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Il Precambriano

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view post Posted on 20/5/2010, 09:12     +1   -1
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Il diavolo è sicuramente donna.

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Precambriano





È l'era più antica della storia della Terra, e, va dalle sue origini (4 miliardi e 500 milioni di anni fa), alla comparsa dei primi invertebrati con esoscheletro (542 milioni di anni fa). In termini di Anno della Terra, esso dura più o meno dal 1 gennaio al 18 novembre: dieci mesi e mezzo!!! Agli inizi le fu dato il nome di Azoica, cioè "priva di vita", perché tale si credeva fosse stata; quando invece sotto gli strati di rocce risalenti al periodo Cambriano vennero individuate tracce di vita primordiale, venne rinominata Archeozoica ("della vita remota") o Precambriana. I rarissimi fossili archeozoici appartengono a specie vegetali ed animali vissute nei mari: alghe, protozoi, celenterati, molluschi, echinodermi, artropodi.

Il Precambriano è diviso in tre periodi:

Adeano

Archeano

Algonchiano


ADEANO

(da 4,5 miliardi a 3,8 miliardi di anni fa)
Il periodo di tempo che va da quando si è formato l'ammasso gassoso da cui ha avuto origine la Terra alla sua trasformazione in un corpo solido (da 4,5 miliardi a 3,8 miliardi di anni fa) è chiamato Adeano o epoca pregeologica. In termini di Anno della Terra, esso è cominciato il 1 gennaio ed è terminato verso il 26 febbraio. Il suo nome significa "infernale", perchè esso rappresenta l'epoca durante la quale si formò la crosta terrestre, inizialmente incandescente; quindi, a quei tempi la superficie del nostro pianeta doveva apparire come un vero e proprio inferno. Questo nome venne introdotto per la prima volta nel 1972 dal geologo Preston Cloud (1912-1991), per indicare il periodo antecedente la formazione delle rocce più antiche sulla Terra.

L'Adeano è suddiviso in tre periodi: Criptico, Nettariano ed Imbriano. Il primo deriva il suo nome ("nascosto") dal fatto che non ci è pervenuta nessuna roccia terrestre né lunare risalente a quel periodo, terminato circa 4,1 miliardi di anni fa (il 2 febbraio). Di recente però sono stati ritrovati sulla Terra meteoriti le cui rocce si formarono proprio in quell'epoca, come il raro "sasso spaziale" ritrovato per puro caso il 17 gennaio 2009 da Thomas Grau, un cacciatore di meteoriti per hobby, in un campo sull'isola danese di Lolland: la sua roccia si sarebbe formata proprio 4,5 miliardi di anni fa! Gli altri due periodi invece traggono il loro nome rispettivamente dal Mare Nectaris e dal Mare Imbrium posti sulla superficie lunare, le cui rocce si sarebbero appunto formate in quei periodi (e poi pervenute fino a noi perchè sulla Luna non vi è erosione né attività geologica). L'esistenza stessa di questo periodo non è però riconosciuta dalla Commissione Internazionale di Stratigrafia (ICS), per la quale il Precambriano è diviso solo in Archeano e Algonchiano.

Lo sviluppo della crosta terrestre

Su questo processo lento e decisivo per la nostra storia non si hanno ancora certezze; si ritiene tuttavia che gli elementi pesanti, come il ferro, andarono a depositarsi al centro a causa della forza di gravità, mentre gli elementi più leggeri, i silicati, formarono un oceano incandescente alla superficie. Dopo circa 500 milioni di anni dalla nascita della Terra (il 10 febbraio), il paesaggio incandescente iniziò a raffreddarsi: la dissipazione di calore nello spazio diede inizio al raffreddamento del nostro pianeta, e nell'oceano di magma cominciarono a comparire lembi di rocce formate da minerali ad alto punto di fusione, una sorta di zattere roventi ma solide simili alla crosta sottile che vediamo formarsi alla superficie di una colata di lava, mentre questa sta ancora fluendo dal cratere. In quei tempi la Luna, ancora rovente, distava dalla Terra solo 16.000 Km contro i 384.000 attuali, per cui doveva invadere gran parte del cielo, dal quale meteoriti o addirittura piccoli protopianeti dovevano continuare ad abbattersi nell'oceano incandescente: un vero paesaggio da incubo!

Poi, l'abbassamento della temperatura al di sotto dei 1000 gradi consentì il consolidamento delle zone con temperature più basse che, divenute più stabili, avviarono la costruzione della futura crosta terrestre. Ma quei primissimi frammenti di crosta dovevano essere anche molto instabili, e dovevano venir facilmente riassorbiti dalla massa liquida e rifusi in profondità. Solo con l'ulteriore raffreddamento del pianeta, quei frammenti devono essere diventati abbastanza numerosi e grandi da formare un primo involucro solido, cioè una vera crosta primitiva. Quella prima crosta doveva apparire come una distesa di rocce caldissime (qualche centinaio di gradi Celsius), interrotta da numerose grandi fratture, dalle quali continuavano a risalire enormi quantità di magma. Inoltre il pianeta Terra, nel corso dell' Adeano, fu interessato da un evento particolarmente distruttivo chiamato « grande bombardamento tardivo »: circa 3,9 miliardi di anni fa (il 18 febbraio) asteroidi di grandi dimensioni bombardarono il pianeta con una potenza incredibile, per via del fatto che in quell'epoca il giovane sistema solare era ancora molto affollato da piccoli oggetti, ed in virtù della forza di gravità i corpi maggiori andavano "ripulendo" le loro orbite da tutti i "sassi" spaziali che fino a quel periodo le infestavano. Questo attivissimo bombardamento meteoritico doveva aprire continuamente nuove lacerazioni nella crosta, subito invase dal magma. Le tracce di quell'intenso bombardamento meteoritico, protrattosi per almeno 700-800 milioni di anni, sono state quasi totalmente cancellate sulla Terra dall'erosione da parte degli agenti atmosferici, ma sono invece perfettamente conservate sulla Luna e su molti altri corpi del Sistema Solare, la cui evoluzione si è arrestata da lunghissimo tempo, sotto forma di crateri da impatto, a volte colmati di lava.

La crosta primitiva doveva essere simile al basalto, una roccia vulcanica scura, con meno del 53 % in peso di SiO2, che si forma a spese del mantello, ma rispetto al quale ha una natura differente. Le rocce più antiche trovate sulla Luna, vecchie di circa 4 miliardi di anni, sono infatti proprio dei basalti ad alto contenuto in alluminio.

L'atmosfera primordiale

Dalle rocce incandescenti e dal mantello terrestre, soprattutto per opera dell'attività vulcanica, si sprigionavano ammoniaca, idrogeno, biossido di carbonio, metano, vapore acqueo ed altri elementi che, nel giro di 100 milioni di anni, gradualmente formarono l'atmosfera primordiale. Essa era molto simile a quella attualmente visibile su Titano, il maggiore dei satelliti di Saturno, così come ce lo ha rivelato la missione Cassini-Huygens nel gennaio 2005, ed in ogni caso estremamente tossica per la vita che conosciamo ai nostri giorni.

Il processo di raffreddamento e consolidamento della superficie terrestre doveva essere accompagnato, come avviene tuttora nei vulcani, da un forte degasamento: così l'atmosfera si arricchì di metano (CH4), idrogeno (H2), azoto (N2) e vapore acqueo con tracce dl gas nobili e anidride carbonica. Insomma, l'intensa attività vulcanica della Terra bambina portò in superficie gli elementi leggeri, ma non tutti: grandi quantità di gas come elio ed argo, che tendono ad essere emessi durante il vulcanismo, rimasero intrappolate nelle viscere della Terra. Che cosa fece esalare al pianeta il suo "ultimo respiro"? La questione è controversa. L'opinione prevalente è quella che una porzione del mantello inferiore non si fuse mai, conservando la sua composizione primordiale. Tuttavia un team di scienziati della Rice University di Houston ha avanzato una nuova proposta: la terra di 4 miliardi di anni fa era molto più calda di quella attuale, e le particolari condizioni geofisiche determinarono una "trappola di densità" circa 400 Km sotto la superficie. Calore e pressione diedero così vita a una rarità geofisica, un'area in cui i liquidi erano... più densi dei solidi! Quindi, invece di salire in superficie dando vita a vulcani, come avviene oggi, essi cristallizzarono e affondarono assieme ai gas che contenevano. Un'ipotesi suggestiva, che attende ancora conferme. In ogni caso, comunque, la scarsa gravità liberò la Terra dal guscio di idrogeno, molto leggero, che invece fa da involucro ai pianeti gioviani, gli altri gas e vapori andavano invece concentrandosi; il vapore acqueo non arrivava però ancora a condensarsi, a causa delle temperature superficiali ancora molto elevate.

C'è però da tener conto che il campo magnetico terrestre un tempo era ben diverso da quello attuale. Secondo quanto studiato da alcuni scienziati dell'Università di Rochester e dell'Università del KwaZulu-Natal, tre miliardi e mezzo di anni fa esso aveva un'intensità pari alla metà di quello odierno, e ciò aveva fortissimi impatti sulla Terra primordiale. Infatti a quel tempo anche la nostra stella emetteva potentissimi venti solari, i quali probabilmente hanno "strappato" una notevole quantità di acqua dall'atmosfera del pianeta. Le prove? Il KwaZulu-Natal è una regione del Sudafrica particolarmente ricca di rocce ignee risalenti a oltre tre miliardi di anni fa, nelle quali sono contenuti piccoli cristalli di quarzo. Dentro di essi si possono rilevare minuscole inclusioni di materiali magnetici che conservavano tracce "congelate" del campo magnetico che esisteva al tempo della loro formazione. « Un campo magnetico più debole implica che il flusso di particelle solari raggiungeva molto più facilmente la Terra », ha spiegato John Tarduno, geofisico della Rochester University. « È estremamente probabile che i venti solari abbiano rimosso dall'atmosfera molecole volatili, come quelle di idrogeno, a un tasso molto più elevato di quello odierno. » E naturalmente la perdita di idrogeno implica anche una perdita di acqua, che perciò è presente attualmente sul nostro pianeta in quantità decisamente inferiori a quelle di un tempo.

Il vento solare è in grado di strappare a un pianeta la sua atmosfera, irradiandone così la superficie con radiazioni letali: Marte rappresenta il tipico esempio di un pianeta che ha verosimilmente perso molto presto la sua magnetosfera, permettendo alla radiazione solare di eroderne l'atmosfera. « C'è una forte correlazione fra l'età di una stella di tipo solare e la quantità di materia che viene asportata dai suoi venti », ha continuato Eric Mamajek, che ha partecipato allo studio. « Possiamo ipotizzare che, quando il Sole aveva l'età di un solo miliardo di anni, esso stesso perdeva materiale a una velocità cento volte superiore a quella che si osserva adesso, perciò il vento solare era almeno di un paio di ordini di grandezza più intenso. Con una magnetosfera più debole il punto di equilibrio far i due campi magnetici, la cosiddetta magnetopausa, si trovava probabilmente a meno di cinque raggi terrestri dal pianeta, ossia a meno della metà della distanza odierna, che è di 10,7 raggi terrestri ». La perdita di acqua doveva essere resa più elevata anche dal fatto che l'atmosfera terrestre era anche molto più ricca di vapore acqueo. In conseguenza di ciò in una normale notte di 3,5 miliardi di anni fa doveva essere possibile assistere a spettacolari aurore boreali molto più a sud di oggi, fino alla latitudine della nostra Italia!

La formazione degli oceani

Nello stesso tempo, sulla superficie cominciò a manifestarsi un'altra imponente serie di eventi, che portarono alla formazione delle rocce sedimentarie, attraverso processi di erosione, trasporto e accumulo. Tali processi divennero pienamente attivi non appena la superficie si raffreddò abbastanza da permettere l'instaurarsi del ciclo dell'acqua. Infatti la Terra primitiva rimase a lungo avvolta dalle tenebre, sotto una spessa cappa di dense nubi ardenti formate dal vapore acqueo continuamente riversato nell'atmosfera dalle esalazioni vulcaniche; quando la temperatura scese abbastanza, le nubi cominciarono a sciogliersi in pioggia, e l'atmosfera primordiale diede vita a tempeste di inimmaginabili proporzioni, sotto le quali la Terra gemeva e ribolliva. In un primo tempo, abbattendosi sulle rocce incandescenti, la pioggia svaporava, ma con il graduale raffreddamento della crosta solida l'evaporazione andò diminuendo finché l'acqua poté condensare nelle zone più depresse della superficie terrestre, formando i primi oceani, mentre gli altopiani rocciosi formarono i continenti. Su di essi si costituirono anche i primi reticoli fluviali, che trasportavano i detriti strappati alle zone più elevate e li riversavano sul fondo dei mari primordiali. Il metamorfismo e la rifusione dei prodotti dell'erosione, accompagnata da un certo punto in poi dal metamorfismo e dalla fusione di grossi spessori di sedimenti, produsse ulteriori magmi e lave sempre più ricchi in silice, e quindi di composizione differente rispetto a quella del mantello e della crosta primitiva. E così si sono formati magmi sempre più simili per composizione ai graniti, e perciò in grado di dare origine a rocce più leggere dei basalti, tanto da... « galleggiare » su questi ultimi.

A poco a poco il nostro pianeta assunse un aspetto a noi più familiare, con una zona gassosa ricca di nubi detta atmosfera, una liquida con oceani, laghi e fiumi, detta idrosfera, ed una solida indicata con il nome di litosfera, con i primi abbozzi di quelli che diventeranno i futuri continenti.

Un dono del cielo?

Spesso chi sulla Terra trova metalli preziosi e rari come oro, platino, palladio, iridio e simili li definisce un "dono del cielo". Ebbene, quest'affermazione potrebbe essere più veritiera di quanto non si pensi, se ha ragione l'astrofisico tedesco Gerhard Schmidt, dell'Università Johannes Gutenberg di Mainz. Questi ha infatti ipotizzato nel settembre 2008 che essi ci sono arrivati dentro a veri e propri scrigni cosmici vaganti nello spazio extraterrestre: i meteoriti metallici, un tempo molto più abbondanti di oggi, al punto che durante il grande bombardamento tardivo la loro caduta sulla Terra era pressoché continua. L'originale ipotesi è stata avanzata dopo 12 anni di ricerche sperimentali, nel corso delle quali ha studiato centinaia di siti in cui sono caduti e sono stati recuperati meteoriti grandi e piccoli, effettuando analisi quantitative delle tracce dei metalli preziosi presenti. Il metodico professore tedesco ha effettuato poi analoghe analisi su campioni di rocce provenienti dal mantello terrestre, sui frammenti di rocce lunari portate dagli astronauti delle missioni Apollo nei primi anni '70, e su meteoriti di origine marziana.

Alla fine, Schmidt si è convinto che l'oro e gli altri metalli preziosi, chiamati anche « siderofili » per la loro affinità a combinarsi col ferro, non appartengono alla storia evolutiva della Terra, ma hanno un'« origine cosmochimica », nel senso che si sono formati in quel più vasto crogiolo naturale degli elementi che è rappresentato dallo spazio cosmico. Per rifornire la Terra delle quantità di metalli preziosi che oggi vi si riscontrano, secondo Schmidt sarebbero stati sufficienti circa 160 asteroidi metallici del diametro di 20 km ciascuno. Dopo la formazione della Terra, quando il nostro pianeta assunse la consistenza di un corpo sferico dotato di grande massa, la sua forza gravitazionale cominciò ad attrarre gli asteroidi e gli altri corpi minori che le passavano vicini, che erano assai più abbondanti rispetto a oggi, e fra i quali vi erano meteoriti di natura metallica; e così la Terra si arricchì dei metalli preziosi che poi migrarono nella crosta terrestre attraverso vari processi di concentrazione. (secondo alcune stime oggi nella crosta terrestre esistono ancora 50.000 tonnellate di oro da estrarre). Un'ipotesi senz'altro affascinante, se venisse confermata.

Il problema del sole debole

Nel 1972, gli scienziati americani Carl Sagan (1934-1996) e George Mullen formularono una celebre teoria oggi nota come "paradosso del debole sole primordiale" (FYSP, Faint Young Sun Paradox), secondo cui il clima della Terra è rimasto pressoché costante durante oltre tre dei 4,5 miliardi di anni di vita del pianeta, nonostante il fatto che la radiazione della nostra stella abbia subito un incremento del 25-30 %. In base a questo dato, durante il suo fragile periodo iniziale la superficie della Terra avrebbe dovuto essere del tutto ricoperta di ghiaccio, visto che i raggi del sole erano molto più deboli di quanto siano oggi, circostanza che invece dagli studi geologici non risulta di sicuro. Una risposta plausibile fu proposta nel 1993 dal fisico dell'atmosfera James Kasting (1953-vivente), della Pennsylvania State University, il quale propose che il 30 % dell'atmosfera terrestre di quattro miliardi di anni fa fosse costituita da CO2. Questa grande quantità di gas serra avrebbe costituito uno strato protettivo nei confronti del pianeta, prevenendo così il congelamento degli oceani.

Nel 2010 tuttavia Christian Bjerrum, del Dipartimento di Geografia e Geologia dell'Università di Copenhagen, e Minik Rosing, del Museo di Storia Naturale della Danimarca, insieme con alcuno colleghi della Stanford University in California, hanno annunciato di aver scoperto la vera ragione del "ghiaccio mancante", dopo aver analizzato campioni di rocce risalenti a 3,8 miliardi di anni fa provenienti da uno dei siti geologici più antichi del pianeta, quello di Isua in Groenlandia. « Ciò che impedì un'era glaciale in quei tempi remoti non fu l'alta concentrazione di CO2 in atmosfera, ma il fatto che lo strato di nubi era molto più sottile di quanto sia oggi », ha spiegato Rosing sulla rivista Nature. « Inoltre la superficie terrestre era ricoperta da acqua. Ciò significa che i raggi del Sole potevano scaldare gli oceani senza ostacoli, e che essi avrebbero poi restituito il calore gradualmente, impedendo alla superficie terrestre di ghiacciare ». La mancanza di nubi può essere spiegata con il processo grazie al quale esse si formano, il quale richiede la presenza di sostanze chimiche prodotte da alghe e piante, sostanze che a quel tempo non esistevano. Questi processi chimici sarebbero stati in grado di formare un denso strato di nubi, che a loro volta avrebbero riflesso nel cosmo i raggi del Sole, impedendo così il riscaldamento degli oceani della Terra. Se la teoria è vera, un altro dei grandi enigmi del lontano passato del nostro pianeta può così dirsi risolto.

L'enigma degli zirconi australiani

Prima di procedere con l'Archeano, è bene riferire di un'importante scoperta pubblicata da John W. Valley, docente di geologia presso l'Università del Wisconsin, che ha trascorso molti anni a studiare le formazioni rocciose più antiche dell'intero pianeta Terra: le rocce sedimentarie delle Jack Hills, in Australia Occidentale 800 Km a nord di Perth, la più isolata delle grandi città australiane. Queste rocce hanno la bellezza di 4,4 miliardi di anni di età (risalgono dunque addirittura al 9 gennaio dell'Anno della Terra!), e contengono minuscoli cristalli di zircone (ZrSiO4), facilmente databili perchè a volte gli atomi di uranio si sostituiscono nella struttura cristallina a quelli di altri elementi e, confrontando la percentuale di uranio e di piombo nella miscela naturale e negli zirconi, è possibile determinare la loro età con uno scarto massimo di 40 milioni di anni (per rocce così antiche è pochissimo).

Come riferisce l'autore sul numero di dicembre 2005 di "Le Scienze", edizione italiana di "Scientific American", questi zirconi sono in grado di intrappolare il più antico ossigeno della Terra, ed usando il rapporto tra i diversi isotopi dell'ossigeno si può stimare a quale profondità nel mantello terrestre le rocce si sono formate, giacché esso dipende dalla temperatura di formazione delle rocce. Il rapporto isotopico tra O16 ed O18 (quest'ultimo raro in natura) è ad esempio perfettamente conosciuto per il mantello terrestre. Rapportando tale rapporto isotopico all'acqua di mare (per cui si assume il valore zero), quello del mantello terrestre è pari a 5,3. Dunque, se gli zirconi si sono formati dentro rocce antichissime rifuse dentro il mantello terrestre in seguito a subduzione, anche in essi si dovrebbe registrare questo valore. Invece, stime accuratissime hanno fornito il sorprendente valore di 7,4. Questo è tipicamente il valore che si riscontra in rocce a bassa temperatura, presenti sulla superficie della Terra, che reagiscono con la pioggia o con l'acqua dell'oceano acquisendo un alto rapporto isotopico tra O16 ed O18. Dunque esso richiede la presenza sulla superficie terrestre di acqua allo stato liquido e basse temperature; nessun altro processo conosciuto è in grado di fare altrettanto. In pratica, questi zirconi australiani verrebbero a dirci che, appena 100 milioni di anni (una settimana dell'Anno della Terra) dopo la formazione del nostro pianeta, su di esso esistevano già le condizioni adatte all'instaurarsi del ciclo dell'acqua. Tanto più che la maggior parte dei cristalli di zircone delle Jack Hills presentano superfici arrotondate e prive di spigoli vivi, come se il vento le avesse trascinate a lungo sulla superficie di un continente solido. Ad avvalorare queste tesi contribuiscono le pubblicazioni di Mark Harrison, professore di geochimica all'Ucla (University of California Los Angeles), il quale ha stabilito che gli zirconi australiani si sono formati in una zona in cui il flusso di calore era di 75 milliWatt per metro quadro, di gran lunga inferiore a 200-300 milliWatt al metro quadro previsto per quel periodo geologico. L'unico ambiente possibile per la formazione di zirconi con un flusso di calore così basso è quello della zona di collisione tra placche tettoniche, grazie anche a temperature di fusione inferiori dovute alla grande presenza di acqua nelle rocce. Finora, come si è detto, si era sempre creduto che l'Adeano (come il suo stesso nome attesta) fosse un periodo assolutamente privo di crosta terrestre allo stato solido e di acqua allo stato liquido; incredibilmente, i minuscoli zirconi australiani (pochi decimi di millimetro di dimensione) testimonierebbero un ambiente primordiale assai più temperato, caratterizzato da vaste estensioni di acqua liquida (oceani o almeno mari) e rocce già solidificate, quindi un ambiente molto diverso da un pianeta infernale di vulcani, colate di lava e rocce bollenti; ed in esso la vita potrebbe essere nata molto prima di quanto noi ci aspettiamo. Incredibilmente, le pietruzze studiate dal professor Valley potrebbero essere i resti fossili del più antico continente della storia!

Naturalmente le domande che restano aperte sono tante. Com'è possibile che questi cristalli, pur avendo viaggiato per centinaia di chilometri sospinti dal vento, siano ancor oggi concentrati in una regione così ristretta? E come hanno evitato di essere seppelliti e fusi all'interno del mantello terrestre, prima che la crosta continentale fosse abbastanza stabile? Inoltre la parte interna dei cristalli di zircone sembra avere 4,3 miliardi di anni, mentre quella più esterna sembra averne 3,7 (risale cioè al 30 marzo dell'Anno della Terra). È normale che uno zircone diventi via via più giovane mano a mano che ci si sposta verso l'esterno, perchè questi cristalli crescono per accrezione, come le perle dentro un'ostrica. Ma il fatto che le età del centro e del bordo degli zirconi siano concentrate in questi due periodi topici sembra indicare la presenza di due eventi distinti nella loro storia, separati da un lungo intervallo di tempo e concentrati attorno a queste due date. Ma quali eventi? Negli zirconi più giovani questa differenza di età è solitamente dovuta a processi tettonici nei quali si ha la fusione della crosta continentale ed il "riciclaggio" degli zirconi in essa contenuti. Si sta lavorando per capire se anche gli zirconi delle Jack Hills hanno avuto un simile destino. Inoltre, le scoperte di zirconi analoghi a questi si sono moltiplicate in varie zone dell'Australia; si lavora sperando di trovare anche fuori dall'Australia degli zirconi più vecchi di 4 miliardi di anni.

Le teorie di John Valley potrebbero essere avvalorate da un ulteriore studio, condotto presso l'Università del Colorado a Boulder e pubblicato su Nature. Già si è detto che, nel corso dell' Adeano, il pianeta Terra fu interessato da un bombardamento meteoritico senza precedenti, che secondo tutti gli scienziati sarebbe sufficiente per estinguere ogni forma di vita dal pianeta, se si ripetesse oggi (grazie a Dio è impossibile). Le nuove ricerche però mostrano che il calore sviluppato dal grande bombardamento tardivo riuscì a fondere meno dal 25 % della crosta terrestre, e dunque, se fossero già comparsi, alcuni microrganismi avrebbero potuto sopravvivere negli habitat presenti al di sotto della superficie, protetti dalla distruzione venuta dal cielo.

Anzi, le condizioni prodotte dal bombardamento potrebbero aver favorito la vita di eventuali batteri termofili, cioè di microrganismi simili a quelli che si trovano ora nelle sorgenti idrotermali a temperature tra 80 e 110 gradi Celsius. « Questi risultati retrodatano il possibile inizio della vita sulla Terra a prima di 3,9 miliardi di anni fa », ha spiegato Oleg Abramov, uno degli autori della ricerca, « e suggeriscono che la vita possa aver avuto origine già 4,4 miliardi di anni fa, all'epoca della formazione degli oceani ». Un'altra ipotesi veramente accattivante: davvero quelle minuscole "capsule del tempo" fatte di zircone potrebbero rivoluzionare la geologia e la paleontologia del ventunesimo secolo.

ARCHEANO

(da 3,8 miliardi a 1,6 miliardi di anni fa)

Al periodo Archeano ("antico") risalgono le formazioni rocciose più antiche oggi superstiti sulla Terra, e proprio la scarsità di testimonianze rende incerta la nostra conoscenza di questo periodo, il quale copre l'arco di tempo che va da 3,8 miliardi a 1,6 miliardi di anni fa; in termini di Anno della Terra, esso è cominciato il 26 febbraio ed è terminato il mattino del 24 agosto. Sei mesi, dunque: la metà del nostro Anno della Terra. Con molta fantasia, esso è stato diviso in Eoarcheano, Paleoarcheano, Mesoarcheano e Neoarcheano; un tempo invece era suddiviso in Ontariano ed Huroniano. Molto discussa è l'ulteriore suddivisione di questi in sottoperiodi.

I cratoni e i protocontinenti

Al principio di quest'epoca il nostro pianeta aveva già una crosta solida, in cui si distinguevano ampie aree depresse, coperte dagli oceani, e alcuni settori emersi, in cui lo spessore della crosta era andato aumentando per il formarsi e accumularsi di rocce simili al granito. Oltre che in Australia e in Groenlandia, dove affiorano le più antiche testimonianza di quelle lontane fasi di evoluzione della Terra, rocce di età compresa tra i 3,4 e i 3 miliardi di anni, di origine sedimentaria, sono state trovate in Sudafrica, e rocce analoghe per natura ed età sono state riconosciute anche in Africa, in Siberia e nel Sudamerica. Si tratta delle aree note come scudi o cratoni, che comprendono i frammenti più antichi dei continenti attuali, di difficile interpretazione perché consistono di complesse successioni di rocce metamorfiche che sono state in molti casi intruse da grandi corpi ignei nel rincorrersi delle ere geologiche.

Durante l'Archeano sono stati ritrovati i resti delle primissime orogenesi, che hanno formato imponenti caene montuose, da tempo totalmente spianate dall'erosione; rimangono solo le rocce dei loro nuclei, profondamente metamorfosate. Si sono riconosciute rocce di origine desertica ed estesi depositi morenici distribuiti in molti punti del globo, testimonianze di profondi mutamenti climatici su scala mondiale, analoghi a quelli messi in luce, con molti più dettagli, per età più recenti. In alcuni scudi, tra le rocce di antiche orogenesi, compaiono le ofioliti o rocce verdi, cioè resti di crosta oceanica: questo significa che già da allora i bacini oceanici si aprivano e si richiudevano, mentre i continenti si allontanavano o si avvicinavano, come accade tuttora in seguito alla deriva dei continenti, e come si è detto nell'approfondimento a parte.

Al principio dell'Archeano risalgono i primissimi indizi dell'esistenza di continenti emersi. Si pensa che il più antico in assoluto sia il continente di Vaalbara, il cui nome deriverebbe da quelli della regione sudafricana del Kaapvaal e dell'area di Pilbara (Australia Occidentale), in cui si trovano ancora racchiuse come reliquie le loro antichissime rocce: Vaalbara sarebbe già esistito circa 3,3 miliardi di anni fa (l'8 aprile dell'Anno della Terra). Poco dopo di esso è attestata la formazione del continente di Ur, il cui nome nulla ha a che fare con la biblica patria di Abramo, ma deriva dal tedesco Urkontinent ("continente ancestrale"), e che sarebbe emerso circa 3 miliardi di anni fa (il 2 maggio). Ma come essi si sono formati esattamente? Un'ipotesi è che essi siano nati per accrezione, cioè per sovrapposizione successiva delle cosiddette "Cinture di Greenstone" (Greenstone Belt), che a partire dagli anni settanta sono state interpretale dalla maggior parte dei geologi come antichissimi archi di isole vulcaniche formatisi lungo i margini delle placche tettoniche in collisione, e successivamente diventati parte degli attuali continenti. Infatti, quando un oceano si chiude, la crosta oceanica più pesante si immerge nel mantello scivolando sotto la crosta oceanica, e formando profonde fosse di subduzione: è ciò che accade alla Placca di Nazca, che sta scivolando sotto la Placca Sudamericana dando vita all'imponente sistema montuoso delle Ande: questo scontro ha tra l'altro provocato il catastrofico terremoto di 8,8 gradi Richter che il 27 febbraio 2010 ha colpito il Cile. La fusione della crosta basaltica scivolata in profondità provoca la riemersione di magma, che dà vita a grandi archi vulcanici lungo il margine di una fossa oceanica: in questo modo si sono formate le isole giapponesi, parallele alla profonda fossa del Giappone siccome il fondo del Pacifico sta scivolando sotto la placca asiatica. Quando l'oceano si chiude, le isole così formate non vengono trascinate nel mantello insieme al resto delta crosta, ma vanno a scontrarsi contro la placca continentale già esistente e si uniscono ad essa. Questo è il caso del cosiddetto "continente di Avalonia", un arco insulare esistente nel Paleozoico nell'Oceano Giapeto, il precursore dell'attuale Oceano Atlantico; quando esso si chiuse dando vita al supercontinente Pangea, Avalonia venne schiacciato contro Nordamerica ed Europa, ed oggi le sue rocce costituiscono parte del New England, dell'isola di Terranova, dell'Irlanda, l'Inghilterra ed il Galles, il Belgio, i Paesi Bassi, la Germania settentrionale e la Polonia nordoccidentale (come si vede, dopo l'apertura dell'Oceano Atlantico parte di Avalonia restò su una delle sue sponde e parte sull'altra).

Secondo alcuni però questo modello di crescita continentale non spiega tutte le caratteristiche geologiche osservate nelle formazioni sudafricane e australiane che sarebbero appartenute ai continenti di Vaalbara e di Ur. Infatti Andrew Y. Glikson, dell'Australian National University di Canberra, ha scoperto che i segmenti più antichi delle Greenstone Belt di queste aree, di età compresa tra i 3,5 e i 3 miliardi di anni, sembravano accumulati verticalmente, come se strati di materiale eroso si fossero depositati a più riprese tra masse di magma granitico deformate dalle forze provenienti dal mantello, e non orizzontalmente, come dovrebbero presentarsi le formazioni geologiche che presentano i segni tipici delta subduzione. Come spiegare tutto ciò?

I continenti ebbero un'origine violenta?

Nel 1986, durante una spedizione sulle Barberton Mountains, in Sudafrica, i geologi statunitensi Donald R. Lowe, della Stanford University, e Gary R. Byerly, della Louisiana State University, scoprirono uno strato sottile di antichi sedimenti marini contenente migliaia di microscopiche sfere cave, fatte di un materiale simile al vetro. Esse potevano avere una sola origine: l'impatto con la Terra di un asteroide colossale, avvenuto 3,4 miliardi di anni fa. L'incredibile calore dell'impatto non solo fuse, ma addirittura vaporizzò la roccia, che fu dispersa dal vento su tutto il globo. Raffreddandosi repentinamente, il vapore di roccia solidificò così rapidamente da dar vita a forme prive di struttura cristallina, della consistenza appunto del vetro e dalla forma di piccole gocce: esse sono chiamate sferule da impatto o tectiti. In seguito Bruce M. Simonson dell'Oberlin College (Ohio) scoprì dei depositi di sferule a Pilbara e li mise in relazione con quelli trovati da Lowe e Byerly, dato che la catastrofe le dovette distribuire su tutto il pianeta, ma queste risalivano a 2,5 miliardi di anni. Ciò significava che la Terra era stata colpita da enormi sassi di origine spaziale (oggi sappiamo che gli impatti dovettero essere almeno nove) durante tutto il corso dell'Archeano. In base alla composizione delle tectiti, ricche di magnesio e di ferro, Lowe e Byerly dedussero che molto probabilmente gli asteroidi erano decisamente grandi, tra 20 e 50 chilometri di diametro, e colpirono la roccia densa di un bacino oceanico, assai lontano dalle aree dove poi le sferule si depositarono. I segni di maremoti planetari che accompagnano ogni deposito di sferule hanno rafforzalo l'ipotesi secondo cui gli impatti avvennero in mare, e non sulla terraferma.

Ora, Andrew Glikson si e convinto che alcuni impatti con oggetti extraterrestri abbiano addirittura contribuito alla formazione dei primissimi continenti, a partire da quelli i cui resti sono conservati come reliquie dentro le rocce del Sudafrica e dell'Australia Occidentale. Egli infatti ha notalo che l'epoca di questi impatti coincide con la formazione nelle rocce del Pilbara di un gran numero di massi spigolosi, con blocchi larghi fino a 250 metri: essi sarebbero il risultato del sollevamento e del successivo collasso delta superficie terrestre in seguito all'impatto con un grande asteroide. Le dimensioni stimate di quest'ultimo hanno suggerito a Glikson un possibile ruolo degli asteroidi archeanici nella formazione dei protocontinenti, visto che l'epoca di questi impatti coinciderebbe proprio con l'emersione di queste aree al di sopra del livello del mare. Inoltre le rocce formatesi prima degli impatti consistono in spessi strati di crosta oceanica e in sedimenti che normalmente si formano sul fondo marino, mentre durante il periodo degli impatti questi strati basaltici sono deformati, sollevati ed erosi: il tipo di trasformazioni che si possono associare facilmente all'impatto con un oggetto extraterrestre. Tutte le rocce formatesi successivamente agli impatti, invece, risultano composte dai resti erosi di rocce che si potevano formare soltanto sulla terraferma. Questo cambiamento fa pensare che, poco dopo gli impatti, grandi forze dall'interno del mantello abbiano sollevato la crosta al di sopra della superficie del mare, formando graniti e altri tipi di crosta continentale che poi sono stati erosi.

Ma non basta: Glikson ha suggerito che potrebbero essere stati proprio gli asteroidi a causare quei sollevamenti. Egli ha infatti analizzato le grandi intrusioni di magmi granitici risalenti a circa 3,2 miliardi di anni fa, presenti sia nel Pilbara che nelle Barberton Mountains. La vicinanza temporale degli impatti e della formazione del magma secondo lui non sarebbe una coincidenza: sarebbe stata la forza distruttiva di impatti ad alterare i movimenti convettivi del mantello, dando origine a nuovi pennacchi caldi di magma che riscaldarono e modificarono la crosta, come testimoniano le intrusioni di magmi granitici. La plausibilità dell'ipotesi dipende sostanzialmente dalle dimensioni degli asteroidi considerate. Se confrontato con le dimensioni della Terra, un asteroide delle stesse dimensioni di quello che si pensa abbia causato l'estinzione dei dinosauri (10 o 15 Km di diametro) sarebbe stato « poco più che un moscerino sul parabrezza », come ha commentato Simonson. Dimensioni doppie però potevano produrre effetti più devastanti, e secondo Jay Melosh, geofisico della Purdue University, un asteroide di almeno 50 chilometri di diametro poteva effettivamente alterare i flussi di calore interni alla Terra. Basandosi su simulazioni al computer, Melosh è riuscito a descrivere le conseguenze sulla geologia terrestre di un bolide del genere: esso si sarebbe schiantato su un bacino oceanico a circa 20 chilometri al secondo, generando non un cratere, ma genera un enorme mare di roccia fusa ampio almeno 500 chilometri. Se un simile lago di magma si fosse formalo in corrispondenza di un pennacchio, il suo intenso calore avrebbe soffocalo il pennacchio stesso, deviandolo verso le regioni circostanti: sotto la densa crosta oceanica, dove avrebbe generalo nuove isole che poi sarebbero migrate verso una zona di subduzione, contribuendo all'accrescimento di un continente, oppure sotto un protocontinente esistente di roccia poco densa, dove il suo calore sarebbe stato sufficiente a produrre nuove emissioni di magma granitico, simili a quelle rinvenute in Australia e Sudafrica, aumentando lo spessore del continente.

Lo stesso Melosh però ha avvertito che uno scenario del genere sarebbe assai difficile da dimostrare: è praticamente impossibile provare che un asteroide abbia devialo i pennacchi nel mantello, generando gli embrioni degli attuali continenti, visto che ormai i crateri lasciati dagli asteroidi dell'Archeano sono stati cancellati dall'erosione da lunghissimo tempo. Inoltre, se anche il granito delle Barberton Mountains fosse effettivamente stato prodotto da un pennacchio, è possibile che esso fosse già attivo assai prima dell'impatto. In definitiva, quella di Glikson è « un'ipotesi mollo probabile su ciò che potrebbe essere accaduto, ma è solo una delle possibili interpretazioni », ha affermato Donald Lowe. Senza dubbio comunque alcuni impatti hanno interrotto la dinamica interna della Terra, e la loro violenza potrebbe non essere stata esclusivamente distruttiva.

Antichi supercontinenti

Naturalmente, subito dopo la loro nascita, i continenti cominciarono ad andare alla deriva sul mantello fluido sottostante. I dati paleomagnetici hanno permesso di ricostruire, sia pure con molte incertezze, la posizione reciproca delle aree continentali, che nel loro vagabondare sono entrati più volte in collisione, saldandosi in un'unica vasta massa, per disarticolarsi però ben presto in nuovi frammenti alla deriva. Nel corso dell'eone Archeano abbiamo indizi dell'esistenza di almeno tre supercontinenti formatisi e disgregatisi in continuazione, ecco i loro nomi:

Kenorlandia, fra 2,7 e 2,2 miliardi di anni fa (fra il 27 maggio e il 6 luglio), che comprendeva la Laurentia (il nucleo di quello che oggi sono il Nord America e la Groenlandia), la Baltica (l'attuale Scandinavia e i paesi baltici), l'Australia occidentale e il Kalahari;

Columbia o Hudsonia, tra 1,8 ed 1,5 miliardi di anni fa (fra l'8 agosto e il 1 settembre), che comprendeva Laurentia, Baltica, Siberia, Ucraina, Amazzonia, Australia, il Nord della Cina e il Kalahari, e si estendeva per ben 13.000 km lungo l'asse nord-sud;

Rodinia (dal russo rodit, "generare"), tra 1,3 e un miliardo di anni fa (tra il 17 settembre e l'11 ottobre), centrata probabilmente a sud dell'equatore e ricoperta da vaste calotte glaciali per buona parte della sua storia.

Molte porzioni di crosta archeana racchiudono inoltre importanti giacimenti minerari di ferro, nichel, rame, cromo, oro, argento e uranio, e sono state appunto le ricerche di tali giacimenti per ovvi motivi economici a fornire molte delle informazioni su cui si basano le nostre conoscenze geologiche dell'Archeano. È significativo il fatto che all'Archeano medio o Mesoarcheano (da 3,2 a 2,8 miliardi di anni fa, cioè dal 16 aprile al 18 maggio) risale la maggior parte dei principali giacimenti di ferro, soprattutto in forma di ematite (Fe2O3). Questi giacimenti, di origine sedimentaria, corrispondono al momento della storia della Terra in cui, grazie alla comparsa di organismi in grado di realizzare la fotosintesi, cominciò a formarsi ossigeno libero che, reagendo con il ferro presente allora in soluzione nelle acque, provocò la sua precipitazione sotto forma di ossido, insolubile. Solo dopo che la maggior parte del ferro presente in soluzione fu rimosso da questo processo, cessò la formazione di tali giacimenti e cominciò ad aumentare la concentrazione di ossigeno libero nelle acque e nell'atmosfera. L'esistenza dei depositi di ferro archeani è pertanto un indice di un processo fotosintetico in atto, e quindi una prova che, al tempo della loro formazione, la vita si era abbondantemente stabilita nelle acque. Ma come?

Il mattino della vita

L'evento più straordinario della storia del nostro pianeta si compì nelle acque degli oceani dell'Eoarcheano circa 3 miliardi ed 800 milioni di anni fa (il 26 febbraio), allorché comparve il primo essere vivente unicellulare. Infatti sulla giovane Terra si instaurò assai presto un ciclo dell'acqua: le piogge trasportavano i composti venefici dell'atmosfera primigenia (CO2, CH4, NH3, H2S...) nei fiumi e quindi nel mare. Qui essi subivano grandi apporti di energia dalle scariche elettriche dei fulmini, assai frequenti in quei remotissimi acquazzoni, dai vulcani di cui la crosta solida abbondava, e forse dall'azione dei raggi ultravioletti del Sole (non vi era certo lo strato di ozono a proteggere il mondo) e dall'attività dei materiali radioattivi, certamente a quei tempi assai maggiore dell'attuale. Ciò provocò la reazione dei semplici composti sopra citati a formare molecole più complesse: gli aminoacidi, che non sono altro che le basi chimiche della vita. Infatti il citoplasma cellulare consiste di molecole di proteine, a loro volta formate da varie combinazioni di molecole di amminoacidi unite in serie fra loro, mentre il materiale genetico è formato da lunghe molecole di acidi nucleici, formati da diverse combinazioni di unità molecolari molto più semplici, i nucleotidi, anch'essi uniti in serie. Tutto questo fa comprendere come la comparsa di organismi viventi debba essere stata preceduta dalla formazione di un complesso ambiente chimico detto comunemente « brodo primordiale », e descritto come una soluzione di sostanze organiche formatesi in seguito a processi non biologici. Ma quali?

La possibilità teorica di un passaggio da quelle sostanze inorganiche ai primi composti organici fu indagata a lungo da Harold C. Urey (1893-1981), autore della teoria secondo la quale i raggi ultravioletti del Sole e le violente scariche elettriche nell'atmosfera primordiale avrebbero innescato le reazioni chimiche necessarie alla formazione del brodo primordiale. Nel 1953 un giovane collaboratore di Urey, il chimico americano Stanley L. Miller (1930-2007), in un esperimento divenuto famoso tentò la verifica di tale teoria. Nel bollitore A di vetro era contenuta dell'acqua in ebollizione grazie alla serpentina S. In O il vapore acqueo veniva arricchito di una miscela di sostanze gassose (in viola) che, secondo Urey, costituivano l'antichissima atmosfera terrestre, e cioè idrogeno, ammoniaca, metano e anidride carbonica, quindi entrava nella boccia B dove era sottoposto per alcuni giorni a una serie di piccole scariche elettriche (vedi figura sopra); al termine dell'esperimento il vapore, incanalato in T", era convogliato in un condensatore R che lo faceva tornare acqua liquida; il filtro S' intrappolava la soluzione di sostanze (in blu) formatesi nell'acqua, la cui analisi dimostrò la formazione di vari tipi di composti organici, tra cui sei amminoacidi.

Alcuni studiosi negli anni successivi misero in discussione i risultati ottenuti da Miller, sostenendo che l'atmosfera primigenia era più povera di idrogeno di quanto Miller ed Urey avevano ritenuto. Ma di recente nuovi studi fanno pensare che potrebbero essere stati i vulcani ad immettere nell'atmosfera di allora i gas necessari alla sintesi degli aminoacidi. Inoltre, nell'estate 2008 Jeffrey Bada, ricercatore alla Scripps Institutions of Oceanography a San Diego (California) e ultimo studente di Miller, che ha conservato fino ad oggi le 11 provette rimaste dal famoso esperimento del 1953, decise di analizzare di nuovo i vecchi campioni; grazie alle tecniche odierne, molto migliorate dagli anni cinquanta ad oggi, sono emersi dati molto più ricchi rispetto al passato. Bada e collaboratori hanno trovato ben 22 aminoacidi, 10 dei quali non erano stati stati individuati da Miller. Incredibilmente sembra aver avuto ragione la scrittrice Mary Shelley (1797-1851) che, nel suo romanzo horror "Frankenstein" (1818), ipotizzò che la vita sulla Terra sia stata creata dall'azione dei fulmini (tanto che il protagonista li usa per ridare vita a un cadavere)!

Successivamente, un altro gruppo di ricercatori americani trovò una via diversa per spiegare la comparsa dei primi amminoacidi: essi dimostrarono infatti che miscugli di composti organici semplici, come la formaldeide, l'ammoniaca e l'acido cianidrico, possono dare origine a famiglie di aminoacidi in seguito al riscaldamento dovuto all'impatto di meteoriti anche di piccole dimensioni, come provava il fatto di sminuzzare continuamente con una macchina apposita la sabbia cui erano miscelati i composti di partenza. L'importanza di tale scoperta risiede nel fatto che composti come quelli citati sono stati identificati nella materia interstellare e nelle comete, e quindi potrebbero essere stati gli stessi corpi celesti a trasportarli sulla Terra, dopo che si erano formati direttamente nello spazio! Che noi siamo... figli delle stelle?

La questione è ancora controversa. Certo è solo che la formazione e la diffusione di sostanze organiche deve aver richiesto milioni di anni e innumerevoli combinazioni chimiche tra le sostanze presenti sia sulla superficie terrestre, sia nelle acque calde degli oceani, alla fine delle quali gli oceani si ritrovarono ricchi del "brodo primordiale" formato da amminoacidi e nucleotidi; in che modo però all'interno di esso possano essersi formate le proteine, i virus, le cellule e quindi tutti gli esseri oggi viventi sulla Terra, è mistero fitto. Alcuni pensano che sia esistita una "molecola primigenia" su cui gli aminoacidi possono essersi innestati, dando poi vita alle proteine ed all'elica del DNA, ma una tale molecola non è mai stata individuata, e nessuno è mai riuscito a riprodurre sostanze organiche complesse in laboratorio simulando fenomeni naturali. Più di uno scienziato si è spinto ad ammettere la possibilità di un intervento soprannaturale all'origine della vita, ma in ogni caso io non prenderò posizione sull'argomento, perché questo problema esula dai compiti della scienza, e quindi dai limiti che questo ipertesto si è imposto. Mi limito a riportare il parere dello scienziato singalese Chandra Wickramasinghe (1939-vivente): « Un vento impetuoso che soffiasse su delle carcasse di aereo avrebbe più probabilità di comporre un Boeing 747 nuovo di zecca, pur partendo da questi rottami, di quante non ve ne siano di generare la vita mettendo insieme a caso gli elementi che la compongono! »

Le prime cellule

Comunque siano andate le cose, è un dato di fatto che l'RNA ed il DNA si sono formati; questi aggregarono altre proteine, bolle d'aria, molecole d'acqua ed una pellicola esterna di zuccheri e proteine. Ebbe così origine una struttura complessa cui è stato dato il nome di coacervato ("ammucchiato"): un'aggregazione sferica di molecole lipidiche che formano un'inclusione colloidale, tenute insieme da forze di natura idrofobica. I coacervati misurano da 1 a 100 micrometri, possiedono proprietà osmotiche e si formano spontaneamente in alcune soluzioni organiche diluite. Si arriva in tal modo ai protobionti, come li ha chiamati il biochimico russo Alexander Oparin (1894-1980), che negli anni trenta del secolo scorso fu tra i primi a studiare la genesi della vita. I protobionti dovevano essere organismi microscopici, forse simili ai batteri attuali del tipo cocchi, ed erano eterotrofi, cioè non erano in grado di sintetizzare in modo autonomo le sostanze nutritive organiche loro necessarie, ma si trovavano costretti ad assumerle direttamente dall'ambiente circostante. Tutto questo richiede naturalmente che l'organismo eterotrofo sia immerso costantemente in acqua o almeno in un ambiente umido, indispensabile veicolo per far penetrare quelle sostanze in soluzione attraverso una primitiva specie di membrana.

Sulla base delle tracce fossili di Fig Tree, nello Swaziland, nelle quali (vedi figura sopra) fu ritrovato il più antico microrganismo fossile conosciuto, si può inferire che, ad un solo miliardo di anni di distanza dall'origine della Terra, sulla superficie del nostro pianeta erano già comparsi i primi organismi viventi. Tutto questo fa ben sperare circa la possibilità che anche su altri pianeti si sia innescato lo stesso processo, e quindi ci incoraggia a proseguire la ricerca di forme di vita extraterrestri, a partire dagli altri pianeti del Sistema Solare.

Una questione molto dibattuta è se tutti gli organismi viventi oggi sulla Terra discendano da un unico essere o se, come sostengono alcuni scienziati, la vita è sorta da diversi antenati indipendenti. In questo caso, la vita sarebbe nata in diversi punti della superficie terrestre e in diverse epoche indipendentemente l'una dall'altra. Per risolvere la questione Douglas Theobald, un biochimico della Brandeis University di Waltham (Massachusetts), ha studiato un gruppo di 23 proteine essenziali, presenti in tutti gli organismi conosciuti, prendendo in esame veri organismi rappresentativi degli eucarioti, dei batteri e degli archea, i tre principali gruppi di esseri viventi, e analizzando i possibili percorsi che hanno portato a variazioni nella loro struttura. Tutto questo ha richiesto complesse analisi statistiche e la messa in campo di una notevolissima potenza di calcolo, ma alla fine Theobald ritiene che i suoi calcoli suffraghino in misura massiccia la teoria dell'antenato comune, che sarebbe milioni di volte più probabile della teoria che prevede più antenati indipendenti. « Ciò non esclude che la vita si sia originata indipendentemente più volte », ha osservato Theobald, « ma in tal caso nell'evoluzione vi è stato un collo di bottiglia tale da far sopravvivere fino al presente i discendenti di una sola di questi alberi della vita tra loro indipendenti. Oppure, in alternativa, popolazioni separate potrebbero essersi mescolate, scambiandosi nel corso del tempo abbastanza materiale genetico da diventare un'unica famiglia che alla fine è diventata l'antenato di tutti noi. In entrambi i casi, tutte le forme di vita sono geneticamente correlate tra loro. »

La vita è nata fra le tenebre?

Non manca però chi pensa che l'origine della vita non sia da ricercare nel tiepido "brodo primordiale" degli oceani primigeni, bensì nelle oscure e paurose profondità marine, là dove la luce del sole non giunge da miliardi di anni. In effetti, sulle terre emerse e nei mari poco profondi i luoghi rimasti da esplorare sono davvero ben pochi, mentre il 75 % della superficie terrestre coperto dagli oceani è in larga parte sconosciuto. Paradossalmente, conosciamo meglio la superficie di Marte che quelle tenebrose e fredde profondità abissali. Ebbene, nel 1977 presso le isole Galapagos di darwiniana memoria un piccolo sommergibile battezzato Alvin osservò l'esistenza di forti sorgenti idrotermali battezzate fumarole nere o black smoker. Esse si formano quando acqua a temperatura altissima (oltre i 400 °C) proveniente da sotto la crosta terrestre trova uno sbocco attraverso il fondo dell'oceano. L'acqua surriscaldata è ricca di minerali in soluzione (soprattutto solfuri, ferro, rame e zinco) provenienti dalla crosta, che cristallizzano formando intorno alle sorgenti una struttura rocciosa simile a un camino. Quando l'acqua surriscaldata viene a contatto con la freddissima acqua oceanica, molti minerali precipitano dando origine al caratteristico colore nero, da cui il nome. L'acqua emessa peraltro è estremamente acida: il suo pH può scendere fino a 2,8 (pari a quello del succo di limone). Nel novembre 2009 Bramley Murton, ricercatore del National Oceanography Centre di Southampton, ha scoperto nei Caraibi la fumarola nera più profonda del mondo, che emette acqua bollente a ritmo continuo ad oltre 5.000 metri sotto la superficie marina nella fossa delle Cayman, ed ha subito commentato che « esplorare questa zona mediante un sottomarino telecomandato è stato come vagare sulla superficie di un altro mondo ». A dispetto della chimica ostile, però, le aree che circondano simili camini brulicano di vita, per lo più estremamente esotica: ad esempio vi prospera la Riftia pachyptila, un verme gigante senza né bocca né intestino, che sopravvive grazie alla simbiosi con batteri in grado di consumare il velenoso acido solfidrico che esce dalle fumarole. Nell'Oceano Indiano è stato addirittura scoperto un gasteropode corazzato che per la sua corazza usa solfuri di ferro (pirite e greigite) invece del comune carbonato di calcio! In habitat così estremi la luce solare è completamente assente, e gli organismi che vi vivono trasformano in energia il calore, il metano e i composti solforati attraverso un processo detto chemiosintesi. Più d'uno ha dunque pensato che la vita potrebbe essere nata proprio nelle vicinanze di queste ostili bocche idrotermali, quando la superficie di terre e mari era ancora inabitabile, per poi migrare in ambienti meno ostili, dando inizio all'esplosione della vita.

Nel dicembre del 2000 alle fumarole nere si sono aggiunte quelle bianche. Infatti una spedizione che stava cartografando una montagna sommersa sul fondo dell'Oceano Atlantico, nota con l'evocativo nome di Massiccio di Atlantide, 15 chilometri a ovest della dorsale medio-oceanica e a 800 metri di profondità, scoprì una colonna di roccia bianca alta come un palazzo di venti piani che si innalzava dal fondo del mare. Quella era solo una delle tantissime strutture analoghe che pullulavano nella zona: era stata scoperta un'area ricca di sorgenti calde sottomarine che, per assonanza con la perduta Atlantide, fu battezzata Lost City (la Città Perduta), un luogo completamente diverso da ogni altro fino ad allora studiato, incluse le fumarole nere. Le osservazioni compiute nel 2003 dalla geologa Deborah S. Kelley dell'Università di Washington permisero di rivedere alcune idee molto radicate sulla chimica che potrebbe aver dato origine alla vita, e di ampliare addirittura le ipotesi sulla possibile presenza di vita fuori dal nostro pianeta. Confrontati con il rigoglioso ambiente delle fumarole nere, i camini di Lost City appaiono stranamente tranquilli: il magma della dorsale medio-atlantica è troppo lontano per riscaldare i fluidi in risalita fino alle centinaia di gradi delle fumarole nere, e le temperature lì non superano i 90° C. Inoltre le emissioni della Città Perdute non sono acide bensì basiche, con un pH tra 9 e 11, simile a quello delle soluzioni di ammoniaca normalmente in commercio. Non potendo le acque dissolvere rapidamente alte concentrazioni di metalli come ferro e zinco, qui non ci sono i pennacchi di fumo tipici delle fumarole nere, e Lost City è invece ricca di calcio, il quale dà vita ad enormi camini di calcare, dal colore incredibilmente bianco, alti fino a 60 metri, quindi più di ogni fumarola nera nota. E l'ambiente della Città Perduta è estremamente riducente. Perchè questo è così importante?

Perchè, dopo il suddetto esperimento di Stanley Miller, si è fatta strada in modo prepotente l'ipotesi che i gas riducenti abbiano avuto un ruolo fondamentale nella nascita della vita sulla Terra. Ora, il biologo inglese John Burdon Sanderson Haldane (1892-1964) negli anni venti del secolo scorso suggerì che l'atmosfera primitiva della Terra potrebbe aver avuto un'altissima concentrazione di gas riducenti (atti cioè a cedere elettroni ad altre molecole) come idrogeno, ammoniaca e metano; in questo caso, come visto, gli elementi necessari alla vita si sarebbero formati spontaneamente. Nei decenni successivi però è apparso chiaro che l'atmosfera primitiva non era così riducente come ipotizzato da Haldane, e forse le condizioni previste da Miller e collaboratori non si erano mai realizzate. I gas riducenti però abbondano proprio nei camini idrotermali di Lost City. Molte ere geologiche fa fumarole simili a queste potrebbero aver creato proprio le condizioni più adatte per la nascita della vita, laggiù, molto lontano dal calore vivificante del Sole. Sistemi idrotermali come quello potrebbero essere state le fabbriche ideali per produrre straordinarie quantità di metano, semplici composti organici come il formiato e l'acetato, e forse addirittura i primi acidi grassi, componenti essenziali della membrana cellulare di tutti gli organismi conosciuti. Molti dei microrganismi scoperti a Lost City sono infatti metanogeni, appartenenti alla famiglia dei Metanosarcina, che sopravvivono in modo del tutto indipendente dalla luce del Sole.

Lo studio dei ribosomi, gli organelli che le cellule usano per tradurre in proteine l'informazione contenuta negli acidi nucleici (DNA ed RNA), sono composti di RNA e proteine; ebbene, confrontando le sequenze dei componenti fondamentali dell'RNA ribosomiale è stato possibile costruire l'albero genealogico visibile qui sopra, nel quale sono ipotizzate le parentele tra tutte le forme di vita esistenti sulla Terra e a noi note. Ebbene, molti degli organismi che si trovano vicini alla "radice" dell'albero (ed indicati in esso in colore blu) consumano idrogeno, ed abitano le sorgenti calde in superficie o sul fondo del mare, indicando che l'antenato universale comune a tutti i viventi terrestri potrebbe aver abitato anch'esso una sorgente calda, forse in un ambiente simile a quello di Lost City. Tra l'altro, una recente scoperta ha confutato l'idea, finora ben consolidata, che gli unici esseri viventi in grado di prosperare in condizioni di anossia fossero da catalogare fra gli archea, i batteri e i virus: un gruppo di ricercatori dell'Università Politecnica delle Marche ad Ancona e del Museo di storia naturale di Copenaghen ha scoperto ben tre specie marine pluricellulari che compiono il loro intero ciclo di vita in assenza di ossigeno e circondati da nuvole di sostanze velenose come i solfuri, derivati dell'acido solfidrico. La scoperta è il risultato di tre spedizioni oceanografiche condotte fra il 1998 e il 2008, durante le quali sono stati analizzati i fondali del bacino dell'Atalante, al largo delle coste meridionali della Grecia, a una profondità di oltre 3000 metri: un bacino buio, profondo, ipersalino e anossico (la concentrazione salina dell' acqua è dieci volte superiore a quella dell'acqua di mare, quindi vicina al punto di saturazione), formatosi nel Miocene, circa 6 milioni di anni fa, quando si chiuse la comunicazione tra Atlantico e Mediterraneo e una gran quantità di sali si depositò sul fondo del Mare Nostrum, e rimasto in queste condizioni almeno negli ultimi 50.000 anni. Proprio in questo ambiente, uno dei più inospitali della Terra, sono stati individuati tre organismi (Spinoloricus, Rugiloricus e Pliciloricus) catalogati nel philum dei Loriciferi, i quali, al posto dei mitocondri, gli organelli delle cellule deputati tra l'altro a generare energia dall'ossigeno, presentano delle strutture simili agli idrogenosomi, le forme anaerobiche di mitocondri osservati in organismi unicellulari che vivono in ambienti privi di ossigeno. « La scoperta », ha dichiarato William Martin dell'Università Heinrich Heine di Düsseldorf, « ci fornisce un esempio di come poteva essere la vita nei mari e negli oceani del Pianeta 600 milioni di anni fa ». Secondo alcuni, paradossalmente, le tre specie potrebbero rappresentare il futuro della vita negli oceani, poiché vengono date in espansione le cosiddette "zone morte", aree marine profonde in cui l'ossigeno è assente o scarsissimo a causa del dilagante inquinamento. In ogni caso, i meccanismi evolutivi ed adattativi che hanno portato alla colonizzazione di simili ambienti estremi restano ancora un enigma.

I geologi hanno seri motivi per sospettare che ecosistemi come Lost City fossero comuni sulla Terra in un passato remoto, e quindi condizioni basiche e tiepide come quelle della Perduta Città potrebbero aver costituito l'incubatrice delle primissime forme di vita. Inoltre ciò rafforza la speranza di trovare vita anche fuori del nostro pianeta, in ambienti poveri di luce solare ma ricchi di acqua liquida, tiepida e basica, come Europa, la luna di Giove che sotto una spessa crosta ghiacciata potrebbe nascondere un oceano riscaldato dal forte campo gravitazionale del quinto pianeta. Ed anche nell'attuale atmosfera di Marte sono state rintracciate tracce di metano, che secondo alcuni sarebbe di origine organica, prodotto cioè da batteri come quelli di Lost City: il Mars Science Laboratory, il cui lancio è previsto nel 2011, potrà dirci qualcosa di più in proposito.

Edited by demon quaid - 28/4/2016, 19:16
 
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Il "grande evento di ossidazione"

Come si è detto, i primi esseri viventi erano eterotrofi, ma tale condizione, semplice e a prima vista molto conveniente, sarebbe risultata a lungo andare controproducente: una volta esaurite le « scorte alimentari » dell'ambiente circostante, gli eterotrofi si sarebbero infatti necessariamente estinti. Il processo evolutivo superò questo ostacolo con la realizzazione di un meccanismo di nutrizione più sofisticato: alcuni batteri primitivi (cianobatteri) diedero infatti vita ai primi organismi autotrofi, cioè capaci di sintetizzare in modo autonomo le sostanze nutritive organiche a partire da semplici sostanze inorganiche, come l'anidride carbonica e l'acqua, mediante un processo detto fotosintesi, che sfrutta direttamente l'energia della luce solare. In tal modo, con lo sviluppo degli autotrofi, gli eterotrofi hanno potuto proseguire la loro evoluzione, avendo a disposizione gli autotrofi come nutrimento. Non sappiamo come questo sia avvenuto, ma sappiamo con certezza che era già avvenuto circa 2,4 miliardi di anni fa (il 20 giugno): a quell'età risalgono infatti le rocce sedimentarie (selci) di Gunflint in Canada, nelle quali compaiono le primissime e semplici cellule procariote, cioè prive di un nucleo delimitato da una vera e propria membrana, ed il cui materiale dnatico è semplicemente contenuto nel citoplasma della cellula. Questi organismi pionieri furono le alghe verdazzurre.

La clorofilla le rendeva capaci di trasformare l'anidride carbonica, di cui l'atmosfera abbondava, in ossigeno, che esse riversarono negli oceani e nell'atmosfera. Furono proprio quelle prime, eroiche alghe unicellulari, viventi in un ambiente ostile e tenebroso, a cambiare per sempre il volto del pianeta, perché la produzione di ossigeno rese l'atmosfera respirabile, e ciò avrebbe permesso alla vita di diffondersi ovunque, invadendo tutti gli ambienti. La produzione d'ossigeno da parte di questi organismi vegetali, inoltre, cambiò la composizione degli strati gassosi che avvolgevano la crosta terrestre, formando lo strato d'ozono che ancora oggi, a dispetto delle azioni dell'uomo, protegge la Terra dalle radiazioni solari nocive alla vita. Questo notevole aumento della concentrazione di O2 libero è stato chiamato dai geologi il "grande evento di ossidazione". L'ossigeno libero permise l'evoluzione di strutture più complesse (le cosiddette cellule eucariote), con un nucleo che conteneva il materiale genetico e incorporati altri organelli che rendevano più efficiente il processo respiratorio.

Di quell'epoca remota in cui l'atmosfera era quasi priva d'ossigeno ci restano le Stromatoliti, alcune delle quali risalgono anche a 3 miliardi e 500 milioni fa: si tratta di veri e propri cuscini rocciosi formati da alghe fossili fortemente legate le une alle altre nei bassi fondali marini dove la luce solare consentiva loro la fotosintesi: come si è già detto ce ne restano delle testimonianze in Australia, presso la Shark Bay. Nonostante tutto questo, comunque, la Terra dell'Archeano appariva al più come una grande distesa deserta di acque, senza pesci né cetacei né uccelli ad animarla, dalla quale emergevano isole e protocontinenti, anch'essi senza una traccia di vegetazione sulle nude e aguzze rocce. Nella notte dei tempi, insomma, il mondo appariva come un desolato deserto, rosolato dai raggi di un sole assai più grande e caldo dell'attuale, e flagellato da violente tempeste che frantumavano le rocce vulcaniche, dando vita ai primi strati sedimentari ed alle prime arenarie. Il giorno durava solo otto ore, perchè la Terra girava su se stessa assai più rapidamente di quanto non fa ora, e la Luna era ancora molto vicina alla sua superficie, provocando accentuati effetti mareali. La scintilla della vita era confinata negli oceani, sotto forma di alghe verdazzurre, ed un esploratore alieno avventuratosi sul nostro pianeta in quell'era remota probabilmente non la avrebbe individuata senza analisi approfondite degli oceani, e se ne sarebbe andato catalogando la Terra tra i mondi aridi e disabitati, indegni di una citazione qualunque sull'Enciclopedia Galattica.

Eppure alcuni non concordano con una visione così desolante dell'eone archeano, durato ben 180 giorni del nostro Anno della Terra. Nel marzo 2006 infatti, sulla nota rivista internazionale di geoscienze « Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology » (Vol. 232, pag. 99), alcuni ricercatori del « Nordic Center for Earth Evolution » dell'Università di Copenaghen, guidati dal professor Minik Rosing, hanno pubblicato una teoria rivoluzionaria, secondo la quale i continenti primigenii si sarebbero formati circa 3,8 miliardi di anni fa (il 26 febbraio dell'Anno della Terra), non esclusivamente per effetto dei grandi processi geodinamici sopra descritti come si pensava finora, ma grazie all’energia chimica fornita dai primi microorganismi viventi. Rosing e i suoi collaboratori, che hanno già acquistato fama internazionale alcuni anni fa per avere localizzato i più antichi resti fossili di organismi fotosintetici a Isua, nella Groenlandia meridionale, affermano che « sarebbero stati proprio le alghe e i batteri fotosintetici a modificare i cicli geochimici della giovane Terra, avviando il processo di trasformazione di parte dei basalti in graniti, rocce a più bassa densità, che sono emerse formando i protocontinenti ». L’ipotesi è piuttosto ardita, sicuramente affascinante ma anche priva (almeno per ora) di alcun riscontro sul campo « L’idea è innovativa e immaginativa », hanno commentato infatti molti insigni geologi, « ma le evidenze per sostenere un così decisivo ruolo della nascente vita nella formazione dei continenti sono per ora troppo deboli ».

Ma c'è anche chi si è spinto più in là. In un articolo pubblicato su "Nature" nel 2004 William Dietrich, dell'Università della California a Berkeley, si è chiesto quale sarebbe l'aspetto della Terra se non avesse mai ospitato la vita. Dietrich ipotizza che la vita sulla Terra abbia potuto avere effetti molto più profondi del semplice cambiamento della composizione dell'atmosfera (l'immissione di ossigeno mediante la fotosintesi) e della formazione delle rocce fossilifere. « Sulla Terra, i processi descritti dalla tettonica a zolle dipendono da una zona a bassa viscosità del mantello superiore su cui le zolle possono scivolare, e si è ipotizzato che questa zona emerge dalle iniezioni di acqua in corrispondenza delle zone di subduzione. È possibile che la comparsa della vita sulla Terra abbia impedito lo sviluppo di condizioni atmosferiche favorevoli all'erosione del vento solare, mantenendo "umido" il pianeta e consentendo la dinamica della tettonica a zolle? La dinamica della Terra e una conseguenza della vita sulla Terra? »

Se l'ipotesi fosse corretta, la vita potrebbe aver salvato la Terra dal trasformarsi in un'altra Venere: accumulando milioni di tonnellate di anidride carbonica nelle loro conchiglie, innumerevoli milioni di miliardi di minuscole creature marine potrebbero aver impedito, nel corso degli eoni, un massiccio aumento di CO2 nell'atmosfera e il conseguente, incontrollabile, effetto serra, che sembra essere accaduto su Venere. Forse si potrebbe davvero considerare la Terra un pianeta "vivo", cioè un sistema biologico legato agli organismi che vivono sulla sua superficie dalla stessa relazione che lega la conchiglia alla chiocciola!

E se l'energia nucleare avesse svolto un ruolo nel passato remoto del pianeta? L'ipotesi suggestiva è stata proposta da Jay Cullen dell'Università di Victoria, nella British Columbia canadese. Tra 3 e 2,5 miliardi di anni fa l'ossigeno prodotto dai batteri presenti nelle acque delta Terra ha iniziato a raggiungere l'atmosfera, e l'uraninite o pechblenda, un minerale dell'uranio di formula chimica UO2, ha iniziato a scomparire. Secondo Cullen i due eventi sono collegati: l'ossigeno avrebbe dissolto l'uraninite, liberando uranio a sufficienza da innescare diversi reattori nucleari naturali, come quello scoperto a Oklo, in Gabon, che avrebbero fornito calore alle prime forme di vita dell'epoca. Se fosse vero, sarebbe un'incredibile riabilitazione postuma dell'energia nucleare, dopo l'ostracismo cui è stata costretta negli ultimi anni!

La taglia della vita

Prima di passare all'Algonchiano vale la pena di affrontare un problema oggi molto dibattuto tra gli studiosi. Da quando è documentata l'esistenza della vita sulla Terra, le dimensioni degli organismi viventi sono passate da quelle microscopiche dei batteri a quelle delle sequoie giganti e delle balene. Indubbiamente è stata un'evoluzione dal semplice al complesso. Quello che ha messo in evidenza però una ricerca condotta con la collaborazione di una decina di istituzioni scientifiche internazionali, tra cui la Stanford University (Palo Alto, California), è che l'incremento delle dimensioni degli organismi viventi non è stato affatto graduale, ma ha avuto due distinti scatti, durante le ere geologiche, in cui ha subito una brusca accelerazione. E questo è accaduto in corrispondenza di due incrementi dell'ossigeno libero nell'atmosfera. Questi due intervalli di tempo, in cui la vita è diventata "più grande", occupano soltanto il 20 % di tutta l'intera storia degli esseri viventi sulla Terra. La maggior parte del tempo è trascorso "mantenendo le posizioni" ma senza sostanziali accrescimenti. « Abbiamo rivisto tutte le conoscenze esistenti dai più vecchi e ancora controversi fossili di batteri nelle rocce di 3,5 miliardi di anni fa ai più grandi animali e piante di oggi », dice Michal Kowalewski dell'Università della Virginia. « È stata una vera sorpresa osservare che quasi tutti gli incrementi delle dimensioni delle specie viventi sono avvenute in due distinti intervalli di tempo che hanno seguito i due maggiori eventi in cui sulla Terra si è avuto un aumento della concentrazione di ossigeno atmosferico ». Ecco cosa è accaduto: da circa 3,5 miliardi a 2,4 miliardi di anni fa (dal 23 marzo al 20 giugno) sono stati trovati solo batteri fossili. Le massime dimensioni che i batteri possono raggiungere sono molto limitate, di conseguenza anche le massime dimensioni della vita non poterono cambiare finché non si evolsero organismi più complessi. E questo accadde appunto 2,4 miliardi di anni fa.

A quest'epoca risalgono infatti il "grande evento di ossidazione" e l'ascesa degli eucarioti. Ebbene, questi ultimi hanno potuto raggiungere dimensioni anche un milione di volte maggiori di ogni altro organismo che li aveva preceduti, passando in 200 milioni di anni da esseri invisibili a occhio nudo, quali i batteri, a esseri grandi come una moneta. La vita però languì per un altro miliardo di anni (sulla Terra erano presenti solo unicellulari), finché intorno a 540 milioni di anni fa (il 18 novembre) l'ossigeno atmosferico ebbe un ulteriore incremento raggiungendo la concentrazione di circa il 10 % rispetto a quello attuale. L'evento permise processi metabolici più efficienti: gli esseri viventi divennero pluricellulari. La loro taglia passò, in circa 100 milioni di anni da quella di una moneta a quella dei calamari giganti marini, lunghi oltre 10 metri, con un altro incremento di circa un milione di volte. E già allora si raggiunsero dimensioni delle forme viventi paragonabili sia a quelle dei dinosauri che a quelle degli esseri più grandi oggi esistenti sulla Terra: la balenottera azzurra e le sequoie giganti (la massima conosciuta misura 112,11 metri). Da allora, per quanto riguarda le dimensioni, non ci sono più stati grandi balzi. Per il futuro, i ricercatori giungono alla conclusione che gli esseri viventi sono sostanzialmente già giunti ai limiti massimi imposti dalle dimensioni stesse del pianeta, per cui è improbabile che si ingrandiranno ancora.

Il ruolo del nichel

In realtà, com'è facile intuire, gli antenati delle odierne piante avevano iniziato a produrre ossigeno grazie ai processi di fotosintesi molto prima del "grande evento di ossidazione", ma esso veniva costantemente eliminato nel corso di reazioni con le rocce e soprattutto con i gas emessi dai vulcani. Perchè invece circa 2,4 miliardi di anni fa il tasso di ossigeno nell'atmosfera subì un notevole balzo in avanti, stabilizzandosi attorno all'attuale 21 % ? Le cause di questo "balzo" non erano mai state completamente chiarite, fino alla ricerca di alcuni geologi della Carnegie Institution e dell'Università dell'Alberta di Edmonton, in Canada, guidati da Kurt Konhauser. Essi hanno scoperto che per facilitarlo è stato determinante il crollo dei livelli di nichel nelle acque marine. Come hanno spiegato in un articolo pubblicato su Nature, i ricercatori hanno analizzato gli elementi in traccia nelle rocce sedimentarie note come formazioni di ferro a bande (BIF, Banded-Iron Formations) di decine di differenti località sparse per il mondo e di età compresa i 3800 e i 550 milioni di anni (dal 26 febbraio al 17 novembre). La formazioni di ferro a bande sono depositi lasciati dall'acqua pressoché unici, che si ritrovano in strati di rocce estremamente antiche, formatesi prima che l'atmosfera terrestre e gli oceani si arricchissero di ossigeno. Come dice il loro nome, si tratta di strati alternati di ferro e silicati che contengono anche piccole quantità di nichel e di altri elementi.

Oggi il nichel è presente nelle acque degli oceani solamente in traccia, ma negli oceani primordiali esso era fino a 400 volte più abbondante. In un ambiente di questo tipo, i microrganismi produttori di metano, detti metanogeni, devono avere prosperato: a loro volta gli elevati livelli di metano in atmosfera da essi prodotti impedivano l'accumulo di ossigeno in atmosfera, reagendo con esso per dare origine a biossido di carbonio e acqua. Un crollo nella concentrazione del nichel può aver portato a uno stato di "denutrizione" i batteri metanogeni, che hanno bisogno di questo elemento per la produzione di enzimi chiave nei loro processi metabolici.

I microrganismi fotosintetici produttori di ossigeno, che sfruttano altri enzimi, sarebbero stati invece molto meno influenzati dalla diminuzione del nichel. In questo modo il livello di metano atmosferico sarebbe molto diminuito, mentre continuava l'aumento della percentuale di ossigeno. Konhauser e colleghi hanno scoperto che i livelli di nichel hanno iniziato a diminuire circa 2,7 miliardi di anni fa (il 27 maggio), e che 2,5 miliardi di anni fa (il 12 giugno) erano già ridotti alla metà del loro valore originario. "La linea temporale corrisponde perfettamente: il crollo del nichel può avere aperto al strada al grande evento di ossidazione. E, per quanto sappiamo degli organismi metanogeni, i bassi livelli di nichel devono avere drasticamente ridotto la produzione di metano", ha dichiarato Konhauser.

All'origine del crollo delle concentrazioni di nichel c'è stato probabilmente il progressivo raffreddamento del mantello terrestre, che ha determinato un cambiamento nella composizione delle lave eruttate dai vulcani e quindi dilavate negli oceani. "La concentrazione di nichel non era stata finora presa in considerazione: oggi è solo un elemento in traccia, ma i nostri studi indicano che esso ha avuto un enorme impatto sull'ambiente terrestre e sulla storia della vita", ha concluso Konhauser.

Il ruolo del molibdeno

Ma esiste anche una teoria diametralmente contraria. Secondo Clint Scott dell'università della California a Riverside, La vita animale sulla Terra sarebbe comparsa con un ritardo di due miliardi di anni a causa di una deficienza di ossigeno e di un metallo pesante, il molibdeno, nelle profondità dell'oceano. Scott e il suo gruppo di ricerca hanno raccolto dati relativi al molibdeno, un metallo oligonutriente necessario a molte forme di vita, e ai materiali organici contenuti nei campioni di argillite nera prelevata negli oceani, una roccia che, contenendo resti di questi due materiali, è preziosissima per ricostruire la storia dell'ossidazione degli oceani. Dopo la crescita dell'ossigeno nell'atmosfera, 2,4 miliardi di anni fa (il 20 giugno dell'Anno della Terra), cominciò anche l'aumento dell'ossigenazione degli oceani per supportare la domanda di questo gas da parte dei microrganismi. Tuttavia, la varietà di queste singole forme di vita monocellulari restò bassa e i loro discendenti pluricellulari non comparvero prima di 600 milioni di anni fa (il 13 novembre). Monitorando le quantità di molibdeno negli antichi sedimenti marini nel tempo, Scott ha trovato che l'intervallo fra i primi organismi monocellulari e le forme di vita più complesse è coinciso con una significativa diminuzione del molibdeno negli oceani confrontata agli alti livelli misurati oggi. Inoltre lo studio ha evidenziato che bisogna aspettare la fine del Precambriano perché le profondità degli oceani diventino più ossigenate e i cicli biochimici si stabilizzino, così da creare i presupposti per la comparsa dei primi grandi organismi pluricellulari e dare l'avvio all'evoluzione della vita sulla Terra. Una proposta davvero affascinante, che ci fa interrogare su quante variabili hanno influito davvero sull'evoluzione della vita sulla Terra.

I risultati di tutte queste ricerche sono rilevanti per gli studi sull'ambiente e sul clima odierno, in quanto ci aiutano a comprendere le interazioni fra biologia, geologia e composizione dell'atmosfera, ma hanno profonde implicazioni anche nella ricerca della vita su altri pianeti all'esterno del nostro sistema solare. Infatti l'unico modo in cui potremo cercare prove dell'esistenza di vita in luoghi così remoti è quello di cercare le "impronte digitali" di fenomeni biologici nella composizione delle loro atmosfere.

Un reattore nucleare nel Precambriano

Il 2 giugno 1972 nell’impianto nucleare francese di Pierrelatte si scoprì che alcuni campioni di minerale di uranio proveniente dalla miniera di Oklo, nel Gabon, conteneva lo 0,44 % di Uranio 235 (fissile), mentre invece il normale rapporto isotopico tra Uranio 235 e Uranio 238 riscontrabile in natura è dello 0,72 % (infatti la maggior parte dei reattori nucleari moderni richiede che l'uranio sia "arricchito" in fissile fino al 3 %. Questo anomalo rapporto isotopico, caratteristico del combustibile esausto estratto dai noccioli dei moderni reattori, può avere una sola spiegazione: l'Uranio 235 mancante era stato "bruciato" in un reattore nucleare nel lontano passato geologico della Terra.

Tale spiegazione può apparire quanto meno bizzarra, ma non è necessario ipotizzare extraterrestri intelligenti che nell'Archeano abbiano colonizzato il nostro pianeta allestendovi addirittura un reattore nucleare. Infatti l'Uranio 235 e l'Uranio 238 hanno differenti periodi di dimezzamento, rispettivamente 704 milioni e 4,47 miliardi di anni. Pertanto, visto che il 235 decade più in fretta del 238, ne consegue che la composizione isotopica dell'uranio è variabile nel tempo. Un facile calcolo rivela che circa due miliardi di anni fa (il 22 luglio dell'Anno della Terra) la percentuale di Uranio 235 era pari proprio al 3 %, ossia all'incirca quella degli odierni reattori nucleari ad acqua. A quel tempo il luogo dove oggi si trova la miniera di Oklo doveva essere ricco d'acqua, una sorta di palude che disciolse i sali di uranio (essi sono insolubile in acqua priva di ossigeno, ma evidentemente la palude pullulava di batteri ossigeno-produttori); l'acqua di palude agì da moderatore, cioè rallentò i neutroni prodotti dalle fissioni spontanee dell'Uranio 235 fino a un'energia tale da permettere loro di innescare una reazione a catena, reazione che è alla base del funzionamento di ogni moderno reattore. La prova definitiva del funzionamento del paleoreattore nucleare è stata fornita dalla scoperta, nelle rocce uranifere, di isotopi del neodimio (in particolare Neodimio 142 e Neodimio 143) e del rutenio (in particolare il Rutenio 99 e Rutenio 100), la cui abbondanza isotopica era molto vicina a quella originata dalla fissione dell'Uranio 235.

Si è scoperto così che ad Oklo sono entrati in funzione ben 17 reattori nucleari naturali, ed hanno subito fissione nucleare circa 5 tonnellate di Uranio 235, con una produzione di 6 tonnellate di prodotti di fissione e 2,5 tonnellate di Plutonio, rilasciando un'energia di circa 108 MegaWattora, vale a dire l'energia elettrica che un impianto da 1000 MegaWatt elettrici produce in oltre 11 anni di funzionamento! Probabilmente i reattori di Oklo hanno lavorato "ad intermittenza" per un periodo di tempo superiore al milione di anni: il calore sviluppato dalle reazioni provocava l'evaporazione dell'acqua che aveva funto da moderatore, interrompendo la reazione che ripartiva solo quando la riserva di acqua si era ricostituita. Successivamente è stato scoperto un altro paleoreattore nucleare a Bangombe, sempre nel Gabon, a 35 Km dal sito di Oklo.

I reattori di Oklo costituiscono un fenomeno naturale raro ed affascinante, il quale tra l'altro prova l'affidabilità del deposito geologico delle scorie nucleari in antiche miniere esauste, visto che molti prodotti delle reazioni nucleari, soprattutto quelli più pericolosi e a vita più lunga, sono rimasti praticamente immobilizzati nel sito fino ad oggi (tra l'altro il sito di Oklo non è certo ideale per il deposito geologico di scorie, a causa dell'alta porosità delle rocce e delle grandi quantità di acqua fluente, capace di sciogliere i pericolosissimi rubidio e cesio). Oggi un reattore naturale come quello di Oklo non potrebbe più assolutamente funzionare, poiché la percentuale isotopica è scesa abbondantemente sotto il livello minimo di innesco di una reazione moderata ad acqua. Tra l'altro lo studio del sito di Oklo ha di recente consentito una scoperta che, se confermata, scuoterebbe la nostra Fisica dalle fondamenta: un team di ricercatori del Los Alamos National Laboratory ha ipotizzato che la costante di struttura fine, inversamente proporzionale alla velocità della luce che è stata supposta fino ad oggi una costante immutabile della natura, avrebbe subito una riduzione; questo implicherebbe quindi che la velocità della luce avrebbe subito un’accelerazione! Solo il ventunesimo secolo potrà confermare o smentire queste rivoluzionarie ipotesi, scaturite dai resti geologici di un reattore nucleare avviatosi da solo nella notte dell'Archeano.

ALGONCHIANO

(da 1,6 miliardi a 542 milioni di anni fa)


Il periodo Algonchiano deriva il suo nome dalla tribù degli Algonchini che abitava il territorio canadese dell’Ontario, dove per la prima volta sono state studiate rocce risalenti a questo periodo. Quest'epoca è detta anche Proterozoica, cioè "della vita primitiva". Essa non è di facile datazione, ma sicuramente è durata molto a lungo, come si può dedurre dagli spessori medi delle sedimentazioni, pari a circa 20 chilometri. È divisa in tre periodi, a loro volta divisi in sottoperiodi che, come tutti quelli delle ere successive, traggono il loro nome da siti di riferimento:

Algonchiano superiore o Paleoproterozoico Algonchiano medio o Mesoproterozoico Algonchiano inferiore o Neoproterozoico
Sideriano
Calymmiano
Toniano

Rhyaciano
Ectasiano
Criogeniano

Orosiriano Steniano
Ediacarano

Statheriano



La Commissione Internazionale di Stratigrafia (ICS). sta però ancora discutendo sulla durata cronologica e sulla divisione di questi periodi. Un tempo l'Algonchiano veniva suddiviso invece in Careliano e Jotniano secondo alcuni, in Rifeano e Siniano secondo altri. In termini di Anno della Terra, esso dura più o meno dal 24 agosto alla mezzanotte del 17 novembre.

Il corrugamento Huroniano

In questo periodo la superficie della Terra fu soggetta a grandi sconvolgimenti, durante i quali si alternarono la formazione e la scomparsa di catene montuose come il corrugamento Huroniano, ormai quasi completamente cancellato dall'erosione degli agenti atmosferici, ma ancora oggi responsabile dell'esistenza dello scudo canadese e delle colline australiane. L'attività vulcanica, testimoniata da formazioni laviche di migliaia di metri di spessore, fu sicuramente meno intensa del periodo Archeano, ma tuttavia molto significativa. Le masse continentali risultanti dalla disgregazione di Rodinia si riunificarono alla fine del periodo in un nuovo supercontinente, detto Pannotia ("tutto a mezzogiorno") perchè arroccato attorno al polo sud terrestre, che però ebbe vita effimera.

Negli oceani la proliferazione degli organismi autotrofi portò ad un forte incremento di ossigeno libero, che dall'idrosfera passava all'atmosfera: secondo alcune stime, verso la fine dell'Algonchiano la concentrazione di ossigeno nell'atmosfera doveva essere tra l'1 % ed il 10% di quella attuale.

La Terra come una palla di neve

Vi sono indizi che in questo periodo geologico, 716,5 milioni di anni fa (la sera del 3 novembre dell'Anno della Terra), si sia verificata sul nostro pianeta la più forte glaciazione mai verificatasi in tutta la storia della Terra, detta glaciazione Sturtiana, che avrebbe trasformato tutti gli oceani in una colossale banchisa, e tutti i continenti in una sterminata distesa di ghiacci; a quel periodo è stato assegnato il significativo nome di Criogeniano. I sostenitori di questa teoria la definiscono "Snowball Earth", cioè "Terra a palla di neve". Essi ritengono che tale glaciazione avrebbe avuto origine dagli sconvolgimenti tettonici dovuti alla transizione tra Rodinia e Pannotia: dalle rift valley e dalle dorsali oceaniche sarebbe fuoriuscita lava basaltica proveniente dal mantello terrestre, tale da ricoprire gran parte del granito che formava la superficie continentale. Ma il basalto, essendo una roccia porosa, viene eroso molto più facilmente del granito e pertanto, a parità di tempo, la quantità di basalto asportata dai fiumi è molto maggiore della corrispettiva in granito. Una volta dissolte in acqua, le componenti minerali delle rocce assorbono di norma una parte dell'anidride carbonica disciolta nell'acqua stessa; dopo essersi legati ad essa, i minerali tendono a precipitare sul fondale marino sotto forma di sedimenti. Questo fenomeno provocherebbe una carenza di anidride carbonica nelle acque marine, che verrebbe compensata dallo scioglimento in acqua di una grossa quantità di anidride carbonica proveniente dall'atmosfera: in pratica il mare la assorbirebbe come una vera e propria "spugna".

Ora, in seguito alla frantumazione di Rodinia, il consumo di anidride carbonica provocato dall'erosione del basalto sarebbe aumentato ad un livello tale da superare il quantitativo emesso nello stesso tempo dalle eruzioni vulcaniche, provocando così una netta diminuzione dell'effetto serra sul pianeta, dato che l'anidride carbonica è uno dei cosiddetti "gas serra", e quindi un generale raffreddamento delle temperature, sufficiente, secondo i calcoli, per congelare l'intero pianeta. Il ghiaccio, riflettendo la luce solare, avrebbe accelerato ulteriormente il raffreddamento del pianeta; così, più la superficie terrestre veniva coperta dal ghiaccio, più la temperatura sarebbe scesa, finché il ghiaccio sarebbe arrivato perfino all’equatore, poiché i modelli climatologici hanno previsto che se il ghiaccio marino si dovesse estendere entro 30 gradi di latitudine dall'Equatore, l’intero oceano ghiaccerebbe. La glaciazione Sturtiana sarebbe durata la bellezza di cinque milioni di anni (quasi dieci ore!).

Non tutti ritengono possibile veramente che l'intera superficie terrestre possa essersi congelata senza spazzare via per intero la vita: ad esempio, secondo Richard Peltier dell'Università di Toronto, in quel periodo anzi la concentrazione dell'anidride carbonica atmosferica sarebbe addirittura aumentata, dando impulso ad un effetto serra che avrebbe impedito alla Terra di ghiacciarsi. Tuttavia Francis Macdonald, geologo della Harvard University, e collaboratori hanno pubblicato nel marzo 2010 un articolo sulla rivista "Science", nel quale sostengono di aver trovato le prove della "palla di neve", analizzando alcune formazioni rocciose presenti nel nordovest Canada con tracce di morene glaciali: la misurazione del magnetismo e della composizione di tali rocce dimostrerebbe che al tempo della glaciazione Sturtiana esse si trovavano al livello del mare a circa 10 gradi di latitudine, quindi ai tropici.

I sostenitori della "Snowball Earth" sono a loro volta divisi tra quanti ritengono che essa abbia causato una terrificante estinzione di massa, la prima di una lunga serie, a scapito delle specie batteriche allora presenti nei mari terrestri, e quanti ritengono invece che da qualche parte sul pianeta la superficie marina doveva essere libera dai ghiacci, come suggerisce la sopravvivenza di organismi eucarioti. Secondo i primi, addirittura il 99 % delle forme di vita esistenti sulla Terra, per lo più batteri, si sarebbe estinta, mentre il restante 1 % sarebbe sopravvissuto grazie alle sorgenti calde sottomarine; secondo gli altri, invece, anche nel pieno della glaciazione Sturtiana sulla superficie terrestre erano presenti gradienti di temperatura, ed il ghiaccio marino lasciava spazio qua e là per il nascere della vita. In particolare Francis Macdonald ha affermato che « le registrazioni fossili fanno ipotizzare che tutti i maggiori gruppi eucarioti, con la possibile eccezione degli animali, esistevano già prima della glaciazione sturtiana. Anzi, forse fu proprio la glaciazione sturtiana a stimolare l'evoluzione e l'origine degli animali? Da una prospettiva evolutiva, sappiamo che per la vita sulla Terra non è negativo affrontare gravi stress. »

In uno studio pubblicato nel 2003 sulla rivista "Nature", invece, il geologo Ganqing Jiang dell'Università della California di Riverside aveva spiegato come il pianeta potrebbe essere uscito da questo periodo inospitale. Secondo Jiang, fu un forte rilascio di gas metano, e non di anidride carbonica, a innescare il meccanismo che ha consentito nuovamente il riscaldamento della Terra. Questo benedetto metano sarebbe venuto probabilmente da depositi oceanici diffusi nei sedimenti depositati in condizioni molto fredde, che sarebbero stati liberati sotto forma gassosa alla fine dell'era glaciale, riscaldando rapidamente il clima terrestre; Ganqing Jiang è convinto di averne trovato le prove dentro rocce raccolte nel sud della Cina. Del resto la sua teoria è in accordo con un'altra, proposta dai geologi Martin Kennedy e Nicholas Christie-Blick, secondo cui le caratteristiche da loro osservate in antichi sedimenti indicherebbero che proprio in quel periodo sarebbe avvenuto il più grande rilascio di metano della storia della Terra.

L'eone criptozoico

Per tutta la durata dell'Archeano e dell'Algonchiano, la vita rimase per così dire "nascosta" nei protooceani ed a livello poco più che unicellulare, per cui quest'era è detta anche l'EONE CRIPTOZOICO ("della vita nascosta"). A partire dall'inizio del periodo Algonchiano è certa sulla Terra l'esistenza di batteri eucarioti, dei quali non si hanno testimonianze fossili precedenti. Essi possedevano una pellicola intorno al materiale genetico, e quindi un vero e proprio nucleo, oltre ai vacùoli di riserva, mentre la protezione di lipidi si era ridotta ad una parete più sottile e permeabile. Da alcuni di essi derivarono specie più complesse molto simili alle Cianofite, particolari tipi di alghe azzurre i cui fossili sono stati ritrovati a Bitter Springs (Australia), e che attualmente vivono nelle sorgenti termali, dove producono depositi ricchi di calcio e zolfo. Le cellule eucariote sono il preludio indispensabile per la comparsa di forme animali e di piante più complesse: infatti, a differenza di quanto avviene nei procarioti, negli eucarioti la forma di riproduzione comune è quella sessuale che, comportando uno scambio di materiale genetico, accresce la variabilità genetica delle popolazioni e crea pertanto un terreno molto favorevole all'evoluzione della vita.

Altre cellule si evolsero senza clorofilla, con una membrana cellulare senza parete cellulosica: erano i primi Protozoi, cioè in definitiva i primissimi Animali, conosciuti anche come Metazoi. La separazione di esseri viventi animali da quelli vegetali è avvenuta da 1,5 ad 1 miliardo di anni fa. Tale processo non può che essere stato lento, per cui, in un certo momento dell'evoluzione, si sono evolute forme di vita con caratteristiche né completamente vegetali, né completamente animali. Di questo processo si ha tutt'oggi testimonianza in esseri viventi di volta in volta catalogati come Protisti, Cromisti, Monere, ben distinti dagli animali e dai vegetali. A questo proposito sarà bene effettuare una breve carrellata sulla definizione successiva dei cosiddetti Regni della Natura.



Classificazione secondo:
Procarioti
Eucarioti

Linneo (1735)
ignoti
Vegetali
Animali

Haeckel (1894)
Protisti
Vegetali
Animali

Whittaker (1969)
Monere
Protisti
Funghi
Vegetali
Animali

Woese (1977)
Archea
Batteri
Protisti
Funghi
Vegetali
Animali

Cavalier-Smith (2004)
Batteri
Protozoi
Cromisti
Funghi
Vegetali
Animali



Alle scuole elementari tutti ci hanno parlato di Regno Animale, Regno Vegetale e Regno Minerale. Ma, fatta eccezione per questi ultimi che non sono viventi, fin dai tempi di Linneo stesso ci si accorse che non tutti gli esseri viventi potevano essere catalogati nella stessa congregazione delle betulle o dei coccodrilli. Già nel 1894 il biologo tedesco Ernst Haeckel (1834-1919) decise di introdurre un terzo Regno, quello dei Protozoi o Protisti (dal greco Protos, "primo"), che lui riteneva i primissimi esseri viventi comparsi sul pianeta Terra. La suddivisione fu accettata fino al 1969, quando il botanico statunitense Robert Harding Whittaker (1920-1980) propose di scindere i Protisti in due, scorporando da esso il regno delle Monere, che comprendeva gli organismi procarioti, mentre gli eucarioti continuavano a chiamarsi Protisti o Protozoi; Whittaker elevò a regno anche i Funghi, ritenendoli troppo diverse dai vegetali per includerli nello stesso regno; e così i regni divennero cinque. Stavolta la classificazione andò bene solo fino al 1977, quando l biologi statunitensi Carl Richard Woese (1928-vivente) e George Edward Fox (1945-vivente) decisero di spezzare a sua volta in due il regno delle Monere, dividendolo in Batteri ed Archea; questi ultimi sono procarioti con caratteristiche biochimiche uniche, specialmente per quanto riguarda la composizione della membrana cellulare, ed in genere vivono e prosperano in condizioni ambientali estreme per chimica, pH, pressione e temperatura (sono tali i batteri termofili, estremofili, ecc.) Infine, nel 2004 il biologo inglese Thomas Cavalier-Smith (1942-vivente) propose di creare all'interno dei Protisti un'ulteriore suddivisione tra il Regno dei Protozoi e quello dei Cromisti o Cromalveolati, eucarioti unicellulari o pluricellulari per la maggior parte fotosintetici, con caratteristiche morfologiche proprie rispetto ai Protozoi; ma l'elevazione di questo gruppo a regno è controversa, visto che secondo alcuni è polifiletico (cioè formato da organismi senza vera parentela evolutiva tra di loro). Sempre Cavalier-Smith non accetta il regno degli Archea, facendolo confluire in quello dei Batteri, ma i più continuano a considerarlo un regno separato. I più comunque oggi suddividono gli esseri viventi in tre grandi domini: Archea, Batteri ed Eucarioti (e questa è anche la suddivisione adottata nell'albero genealogico che abbiamo analizzato in precedenza), dividendo questi ultimi a loro volta nei regni di Protozoi, Cromisti, Funghi, Vegetali e Animali. Ad essi andrebbe poi aggiunto un altro regno, quello dei Virus, dei quali però al momento attuale si ignora totalmente l'origine e la storia evolutiva.

I pluricellulari

A questo punto, però, sulla Terra non esisteva ancora neppure un organismo pluricellulare. Il fatto è che, proprio in questo periodo, alcune cellule cominciano a riprodursi, restando però unite. Perché? Perché l'unione fa la forza, oggi come nel periodo Algonchiano. Così nacquero i primi aggregati cellulari. Alcune cellule si svilupparono più di altre, differenziandosi e specializzandosi per svolgere determinati compiti. Per esempio, alcune cellule furono deputate al rivestimento esterno, altre al movimento, eccetera. I primi pluricellulari furono semplici organismi con una cavità interna a scopo gastrico; vi era una sola apertura, che serviva contemporaneamente da bocca e da ano; solo in seguito si formò un rudimentale apparato digerente.

L'origine degli esseri viventi pluricellulari, disegno dell'autore

Secondo i sostenitori della "Snowball Earth", sarebbe stata proprio la superglaciazione ad innescare la nascita dei pluricellulari per resistere meglio alle avverse condizioni climatiche. Comunque sia andata, dopo miliardi di anni in cui la Terra era stata popolata solo da organismi unicellulari, nel giro di poche centinaia di milioni di anni comparvero e si moltiplicarono gli organismi pluricellulari: una quantità enorme di invertebrati, differenziati in modo incredibile, si diffuse ovunque, alla conquista di ogni nicchia ecologica. Tra le alghe pluricellulari primitive, la Collenia produsse vere e proprie praterie sottomarine, ed a poco a poco divennero frequenti i rappresentanti di fauna inferiore come Spugne (o Parazoi), Crinoidi, Echinodermi e Ctenofori. È proprio questa diffusione della vita su tutto il globo, testimoniata da fossili sempre più abbondanti, che ha permesso di ricostruire con dettagli sempre maggiori l'ultimo mezzo miliardo di anni di storia del nostro pianeta, cioè gli ultimi quaranta giorni dell'Anno della Terra.

Secondo Casey Dunn della Brown University di Providence (Rhode Island, USA), autore di una ricerca pubblicata su Nature, il primo vero pluricellulare apparso sulla Terra in quei lontanissimi giorni non sarebbe stata una spugna, come si è creduto finora, bensì uno ctenoforo, un organismo che ricorda vagamente una medusa. Il suo nome deriva dal greco "ktenos", pettine, e "phoros", portare, perché lungo il suo corpo gelatinoso e a forma di sacco si trovano otto file di bande meridiane, provviste ciascuna di una serie di "pettini": per pettine si intende una paletta vibratile munita di ciglia che, battendo coordinatamente assieme alle altre, permette all'organismo di spostarsi lentamente nell'ambiente acquatico. Per ottenere questo risultato, Dunn e i suoi collaboratori hanno analizzato una massa enorme di dati genetici, che hanno consentito loro di percorrere a ritroso l'albero evolutivo della vita sulla Terra, simile al ramo centrale di quello da noi raffigurato sopra, sino ad arrivare a quel primissimo progenitore di tutti gli animali, che il grande poeta Johann Wolfgang Goethe (1749-1832), appassionato di scienza, aveva battezzato « urtypus ».

Si dovette attendere comunque molto a lungo prima che l'evoluzione desse origine a forme di vita animale meno primitive. Erano esseri invertebrati, privi cioè di scheletro, simili agli attuali Anellidi marini ed in grado di scavare nel fondo sabbioso del mare. Essi diedero probabilmente origine ai protoartropodi, di cui non si hanno testimonianze fossili, e successivamente ai Trilobiti. I primi invertebrati veri e propri furono millepiedi marini vissuti circa 630 milioni di anni fa. In termini di Anno della Terra, ciò accade soltanto la sera del 9 novembre!

Le innumerevoli testimonianze fossili di Molluschi risalenti al successivo periodo Cambriano autorizzano, anche senza documentazioni fossili, a ritenere che anche questi organismi fecero la prima comparsa già prima della fine del Precambriano. Si trattava in particolare degli antenati degli attuali gasteropodi, viventi in lunghe conchiglie di forma conica. Anche i cefalopodi ed i ricci di mare comparvero verso la fine del periodo Algonchiano.

La fauna di Ediacara

Alcuni fossili testimoniano l'esistenza di organismi pluricellulari che vivevano nei mari tra 700 e 580 milioni di anni fa (tra il 5 e il 14 novembre), al confine tra le ere Archeozoica e Paleozoica: si tratta della fauna di Ediacara, dal nome della località dell'Australia meridionale dove nel 1946 il geologo australiano Reginald Sprigg (1919-1994) ritrovò le sue impronte fossili, e da cui trae il nome l'ultimo sottoperiodo dell'Algonchiano inferiore, l'Ediacarano. L'attuale Ediacara un tempo era un tratto di mare vicino alla riva, come testimoniano i ripple marks, cioè le piccole dune sul fondo del mare, fossilizzatesi perfettamente: probabilmente furono ricoperte da sedimenti portati dalle maree. I paleontologi sostengono che la fauna di Ediacara fosse divisa in due grandi categorie: alcuni erano animali a tutti gli effetti, e ricordavano ad esempio animali marini a corpo molle come le meduse; altri invece erano strane creature prive di apparato digerente e di organi di locomozione. Tra gli esseri ritrovati ricordiamo la Dickinsonia, con corpo piatto e lungo fino a un metro, e con venature che la fanno sembrare una foglia; la Parvancorina, che presenta uno scudo poco mineralizzato sul cranio, cinque paia di appendici posteriori e venti paia di anteriori, meno robuste; e la Spriggina, che sembra metà trilobite e metà anellide. Animali simili a quelli di Ediacara si ritrovano in Namibia, Inghilterra, Russia e Ucraina, il che fa pensare ad una diffusione su scala mondiale di esseri simili nel periodo Algonchiano.

Non è ancora chiaro che significato abbiano questi fossili nella storia dell'evoluzione della vita, ma si ritiene che siano un primo "esperimento" per l'evoluzione di gruppi come Celenterati o Anellidi. Alcuni studiosi pensano invece che essi siano un tentativo evolutivo fallito. È probabile comunque che tutte le specie della fauna di Ediacara si siano estinte circa 550 milioni di anni fa senza lasciare alcun discendente. Non è raro infatti che la storia della vita sulla Terra proceda talora attraverso tentativi rapidi e bizzarri, che non sempre sono destinati ad andare a buon fine.
 
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1 replies since 20/5/2010, 09:11   1245 views
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