faccia male, non fosse mai che egli sia venuto per accrescere la punizione di Montaperti...

Dante coglie al volo il riferimento e chiede a Virgilio di aspettarlo, perché deve togliersi un importante dubbio circa questo dannato, e che poi semmai riprenderà con tutta la fretta necessaria. Dante non lo dice, ma il dubbio in questione circa la Battaglia di Montaperti è relativo al sospetto di una tradimento nelle file guelfe, unanimamente sospettato ma mai appurato con certezza: qualcuno nella cavalleria guelfa, durante un duro attacco delle truppe tedesche di Manfredi aveva infatti mozzato di netto la mano del portainsegna Jacopo de' Pazzi, facendo così perdere il punto di riferimento per l'armata fiorentina che dovette poi procedere allo sbando.

Dante ha quindi un forte sospetto, visto il luogo dove si trova, di poter dare finalmente una soluzione alla questione. Torna dall'anima dannata, che bestemmiava ancora, e inizia un litigioso battibecco (il terzo all'Inferno dopo quello con Filippo Argenti e quello tra Maestro Adamo e Sinone) con un rapido scambio di battute: (parafrasi vv. 87-102)

Dante: "Chi sei tu lanci questi insulti così?" Dannato: "E tu chi sei, che vai per l'Antenora picchiando le gote degli altri, che se (io? tu?) fossi stato vivo sarebbe stato troppo?" (verso dal significato ambiguo, forse può essere inteso come: "se io fossi vivo, non sopportando quest'ingiuria, mi sarei già vendicato")
Dante: "Vivo sono io, e questo potrebbe giovarti se chiedi fama, perché potrei scrivere il tuo nome nel mio racconto"
Dannato: "Io voglio il contrario, levati quindi di torno e non mi infastidire più, che non sai davvero come si lusinga da queste parti!"
Dante, afferrando il dannato per i capelli della collottola: "Ti converrà dire il tuo nome, se vuoi che ti rimangano capelli in testa"
Dannato: "Per quanto tu mi strappi i capelli non ti dirò chi sono io, nemmeno se per mille volte mi piombi (tomi) sul capo con tutto il tuo peso!"

Allora Dante nel pieno del suo sdegno questa volta violento gli strappa più d'una ciocca di capelli mentre il dannato urlava come un cane (latrando) con la faccia rivolta in basso.

Allora un altro traditore parla chiedendo che avesse Bocca da strillare tanto: (parafrasi vv. 107-108) "Che non ti basta il solito batter dei denti? Chi diavolo hai?". Dante allora ha avuto conferma del suo sospetto e lascia il traditore intimandogli di tacere ora, perché il ricordo della sua onta sarà rivelato. Bocca degli Abati, questo è il nome completo del dannato, non tace, anzi, adesso che è stato tradito da un traditore come lui, si affretta a nominare quanti più altri possibili, in modo che anche essi subiscano la vergogna del loro riprovevole peccato: (parafrasi vv. 112-123) "Vattene pure e racconta quello che ti pare; ma se davvero uscirai di qui non tacere anche di quello che ebbe la lingua così pronta: lui è Buoso da Duera, che piange per il denaro ottenuto dai francesi, e potrai ben dire che l'hai visto là dove i peccator stanno freschi. E se ti domandassero 'poi chi altri c'era?' tu sei accanto a Tesauro Beccaria, al quale Firenze segò il collo. Più in là credo ci sia Gianni de' Soldanieri con Ganellone e Tebaldello, che aprì le porte di Faenza quando tutti dormivano."

Bocca degli Abati quindi, una volta visto scoperto il suo segreto si affanna per svergognare più compagni possibili, elencando vari traditori della patria (solo Ganellone non è contemporaneo, ma è il personaggio della Chanson de Roland che tradendo rese possibile il massacro di Roncisvalle). Essi sono puniti nell'Antenora, che prende il nome da Antenore, personaggio già omerico (ma Dante non lo sapeva perché non aveva letto l'Iliade) citato anche da Servio quale traditore di Troia.

In nessun altro luogo dell'Inferno si era assistito a una mancanza di solidarietà tra i dannati così totale e sistematica come in questo cerchio dei traditori.

Il conte Ugolino e l'arcivescovo Ruggieri - vv. 124-139

Inconto con Ugolino e l'arcivescovo Ruggieri, illustrazione di Gustave Doré



Di nuovo Dante si allontana in silenzio e più avanti nota, nella stessa zona, due traditori affiancati, uno dei quali fa da cappello al capo dell'altro: e come si mangia il pane per fame, così egli addentava alla nuca, non meno di come fece Tideo (Re di Tebe citato da Stazio) con le tempie di Menalippo per lo sdegno.

Dante chiede allora solennemente chi sia, rivolgendosi a quello che bestialmente mangiava l'altro, e perché: se infatti fa questa ritorsione a ragione Dante potrà, conoscendo loro e il loro peccato, parlare di loro su nel mondo, compensandoli, anche se gli si dovesse seccare la gola (dunque si tratta di una promessa).

Si tratta del Conte Ugolino della Gherardesca e dell'Arcivescovo Ruggieri, la cui storia sarà magistralmente illustrata nel canto successivo e qui viene solo introdotta dalla richiesta di Dante.

3. Il contrappasso

Il contrappasso dei traditori è generico e simile per tutte le quattro zone del cerchio con qualche particolarità secondaria tra zona e zona e in alcuni casi tra dannato e dannato. Innanzi tutto il gelo che avvolge i traditori può essere messo in relazione con il freddo e la durezza "del cuore" necessario a chi compia con lucidità un tradimento, magari nella freddezza della premeditazione, in contrapposizione con il calore umano (o il fuoco della carità, come Dante la ritrarrà personificata nel Paradiso terrestre, sulla sommità del Purgatorio). Inoltre essi rappresentano il massimo della degradazione umana, essendo il loro peccato il più grave dell'Inferno e sono retrocessi nella loro immobilità a "pietre-umane" (si pensi al già grave degradamento dei ladri trasformati in serpenti o dei suicidi in sterpi, tutto sommato creature ben superiori alle pietre inanimate).

Edited by demon quaid - 1/2/2017, 14:52
 
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Seconda zona

Il canto trentatreesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella seconda e nella terza zona del nono cerchio, nella ghiaccia del Cocito, ove sono puniti rispettivamente i traditori della patria e del partito e i traditori degli ospiti; siamo nel pomeriggio del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

1. Incipit
Canto XXXIII, ove tratta di quelli che tradirono coloro che in loro tutto si fidavano, e coloro da cui erano stati promossi a dignità e grande stato; e riprende qui i Pisani e i Genovesi.

2. Analisi del canto
2. 1. Il racconto del conte Ugolino - versi 1-78

Canto 33, Priamo della Quercia (c.1403-1483)
« La bocca sollevò dal fiero pasto »
(v. 1)

Inizia così uno dei canti più famosi di tutto l'Inferno. Nelle ultime terzine del canto precedente Dante era stato attratto dalla figura di un dannato che rodeva alla nuca un altro, e mosso da curiosità verso tanta bestialità, chiede al peccatore superiore chi sia e perché si ritorce così sull'altro, ripromettendogli di portare nel mondo dei vivi la sua storia magari facendo conoscere le ragioni del suo odio se queste fossero state giustificabili.

Questo canto inizia quindi con la macabra figura di cannibalismo, subito sottolineata dall'accenno alla bocca di Ugolino e dall'accenno al pasto fiero cioè ferino, feroce. Egli solleva la bocca dal pasto feroce, pulendola con i capelli del capo che stava addentando, e comincia a parlare.

Dice che egli parlerà del disperato dolor che solo a ripensarci gli stringe il cuore, per il solo scopo di fruttare infamia al traditore che egli rode, e così inizia a parlare e lagrimar (si tratta della figura retorica dello zeugma, nella stessa espressione usata anche da Francesca da Rimini, ma con tutt'altro significato, perché in quel caso il piangere era dovuto al ricordo della lieta vita): già da questa premessa viene introdotto il senso drammatico della scena seguente e l'eco dell'odio e del dolore.

Se Dante è fiorentino, prosegue il peccatore, dovrebbe ricordarsi del Conte Ugolino della Gherardesca e dell'Arcivescovo Ruggieri di Pisa (per sé usa "fui", per l'arcivescovo "è" perché il diverso tempo verbale si riferisce alla carica episcopale di Ruggieri, che perdura nella "seconda vita"): in effetti Ugolino è un personaggio chiave della politica toscana del Duecento. Conte di Donoratico, di nobile e antica famiglia ghibellina, Ugolino si alleò con Giovanni Visconti, capo dei guelfi, per proteggere alcuni suoi possedimenti in Sardegna dalle mire del Comune di Pisa, retto allora dalla parte guelfa. Per questa sua ambiguità politica venne bandito una prima volta da Pisa, ma vi rientrò nel 1276 con l'aiuto di Firenze e della lega guelfa. Da allora egli fu tra coloro che di fatto diressero la politica cittadina e forse guidò anche la flotta nella battaglia contro Genova. Dopo la sconfitta della Meloria (1284) egli divenne podestà di Pisa, mentre Genova, Firenze e Lucca si stavano coalizzando contro Pisa: per rompere il blocco compatto degli avversari, troppo potente per essere contrastato dalla sola Pisa, egli fece passare dalla sua parte Lucca e Firenze cedendo loro alcuni castelli alle città rivali, indebolendo i confini, ma tutto sommato riuscendo a salvare la situazione. Nel 1285 si alleò con Nino Visconti, nipote di Giovanni, anche se presto tra i due nacquero alcuni dissidi circa i possedimenti sardi. Nel 1288 tornarono a Pisa i prigionieri della Meloria e, coalizzatisi attorno all'Arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, capeggiarono una rivolta popolare contro il Visconti, durante un'assenza di Ugolino: tornato immediatamente in città una nuova rivolta aizzata da Ruggieri lo fece catturare e imprigionare nella torre della Muda, dove venne lasciato morire di fame assieme a due suoi figli adulti e due nipoti, di quali uno solo adolescente. Dante riprende le mosse dalla storia e però propende per il tradimento dell'Arcivescovo, che avrebbe fatto rientrare Ugolino a Pisa con le lusinghe di una riconciliazione. Inoltre, per un maggior rilievo drammatico, immagina che i quattro prigionieri con Ugolino siano tutti suoi figli e adolescenti. Del perché di questa scelta narrativa riparleremo più avanti.

Il racconto di Ugolino all'Inferno quindi inizia premettendo che il racconto verterà su come la morte mia fu cruda, così che Dante possa valutare poi se è giusto o no che roda il capo di Ruggieri. La storia inizia in medias res, perché Dante toscano ormai dovrebbe ben conoscere come egli fu arrestato a tradimento e imprigionato, ma nessuno, dice Ugolino, sa cosa successe veramente in quella torre.

La narrazione si avvia quindi "cinematograficamente", inquadrando la finestrella della Torre della Muda, che da Ugolino prese il nome di "Torre della fame", ed entrando nella stanza dei prigionieri, dove Ugolino guarda ormai la luna da molte notti. Una di queste ha un sogno che del futuro mi squarciò il velame (la violenza dell'espressione del v. 27, può indicare la durezza del colpo che esso rappresentò per Ugolino) e che è il preludio della vicenda: l'arcivescovo era a capo di una battuta di caccia sul Monte di San Giuliano (il monte che copre Lucca alla vista dei pisani) cercando il lupo e i suoi lupicini (che simboleggiano Ugolino e i suoi figli e rappresentano qui delle prede, ma anche animali a loro volta pericolosi), con cagne magre, ammaestrate e fameliche (il popolo, smagrito dalla povertà) e guidano la battuta i Gualandi, i Sismondi e i Lanfranchi, importanti famiglie di Pisa; presto i lupi sono stanchi e i cani li raggiungono ferendoli ai fianchi con i denti aguzzi.

Il giorno dopo Ugolino sente piangere i figli e gli sente chiedere del pane: il racconto è interrotto da un rimprovero-sfogo di Ugolino che dice a Dante (ma anche al lettore) che è ben crudele se già non prova dolore per quello che stava per accadere, dopotutto se non piangi per questo, per cosa è solito piangere? In fondo ancora Ugolino non ha detto niente di terribile, ma queste interruzioni aumentano un senso di aspettativa tragica e sottolineano il grande crescendo dell'episodio.

Nell'ora in cui di solito veniva portato il cibo però, egli sentì chiavar l'uscio (più che chiuder a chiave si intende "inchiodare", chiudere coi chiavelli) dell'orribile torre; in silenzio Ugolino guarda in viso i figli, e il suo sguardo doveva essere già pieno di disperato strazio perché Anselmuccio dice : "Tu guardi sì, padre! che hai?"; ma Ugolino non risponde nemmeno, incapace di parlare e di lacrimare. Passa un intero giorno e una notte e un giorno ancora (notare la scansione che dà l'idea dell'immobilità nel lento trascorre del tempo): un raggio di sole gli mostra come la sua disperazione e magrezza siano dipinte, come in uno specchio, sui volti dei figli e per il dolore Ugolino si morde le mani. In questo passo si rivela già come Ugolino, estraneo a qualsiasi forma di pentimento o di spiritualità, si sia di fatto già trasformato in quella sorta di pietra vivente, che sarà il suo castigo nel Cocito gelato.

Al che, credendo che lo facesse per la fame, si alzarono i figli e gli offrirono di mangiar piuttosto loro, di spogliare quelle carni che lui aveva fatto: si calmò poi per non rattristarli, e quel giorno ancora e l'altro rimasero muti. Di nuovo un'invettiva che segna una pausa e prepara al successivo capitolo della tragica narrazione:"Ahi dura terra, perché non t'apristi?"

Al quarto giorno, Gaddo si gettò ai piedi di Ugolino, invocando aiuto, e così morì; e così vide cascare gli altri tre uno a uno tra il quinto giorno e il sesto, dopo di che Ugolino già cieco, si mise a brancolare sopra ciascuno invocandoli con strazio; poi, più che 'l dolor, poté 'l digiuno. Su quest'ultimo verso alcuni hanno letto la confessione di cannibalismo, anche se confrontandolo con il resto delle parole del Conte sembra più logico interpretarlo come il fatto che più che dal dolore egli venne ucciso dalla fame. Commentatori come Francesco De Sanctis e Jorge Luis Borges (quest'ultimo nel saggio dantesco intitolato "Il falso problema di Ugolino") hanno ipotizzato che l'espressione sia, in certa misura, deliberatamente ambigua e "oscura", stimolando l'immaginazione del lettore, insinuando il dubbio e l'incertezza su quanto avvenne per rendere il verso più misterioso e suggestivo.

Allora Ugolino smette di parlare, storce gli occhi nel guardare Ruggieri e con violento odio riprende a mordere il teschio misero, coi denti forti come quelli dei cani: si chiude in questa maniera smaccatamente "horror" il racconto in prima persona più lungo dell'Inferno e Dante, nella parabola dall'incontro con i due peccatori a ora, ha descritto i motivi di quell'odio che adesso sembra quasi giustificare il supplemento di pena verso l'arcivescovo, che nel frattempo è rimasto muto e immobile come un sasso. Nella sua insaziabilità e nel continuo riproporsi del suo dolore anche Ugolino vive così un rincaro della sua pena infernale.

Racconto di Ugolino, Giovanni Stradano, 1587
« Ahi Pisa, vituperio de le genti »
(v.79)

Dante si lancia allora in una violenta invettiva contro Pisa, richiedendo, con un adynaton, una distruzione apocalittica della città, visto che i suoi vicini sono troppo lenti, con il muoversi delle isole di Capraia e Gorgona che, in una scena di sapore biblico, chiudano la foce dell'Arno facendo inondare la città "sì ch'elli annieghi in te ogne persona!".

Pisa è infatti colpevole di aver rinnovato i delitti per cui era famosa Tebe imprigionando, insieme al conte che era pure colpevole della cessione dei castelli, anche i figli, innocenti per l'età novella.

2. 3. La Tolomea: i traditori degli ospiti - vv. 91-108

Dopodiché Dante e Virgilio proseguono il cammino penetrando nella terza zona del nono cerchio, la Tolomea (dal re Tolomeo che uccise l'ospite Pompeo). I peccatori qui sono tutti riversati, cioè forse supini; il loro pianto non è possibile perché le lacrime si congelano sugli occhi creando uno schermo come di cristallo, che non fa uscire le lacrime, ma anzi le rispinge nei loro corpi facendo accrescere il loro dolore, privo anche di questo basilare sfogo. E sebben Dante ritenesse il suo viso insensibile e duro come callo per via del freddo, egli crede di sentire alquanto vento, che lo spinge a chiedere spiegazioni a Virgilio (infatti nell'Inferno non hanno valore le leggi fisiche della terra, non circolano i vapori e quindi non si hanno venti e piogge). Ma Virgilio lì per lì non risponde, rinviando a quando sarà "l'occhio" a vedere da solo la risposta: in realtà si tratta solo di un'anticipazione per preparare il lettore all'apparizione di Satana (nel canto successivo si vede che il vento è prodotto dal movimento delle ali di Lucifero).

2. 4. Frate Alberigo, Branca Doria - vv. 109-150

Mentre procedono, un'anima, che forse li ha scambiati per due peccatori dell'ultima fascia in direzione del loro luogo di supplizio, li chiama chiedendo che rimuovano il ghiaccio dai suoi occhi, per permetterle di piangere un po': ma Dante risponde che lo farà se essa si presenta, e possa egli scendere fino in fondo all'Inferno se non rispetta il patto (frase più che mai ambigua, visto che Dante dovrà andarci comunque).

Risponde dunque l'anima di essere frate Alberigo, quello della "frutta del mal orto" (che fece uccidere i commensali dando ai sicari come segnale l'ordine di portare la frutta), a cui qui viene reso pan per focaccia (v. 120, "dattero per figo"). O vuole forse intendere che deve rendere un 'dattero', più prezioso, per aver rubato un semplice 'fico', meno importante, e quindi che paga una pena maggiore della colpa? E allo stupore di Dante che lo crede vivo, risponde che è un vantaggio (in senso sarcastico) della Tolomea: i dannati che tradiscono il sacro vincolo dell'ospitalità vi precipitino prima che Atropo (una delle tre Parche) tagli il filo della vita, non appena commesso il peccato, mentre un diavolo fa stare in vita i corpi fino alla fine. Sulla spiegazione di questo meccanismo, che tra l'altro esclude la confessione, il pentimento e la redenzione successiva possibile per qualsiasi cristiano, non c'è nessun accenno nella teologia medievale né negli scritti dei padri della chiesa. Pare che Dante l'abbia concepita ispirandosi al Vangelo di Giovanni quando si dice che subito dopo che Giuda Iscariota tradì Gesù, ingoiando il boccone che lo indicava ai soldati del sommo sacerdote (e quindi violando la sacralità conviviale), Satana entrò dentro di lui immediatamente. Inoltre permette a Dante di citare persone ancora vive nel 1300.

Continuando il racconto, Alberigo, perché Dante sia più soddisfatto e gli tolga le lacrime gelate, aggiunge che l'ombra dietro di lui è Branca Doria e che è ormai lì da molti anni: Dante si stupisce perché lo conosce ancora in vita ("Branca Doria non morì unquanche, / e mangia e bee e dorme e veste panni"), ma Alberigo gli dice prima che morisse Michele Zanche, da lui assassinato, il barattiere che bolle nella pece con i Malebranche (allusione a quanto descritto nel Canto ventiduesimo), egli venne sostituito nel corpo da un diavolo, così come un suo parente colpevole dello stesso crimine. Con insistenza Alberico chiede per la terza volta di aprirgli gli occhi; ma con la solennità data dalla netta cesura a metà del verso 149, Dante dice: E io non gliel'apersi. La cortesia (cioè un atto moralmente retto) con lui fu esser villano: Dante cioè è ormai maturato da quando Virgilio lo rimproverò nel canto XX per le lacrime vane per le pene dei dannati: egli è pienamente cosciente della giustizia divina e prende le distanze da coloro che ne hanno attirato l'ira e in coerenza con il loro agire da traditori evita di offendere Dio procacciando sollievo a un dannato. Nello stravolgimento dei valori che regna nell'Inferno la pietà consiste nel non avere pietà.

2. 5. Invettiva contro Genova - vv. 151-157

Il canto si conclude con una seconda invettiva, questa volta contro i genovesi come Branca Doria (uomini diversi / d'ogne costume e pien d'ogne magagna): possano essi essere del mondo spersi, poiché un loro concittadino si trova lì nel Cocito, insieme al peggiore dei romagnoli, mentre nel mondo quest'ultimo pare ancora vivo.

Le invettive contro città non sono infrequenti nell'Inferno e sono provocate dal sentimento di sdegno del poeta nei confronti di dannati particolarmente riprovevoli: oltre a quella contro Pisa in questa stessa cantica vi è quella contro Pistoia (XXVI) e quella contro Firenze (XXVII).

3. Punti notevoli

Si può dire che in questo canto prevalga l'aspetto teatrale, ravvisabile già nella suddivisione dei canti, che anticipa l'incontro con i personaggi e la richiesta di Dante nel precedente, in modo da focalizzare direttamente l'attenzione sul conte, che inizia così un lungo monologo cui non seguirà nessuna risposta da parte del protagonista. Anche i motivi e le descrizioni sono particolarmente ridotti, lasciando al centro solo la parola diretta del dannato, nella quale è ravvisabile come un tentativo di depistaggio: egli infatti non parla per niente del proprio peccato, e anzi si dichiara disperato non perché condannato all'Inferno, ma per il dolore provocato dal male che ha subito (vv. 4-5, "Tu vuoi ch'io rinnovelli / disperato dolor che il cor mi preme"): insomma, egli si pone non come peccatore, ma come vittima. Egli accenna solo brevemente alla lotta politica che lo ha visto impegnato (vv. 16-18, "Che per l'effetto de suo' ma' pensieri, / fidandomi di lui io fossi preso / e poscia morto, dir non è mestieri"), invece di dirci la sua versione dei fatti, ma si dilunga sulla condanna patita, che narra in forma altamente patetica. Dante fa un affresco sul male in generale, ma semina comunque parecchi indizi per aiutare il lettore a distinguere gli innocenti dai colpevoli, e cioè le vere vittime (i figliuoi, figli e nipoti del conte con lui rinchiusi: v. 88, "innocenti facea l'età novella") dall'atteggiamente ben diverso da quello del padre (gli offrono addirittura le loro carni), chiuso invece nella propria disperazione - l'appello alla terra perché si apra rivela la sua mancanza di prospettiva spirituale, di fede nella giustizia superiore di Dio -, incapace di parlare ("sanza far motto", "né rispos'io", "stemmo tutti muti") fino all'ultimo, quando la parola diventa inutile (v. 74 "e due dì li chiamai, poi che fur morti"), addirittura incapace di piangere ("io non piangeva", "non lagrimai"). Egli è "cieco" (v. 73) - e tale parola non è casuale, come testimonia il suo uso in altri luoghi del poema: l'Inferno, per esempio, è definito "cieco carcere", non si riferisce cioè a una cecità fisica, ma spirituale - a differenza dei figli, addirittura assimilati a Cristo (Gaddo morendo grida, al v. 69 : "Padre mio, ché non m'aiuti?", proprio come Cristo, e più tardi Dante accusa Pisa di aver messo i ragazzi "a tal croce", v. 87): per questo rimane confinato nel suo aspetto non più umano, ma bestiale, come indicano parecchie parole nel poema (v. 133 del XXXII: "sì bestial segno"; v. 1: "fero pasto", cioè "feroce", "da fiera"; v. 76: "gli occhi torti"; v. 78: "come d'un can"), fisso nel suo eterno atto cannibalesco.

A questo proposito, occorre notare che se nell'immaginario collettivo Ugolino mangia i suoi figli, il testo dantesco in proposito è ambiguo, e i critici lo hanno rilevato. La frase Poscia più che il dolor poté il digiuno si può interpretare anche nel senso di una morte per fame che sopravviene invece della morte per dolore. In particolare, Jorge Luis Borges nel libro Nove saggi danteschi, osserva che Dante stesso ha voluto che noi credessimo che Ugolino ha ucciso i suoi figli, e che non li ha uccisi, con un'ambivalenza insolubile.

Dante però ha consapevolmente alterato la storia di Ugolino per mettere in scena quella che da Francesco de Sanctis è stata definita come "tragedia della paternità". Dal soggiorno quale esule nel Castello di Poppi Dante ebbe modo di conoscere e di restare in contatto epistolarmente con la contessa della Gherardesca, figlia orfana di Ugolino, per cui il poeta era sicuramente a conoscenza di come si erano svolti realmente i fatti: di come nella torre c'erano due figli e due nipoti di Ugolino, non tutti figli suoi, e di come tra essi vi fosse solo un adolescente, mentre gli altri avevano dai diciotto anni in su e il più grande di loro non era nemmeno innocente perché già macchiatosi di reati. A Dante però interessava solo la tragedia, messa in scena nei suoi tratti più essenziali: gli adolescenti in questo caso sono simboli lampanti di innocenza.

La disperazione di Ugolino è data dall'impotenza davanti alle sofferenze dei figli, causate dalla sua condotta, e in nessun punto del racconto egli si lamenta per la sua morte. In questo fatto alcuni hanno anche visto in trasparenza la figura di Dante, che esule per le sue insindacabili idee politiche, deciso a non patteggiare con il comune di Firenze condannò, secondo le leggi del tempo, anche i suoi figli all'esilio non appena essi ebbero raggiunto l'età per l'applicazione della norma. Quindi anche Dante è un padre che vede soffrire i propri figli per causa sua e se la saldità delle sue idee non gli fa provare un vero rimorso, è innegabile che egli almeno provi una sorta di inquietudine: per questo si scaglia così gravemente su chi condanna gli innocenti con i padri, raggiungendo il culmine nell'invettiva brutale contro Pisa.

Se il conte Ugolino è forse uno dei più celebri personaggi dell'intera Divina Commedia, non bisogna dimenticare che il canto prosegue dopo il suo incontro, poiché Dante presenta Frate Alberigo, vittima di una sua beffa, rivelando un'altra tecnica peculiare dell'Inferno, cioè l'accostamento di personaggi alti e bassi (l'episodio di Ugolino è inquadrato nei canti XXXII e XXXIII da traditori violenti e "plebei"), sottolineato anche dalle due invettive contro Pisa e Genova, che entrambe chiudono una sequenza: ciò testimonia l'impellente indignazione di Dante, rivolta all'insieme dei peccatori, e quest'operazione si può collegare al canto XIII, dove allo stesso modo il tono del canto si abbassa bruscamente dopo aver presentato un personaggio "alto", Pier delle Vigne, con l'introduzione della movimentata e grottesca vicenda degli scialacquatori e poi di un personaggio che rimane addirittura del tutto anonimo. L'obiettivo perseguito da Dante con questa tecnica dell'accostamento tra personaggi "alti" e "bassi" e tra diversi toni e registri narrativi è quello di rappresentare la totalità del mondo in tutte le sue sfaccettature.

Edited by demon quaid - 1/2/2017, 15:03
 
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Quarta zona

Il canto trentaquattresimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella quarta zona del nono cerchio, nella ghiaccia del Cocito, ove sono puniti i traditori dei benefattori; siamo alla sera del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

La Giudecca e Lucifero (Canto XXXIV). Illustrazione di Paul Gustave Doré.



Si tratta dell'ultimo canto dell'Inferno: Dante e Virgilio vi vedono Lucifero, principio di ogni male, e scendono al centro della terra lungo il suo corpo, fino a risalire poi sull'altro emisfero dove si trova il Purgatorio, oggetto della prossima cantica.

1. Incipit

Canto XXXIV e ultimo de la prima cantica di Dante Alleghieri di Fiorenza, nel qual canto tratta di Belzebù principe de' dimoni e de' traditori di loro signori, e narra come uscie de l'inferno.

2. Analisi del canto
2. 1. La Giudecca: i traditori dei benefattori - versi 1-15
« Vexilla regis prodeunt inferni »
(v. 1)


Inizia con l'unica frase in latino della cantica l'ultimo Canto dell'Inferno: significa "le insegne del re dell'Inferno avanzano" ed è una citazione del celebre inno di Venanzio Fortunato, dove invece delle insegne della vera croce, per le quali fu composta entrando poi nella liturgia della Settimana Santa, Dante aggiunge "inferni", per introdurre solennemente la visione di Lucifero.

Dice quindi Virgilio che le insegne, intese come i segni, del re degli inferi avanzano verso di loro, quindi invita Dante a guardare avanti per vederlo. Dante crede di vedere una specie d'edificio, come un mulino che di notte appaia in mezzo alla nebbia; una forte ventata fa rabbrividire il poeta che si fa scudo alla sua guida, ché non lì era altra grotta, cioè altro riparo.

Guardandosi attorno Dante vede la più paurosa desolazione, tanto che il Dante-narratore anche rabbrividisce nel "mettere in metro" cioè nel comporre la poesia: le ombre dei dannati sono tutte coperte nel ghiaccio, e traspaiono come pagliuzze (festuca) sottovetro; di queste anime alcune sono sdraiate, altre dritte a testa in su o in giù, altre ancora sono piegate ad arco con il capo verso le piante dei piedi. Probabilmente a ognuna di queste posizioni potrebbe corrispondere un diverso grado di colpa, ma Dante non pone alcuna spiegazione: i dannati sono pietrificati e muti, nessuno viene indicato né da Dante né da Virgilio. Solo più tardi (al v. 117) si saprà che questa zona del nono cerchio è la Giudecca, da Giuda Iscariota. Non è chiaro, per mancanza di indizi univoci, se qui siano puniti i traditori verso la Chiesa e l'Impero o quelli più genericamente verso i loro benefattori: solo tre sommi peccatori verranno nominati in bocca al Diavolo e da quelli si è cercato di risalire alla colpa anche degli altri.

2. 2. Lucifero - vv. 16-56

Quando i due sono abbastanza vicini per vedere la creatura ch'ebbe il bel sembiante, Virgilio si toglie di davanti e lascia la visuale libera a Dante dicendo: "Ecco Dite, ecco il luogo dove conviene armarsi di coraggio".

Dante aspetta ancora un attimo a descrivere la visione culminante dell'Inferno e per creare aspettativa nel lettore interpone prima alcune sue sensazioni: divenne gelato e fioco, ma il lettore è meglio che non domandi, ch'ogne parlar sarebbe poco, cioè che qualsiasi parola sarebbe insufficiente; Dante dice che non mori' e non rimasi vivo (si direbbe oggi "mezzo morto"), e che il lettore può ormai immaginare da sé che vuol dire restare senza vita e morte.

A questo punto inizia senza mezze misure la descrizione dell'apparizione vera e propria:

« Lo 'mperador del doloroso regno
da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia. »
(vv. 28-29)


Dante vede Lucifero come un imperatore decaduto, con una sua regalità, che sta conficcato nel ghiaccio fino al petto. È uno sconfitto reso impotente da Dio, quindi è anche ridicolizzabile dagli uomini: Giotto lo dipinse obeso nella Cappella degli Scrovegni (1306), mentre Dante lo userà come scala. La sua immobile enormità richiama a memoria i Giganti del Canto XXXI, infatti proprio con essi Dante fa un confronto, usando sé stesso anche come termine di paragone: c'è più proporzione tra un gigante e lui, che tra un gigante e le braccia di Lucifero, calcolando quindi con approssimazione un'altezza totale di Satana di un chilometro e mezzo.

Se egli fosse stato bello (prima di ribellarsi) quanto ora è brutto e alzò le ciglia (cioè si ribellò) contro il suo Creatore (fattore), invece di essergli grato per la bellezza che gli aveva donato, allora è ben naturale che da lui proceda ogni male (ogni lutto).

Grande stupore generano in Dante le tre facce mostruose del demonio: una centrale rossa, le altre due bianco-giallo (destra) e nera (sinistra) (come quella di coloro che vengono dalla valle del Nilo, cioè degli etiopi) si ricongiungevano sul dietro della nuca, dove alcuni animali hanno la cresta. A parte la connotazione dei colori, non pienamente decifrata (forse un'antitesi al bianco, verde e rosso delle tre virtù teologali, fede, speranza e carità), le tre facce sarebbero la punizione di Lucifero: come egli aspirava a diventare Dio, adesso è una mostruosa parodia all'opposto della Trinità; se le caratteristiche divine sono la divina podestate, / la somma sapïenza e 'l primo amore (Inf. III, vv. 5-6), quelle di Belzebù sarebbero quindi, per contrasto, impotenza, ignoranza e odio.

Sotto ciascuna delle facce escono due grandi ali proporzionate con l'immane uccello (metafora del corpo di Lucifero). Dante confessa di non averne mai viste di tali e che erano prive di penne, simili a quelle di vispistrello (pipistrello più influenzato del termine odierno dal latino vespertilio. Le tre coppie di ali sono anche caratteristica degli angeli Serafini, i più vicini a Dio, dei quali faceva parte anche Lucifero. Da queste ali hanno origine tre venti che gelano tutto il Cocito. Il particolare delle ali e delle tre facce (antitesi della Trinità) sono le uniche concessioni al mostruoso in questo Satana di Dante: sono assenti tutti gli elementi grotteschi (corna, code di serpente, zampe artigliate, e quant'altro) tipici delle coeve raffigurazioni letterarie e iconografiche (si pensi al diavolo dei mosaici del Battistero di Firenze che Dante conosceva molto bene).

Alle tre facce corrispondono sei occhi lacrimanti e tre menti che gocciolano pianto e sanguinosa bava: così perché da ogni bocca maciulla un dannato, per un totale di tre.

2. 3. Giuda, Bruto e Cassio - vv. 57-67

Quello davanti, per il quale i morsi non contavano nulla in confronto ai graffi che il Diavolo gli infliggeva di tanto in tanto sulla schiena. Virgilio lo indica come Giuda Iscariota, col capo nella bocca e le gambe che scalciano di fuori. Gli altri due sono Marco Giunio Bruto, dalla testa nera di sinistra, che si storce ma non parla (questo è una delle condizioni della magnamità, ma non è l'unica necessaria, e come in Capaneo non esclude la condanna di Dante); l'altro è Cassio Longino membruto cioè robusto (sull'attributo della robustezza forse Dante si sbagliava con Lucio Cassio, seguace di Catilina, citato da Cicerone).

Nei tre sommi traditori Dante ha voluto colpire coloro che attentarono primamente alle due massime potestà, entrambe preordinate da Dio come guide all'umanità per raggiungere la felicità terrena e quella oltremondana. Giuda ha tradito Gesù da cui deriva l'autorità dei papi e Bruto e Cassio hanno tradito Cesare, il "primo principe sommo", fondatore dell'autorità imperiale. Il castigo inflitto al primo è più grave perché il potere spirituale e il fine della beatitudine celeste sovrastano il potere temporale e il fine della felicità terrena.

Dante non cita la trivialità, presente invece in molte opere pittoriche già citate, come in Giotto, del diavolo che 'evacua' i peccatori maciullati per poi tornare a tormentarli.

2. 4. Discesa dei poeti lungo il corpo di Lucifero - vv. 68-99

Il Lucifero dantesco non interagisce minimamente con i due pellegrini, isolato nella sua inarrivabile solitudine. Durante la descrizione i due poeti si sono avvicinati fino ad arrivare al cospetto di Satana e Virgilio invita allora Dante a reggersi al suo collo e con un salto, quando le ali sono aperte in posizione favorevole, si appiglia al busto peloso del demonio e inizia a scendere di vello in vello. Arrivati al punto dove le cosce si attaccano alle anche, Virgilio, con fatica e con angoscia, si rigira volgendo la testa dove aveva i piedi e riiniziando a salire. Dante crede allora di tornare verso l'Inferno, ma, mentre il maestro gli intima di reggersi forte perché quelle sono le uniche scale per allontanarsi da tanto male, essi hanno sorpassato il centro della terra e sono entrati nell'emisfero australe, cosicché la gravità è inversa e la direzione verso la quale prima si scendeva ora è in salita.

Questa scalata tramite il principio del male può anche essere letta in senso allegorico, quale condizione necessaria di conoscenza totale prima di ascendere alla purificazione del Purgatorio.

Quindi Virgilio esce attraverso il foro di una roccia e mette lì Dante a sedere sull'orlo; successivamente dirige verso Dante il suo passo accorto, probabilmente da intendere come il salto che il maestro compie "accortamente" dal vello luciferino al punto d'appoggio roccioso.

Alzando gli occhi Dante vede con sorpresa le gambe di Lucifero capovolte, ma gli ignoranti (la gente grossa) che non hanno capito il punto da lui attarversato forse lo penserebbero anche preoccupato, secondo quanto scrive il poeta stesso.

Virgilio incita Dante a ripartire subito, che la via è lunga e 'l cammino è malvagio (cioè difficile) e che è la mezza della terza (cioè la metà della terza parte del giorno tra le 6 e le 9 di mattina, quindi le 7,30 circa); il passaggio non era infatti un salotto (camminata, da camino) di palazzo, ma una caverna (burella) naturale, con il suolo irto e l'illuminazione fioca e disagevole.

2. 5. Spiegazione cosmologica di Virgilio - vv. 100-126

Canto XXXIV, Priamo della Quercia

Mentre i due riprendono il cammino Dante chiede a Virgilio se, prima di lasciare definitivamente l'Inferno, può dirimergli qualche questione: su che fine abbia fatto il ghiaccio, sul perché Satana sia conficcato sottosopra e come mai in poco tempo il sole ha fatto il tragitto dalla sera alla mattina di circa dodici ore?

Virgilio inizia la sua spiegazione dicendo a Dante che essi sono nel nuovo emisfero, non più in quello dove lui prese il pel del vermo, poiché essi hanno passato il punto al quale tendono tutti i pesi, ovvero il centro della terra. Qui è l'emisfero contrapposto a quello coperto dalle terre emerse (dalla gran secca) sotto il cui meridiano più alto nacque colui che visse senza peccati (cioè Gesù a Gerusalemme, la città che secondo la geografia dell'epoca si riteneva sotto il meridiano principale). Rispondendo allora alla prima domanda di Dante gli dice che essi ora camminano su una piccola sfera che copre l'altra faccia della Giudecca, dell'ultima zona del lago ghiacciato; riguardo alla terza domanda spiega che quando di là è notte di qua è mattino (man); e che Lucifero, infine, sta esattamente come stava prima.

Egli, quale angelo ribelle, quando cadde dal cielo sprofondò da questo emisfero a testa all'ingiù e la terra per non toccarlo si nascose sotto al mare, sporgendo tutta dall'altro emisfero; il Diavolo rimase conficcato al centro della terra e ciò che gli stava intorno, per fuggire ulteriormente, si spostò fuggendo verso l'emisfero australe, facendo il vuoto attorno al verso Lucifero è quanto mai sottolineato da questa spiegazione di come anche la terra, materia di per sé vile, fugga sdegnata dal contatto con esso.

2. 6. Risalita agli antipodi dell'inferno - vv. 127-139

Uscita dall'Inferno, Gustave Doré



Da Belzebù quindi, continua Virgilio, c'è un luogo lungo tanto quanto la tomba (la natural burella, cioè la grotta agli antipodi per la quale Dante prende a camminare poi che s'è staccato dal pelo di Lucifero), dove si riconosce un ruscelletto dal suono, non dalla vista, che sgorga da un sasso che esso ha eroso e pende un poco. In genere questi ruscelletto viene interpretato come il Letè, che sgorga nel Paradiso terrestre e che dopo aver lavato le anime del purgatorio dai ricordi delle loro colpe scorre verso il Cocito con i mali che porta, così come i fiumi infernali scorrono giù dall'altro emisfero.

Virgilio e Dante quindi attraverso quel cammino ascoso (buio, nascosto), iniziano la salita che li riporta nel chiaro mondo, senza cura di riposarsi e in fila, finché Dante non vide le cose belle / che porta il ciel da un'apertura rotonda.

« E quindi uscimmo a riveder le stelle. »
(v. 139)

Il viaggio nell'Inferno è durato 24 ore dal tramonto nella selva oscura e ne occorreranno altre 21 per risalire verso la superficie terrestre, dal mattino alla notte successiva, con l'arrivo poco prima dell'alba al monte del Purgatorio.

Si conclude l'Inferno, con la parola "stelle", che, come nelle altre due cantiche, chiude il racconto, poiché le stelle per Dante (quali sede del Paradiso) sono il naturale destino dell'uomo e della sua voglia di conoscenza, tramite il suo sforzo a salire a guardare verso l'alto. Con i riferimenti alla chiarezza e alla luce (vv. 96, 105, 118, 134), alle cose belle e alle stelle Dante inizia a presagire il Purgatorio, dove totalmente diversa sarà la tonalità della poesia.

Edited by demon quaid - 1/2/2017, 15:07
 
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