Precambriano
È l'era più antica della storia della Terra, e, va dalle sue origini (4 miliardi e 500 milioni di anni fa), alla comparsa dei primi invertebrati con esoscheletro (542 milioni di anni fa). In termini di Anno della Terra, esso dura più o meno dal 1 gennaio al 18 novembre: dieci mesi e mezzo!!! Agli inizi le fu dato il nome di Azoica, cioè "priva di vita", perché tale si credeva fosse stata; quando invece sotto gli strati di rocce risalenti al periodo Cambriano vennero individuate tracce di vita primordiale, venne rinominata Archeozoica ("della vita remota") o Precambriana. I rarissimi fossili archeozoici appartengono a specie vegetali ed animali vissute nei mari: alghe, protozoi, celenterati, molluschi, echinodermi, artropodi.
Il Precambriano è diviso in tre periodi:
Adeano
Archeano
AlgonchianoADEANO(da 4,5 miliardi a 3,8 miliardi di anni fa)
Il periodo di tempo che va da quando si è formato l'ammasso gassoso da cui ha avuto origine la Terra alla sua trasformazione in un corpo solido (da 4,5 miliardi a 3,8 miliardi di anni fa) è chiamato Adeano o epoca pregeologica. In termini di Anno della Terra, esso è cominciato il 1 gennaio ed è terminato verso il 26 febbraio. Il suo nome significa "infernale", perchè esso rappresenta l'epoca durante la quale si formò la crosta terrestre, inizialmente incandescente; quindi, a quei tempi la superficie del nostro pianeta doveva apparire come un vero e proprio inferno. Questo nome venne introdotto per la prima volta nel 1972 dal geologo Preston Cloud (1912-1991), per indicare il periodo antecedente la formazione delle rocce più antiche sulla Terra.
L'Adeano è suddiviso in tre periodi: Criptico, Nettariano ed Imbriano. Il primo deriva il suo nome ("nascosto") dal fatto che non ci è pervenuta nessuna roccia terrestre né lunare risalente a quel periodo, terminato circa 4,1 miliardi di anni fa (il 2 febbraio). Di recente però sono stati ritrovati sulla Terra meteoriti le cui rocce si formarono proprio in quell'epoca, come il raro "sasso spaziale" ritrovato per puro caso il 17 gennaio 2009 da Thomas Grau, un cacciatore di meteoriti per hobby, in un campo sull'isola danese di Lolland: la sua roccia si sarebbe formata proprio 4,5 miliardi di anni fa! Gli altri due periodi invece traggono il loro nome rispettivamente dal Mare Nectaris e dal Mare Imbrium posti sulla superficie lunare, le cui rocce si sarebbero appunto formate in quei periodi (e poi pervenute fino a noi perchè sulla Luna non vi è erosione né attività geologica). L'esistenza stessa di questo periodo non è però riconosciuta dalla Commissione Internazionale di Stratigrafia (ICS), per la quale il Precambriano è diviso solo in Archeano e Algonchiano.
Lo sviluppo della crosta terrestre Su questo processo lento e decisivo per la nostra storia non si hanno ancora certezze; si ritiene tuttavia che gli elementi pesanti, come il ferro, andarono a depositarsi al centro a causa della forza di gravità, mentre gli elementi più leggeri, i silicati, formarono un oceano incandescente alla superficie. Dopo circa 500 milioni di anni dalla nascita della Terra (il 10 febbraio), il paesaggio incandescente iniziò a raffreddarsi: la dissipazione di calore nello spazio diede inizio al raffreddamento del nostro pianeta, e nell'oceano di magma cominciarono a comparire lembi di rocce formate da minerali ad alto punto di fusione, una sorta di zattere roventi ma solide simili alla crosta sottile che vediamo formarsi alla superficie di una colata di lava, mentre questa sta ancora fluendo dal cratere. In quei tempi la Luna, ancora rovente, distava dalla Terra solo 16.000 Km contro i 384.000 attuali, per cui doveva invadere gran parte del cielo, dal quale meteoriti o addirittura piccoli protopianeti dovevano continuare ad abbattersi nell'oceano incandescente: un vero paesaggio da incubo!
Poi, l'abbassamento della temperatura al di sotto dei 1000 gradi consentì il consolidamento delle zone con temperature più basse che, divenute più stabili, avviarono la costruzione della futura crosta terrestre. Ma quei primissimi frammenti di crosta dovevano essere anche molto instabili, e dovevano venir facilmente riassorbiti dalla massa liquida e rifusi in profondità. Solo con l'ulteriore raffreddamento del pianeta, quei frammenti devono essere diventati abbastanza numerosi e grandi da formare un primo involucro solido, cioè una vera crosta primitiva. Quella prima crosta doveva apparire come una distesa di rocce caldissime (qualche centinaio di gradi Celsius), interrotta da numerose grandi fratture, dalle quali continuavano a risalire enormi quantità di magma. Inoltre il pianeta Terra, nel corso dell' Adeano, fu interessato da un evento particolarmente distruttivo chiamato « grande bombardamento tardivo »: circa 3,9 miliardi di anni fa (il 18 febbraio) asteroidi di grandi dimensioni bombardarono il pianeta con una potenza incredibile, per via del fatto che in quell'epoca il giovane sistema solare era ancora molto affollato da piccoli oggetti, ed in virtù della forza di gravità i corpi maggiori andavano "ripulendo" le loro orbite da tutti i "sassi" spaziali che fino a quel periodo le infestavano. Questo attivissimo bombardamento meteoritico doveva aprire continuamente nuove lacerazioni nella crosta, subito invase dal magma. Le tracce di quell'intenso bombardamento meteoritico, protrattosi per almeno 700-800 milioni di anni, sono state quasi totalmente cancellate sulla Terra dall'erosione da parte degli agenti atmosferici, ma sono invece perfettamente conservate sulla Luna e su molti altri corpi del Sistema Solare, la cui evoluzione si è arrestata da lunghissimo tempo, sotto forma di crateri da impatto, a volte colmati di lava.
La crosta primitiva doveva essere simile al basalto, una roccia vulcanica scura, con meno del 53 % in peso di SiO2, che si forma a spese del mantello, ma rispetto al quale ha una natura differente. Le rocce più antiche trovate sulla Luna, vecchie di circa 4 miliardi di anni, sono infatti proprio dei basalti ad alto contenuto in alluminio.
L'atmosfera primordialeDalle rocce incandescenti e dal mantello terrestre, soprattutto per opera dell'attività vulcanica, si sprigionavano ammoniaca, idrogeno, biossido di carbonio, metano, vapore acqueo ed altri elementi che, nel giro di 100 milioni di anni, gradualmente formarono l'atmosfera primordiale. Essa era molto simile a quella attualmente visibile su Titano, il maggiore dei satelliti di Saturno, così come ce lo ha rivelato la missione Cassini-Huygens nel gennaio 2005, ed in ogni caso estremamente tossica per la vita che conosciamo ai nostri giorni.
Il processo di raffreddamento e consolidamento della superficie terrestre doveva essere accompagnato, come avviene tuttora nei vulcani, da un forte degasamento: così l'atmosfera si arricchì di metano (CH4), idrogeno (H2), azoto (N2) e vapore acqueo con tracce dl gas nobili e anidride carbonica. Insomma, l'intensa attività vulcanica della Terra bambina portò in superficie gli elementi leggeri, ma non tutti: grandi quantità di gas come elio ed argo, che tendono ad essere emessi durante il vulcanismo, rimasero intrappolate nelle viscere della Terra. Che cosa fece esalare al pianeta il suo "ultimo respiro"? La questione è controversa. L'opinione prevalente è quella che una porzione del mantello inferiore non si fuse mai, conservando la sua composizione primordiale. Tuttavia un team di scienziati della Rice University di Houston ha avanzato una nuova proposta: la terra di 4 miliardi di anni fa era molto più calda di quella attuale, e le particolari condizioni geofisiche determinarono una "trappola di densità" circa 400 Km sotto la superficie. Calore e pressione diedero così vita a una rarità geofisica, un'area in cui i liquidi erano... più densi dei solidi! Quindi, invece di salire in superficie dando vita a vulcani, come avviene oggi, essi cristallizzarono e affondarono assieme ai gas che contenevano. Un'ipotesi suggestiva, che attende ancora conferme. In ogni caso, comunque, la scarsa gravità liberò la Terra dal guscio di idrogeno, molto leggero, che invece fa da involucro ai pianeti gioviani, gli altri gas e vapori andavano invece concentrandosi; il vapore acqueo non arrivava però ancora a condensarsi, a causa delle temperature superficiali ancora molto elevate.
C'è però da tener conto che il campo magnetico terrestre un tempo era ben diverso da quello attuale. Secondo quanto studiato da alcuni scienziati dell'Università di Rochester e dell'Università del KwaZulu-Natal, tre miliardi e mezzo di anni fa esso aveva un'intensità pari alla metà di quello odierno, e ciò aveva fortissimi impatti sulla Terra primordiale. Infatti a quel tempo anche la nostra stella emetteva potentissimi venti solari, i quali probabilmente hanno "strappato" una notevole quantità di acqua dall'atmosfera del pianeta. Le prove? Il KwaZulu-Natal è una regione del Sudafrica particolarmente ricca di rocce ignee risalenti a oltre tre miliardi di anni fa, nelle quali sono contenuti piccoli cristalli di quarzo. Dentro di essi si possono rilevare minuscole inclusioni di materiali magnetici che conservavano tracce "congelate" del campo magnetico che esisteva al tempo della loro formazione. « Un campo magnetico più debole implica che il flusso di particelle solari raggiungeva molto più facilmente la Terra », ha spiegato John Tarduno, geofisico della Rochester University. « È estremamente probabile che i venti solari abbiano rimosso dall'atmosfera molecole volatili, come quelle di idrogeno, a un tasso molto più elevato di quello odierno. » E naturalmente la perdita di idrogeno implica anche una perdita di acqua, che perciò è presente attualmente sul nostro pianeta in quantità decisamente inferiori a quelle di un tempo.
Il vento solare è in grado di strappare a un pianeta la sua atmosfera, irradiandone così la superficie con radiazioni letali: Marte rappresenta il tipico esempio di un pianeta che ha verosimilmente perso molto presto la sua magnetosfera, permettendo alla radiazione solare di eroderne l'atmosfera. « C'è una forte correlazione fra l'età di una stella di tipo solare e la quantità di materia che viene asportata dai suoi venti », ha continuato Eric Mamajek, che ha partecipato allo studio. « Possiamo ipotizzare che, quando il Sole aveva l'età di un solo miliardo di anni, esso stesso perdeva materiale a una velocità cento volte superiore a quella che si osserva adesso, perciò il vento solare era almeno di un paio di ordini di grandezza più intenso. Con una magnetosfera più debole il punto di equilibrio far i due campi magnetici, la cosiddetta magnetopausa, si trovava probabilmente a meno di cinque raggi terrestri dal pianeta, ossia a meno della metà della distanza odierna, che è di 10,7 raggi terrestri ». La perdita di acqua doveva essere resa più elevata anche dal fatto che l'atmosfera terrestre era anche molto più ricca di vapore acqueo. In conseguenza di ciò in una normale notte di 3,5 miliardi di anni fa doveva essere possibile assistere a spettacolari aurore boreali molto più a sud di oggi, fino alla latitudine della nostra Italia!
La formazione degli oceaniNello stesso tempo, sulla superficie cominciò a manifestarsi un'altra imponente serie di eventi, che portarono alla formazione delle rocce sedimentarie, attraverso processi di erosione, trasporto e accumulo. Tali processi divennero pienamente attivi non appena la superficie si raffreddò abbastanza da permettere l'instaurarsi del ciclo dell'acqua. Infatti la Terra primitiva rimase a lungo avvolta dalle tenebre, sotto una spessa cappa di dense nubi ardenti formate dal vapore acqueo continuamente riversato nell'atmosfera dalle esalazioni vulcaniche; quando la temperatura scese abbastanza, le nubi cominciarono a sciogliersi in pioggia, e l'atmosfera primordiale diede vita a tempeste di inimmaginabili proporzioni, sotto le quali la Terra gemeva e ribolliva. In un primo tempo, abbattendosi sulle rocce incandescenti, la pioggia svaporava, ma con il graduale raffreddamento della crosta solida l'evaporazione andò diminuendo finché l'acqua poté condensare nelle zone più depresse della superficie terrestre, formando i primi oceani, mentre gli altopiani rocciosi formarono i continenti. Su di essi si costituirono anche i primi reticoli fluviali, che trasportavano i detriti strappati alle zone più elevate e li riversavano sul fondo dei mari primordiali. Il metamorfismo e la rifusione dei prodotti dell'erosione, accompagnata da un certo punto in poi dal metamorfismo e dalla fusione di grossi spessori di sedimenti, produsse ulteriori magmi e lave sempre più ricchi in silice, e quindi di composizione differente rispetto a quella del mantello e della crosta primitiva. E così si sono formati magmi sempre più simili per composizione ai graniti, e perciò in grado di dare origine a rocce più leggere dei basalti, tanto da... « galleggiare » su questi ultimi.
A poco a poco il nostro pianeta assunse un aspetto a noi più familiare, con una zona gassosa ricca di nubi detta atmosfera, una liquida con oceani, laghi e fiumi, detta idrosfera, ed una solida indicata con il nome di litosfera, con i primi abbozzi di quelli che diventeranno i futuri continenti.
Un dono del cielo? Spesso chi sulla Terra trova metalli preziosi e rari come oro, platino, palladio, iridio e simili li definisce un "dono del cielo". Ebbene, quest'affermazione potrebbe essere più veritiera di quanto non si pensi, se ha ragione l'astrofisico tedesco Gerhard Schmidt, dell'Università Johannes Gutenberg di Mainz. Questi ha infatti ipotizzato nel settembre 2008 che essi ci sono arrivati dentro a veri e propri scrigni cosmici vaganti nello spazio extraterrestre: i meteoriti metallici, un tempo molto più abbondanti di oggi, al punto che durante il grande bombardamento tardivo la loro caduta sulla Terra era pressoché continua. L'originale ipotesi è stata avanzata dopo 12 anni di ricerche sperimentali, nel corso delle quali ha studiato centinaia di siti in cui sono caduti e sono stati recuperati meteoriti grandi e piccoli, effettuando analisi quantitative delle tracce dei metalli preziosi presenti. Il metodico professore tedesco ha effettuato poi analoghe analisi su campioni di rocce provenienti dal mantello terrestre, sui frammenti di rocce lunari portate dagli astronauti delle missioni Apollo nei primi anni '70, e su meteoriti di origine marziana.
Alla fine, Schmidt si è convinto che l'oro e gli altri metalli preziosi, chiamati anche « siderofili » per la loro affinità a combinarsi col ferro, non appartengono alla storia evolutiva della Terra, ma hanno un'« origine cosmochimica », nel senso che si sono formati in quel più vasto crogiolo naturale degli elementi che è rappresentato dallo spazio cosmico. Per rifornire la Terra delle quantità di metalli preziosi che oggi vi si riscontrano, secondo Schmidt sarebbero stati sufficienti circa 160 asteroidi metallici del diametro di 20 km ciascuno. Dopo la formazione della Terra, quando il nostro pianeta assunse la consistenza di un corpo sferico dotato di grande massa, la sua forza gravitazionale cominciò ad attrarre gli asteroidi e gli altri corpi minori che le passavano vicini, che erano assai più abbondanti rispetto a oggi, e fra i quali vi erano meteoriti di natura metallica; e così la Terra si arricchì dei metalli preziosi che poi migrarono nella crosta terrestre attraverso vari processi di concentrazione. (secondo alcune stime oggi nella crosta terrestre esistono ancora 50.000 tonnellate di oro da estrarre). Un'ipotesi senz'altro affascinante, se venisse confermata.
Il problema del sole debole Nel 1972, gli scienziati americani Carl Sagan (1934-1996) e George Mullen formularono una celebre teoria oggi nota come "paradosso del debole sole primordiale" (FYSP, Faint Young Sun Paradox), secondo cui il clima della Terra è rimasto pressoché costante durante oltre tre dei 4,5 miliardi di anni di vita del pianeta, nonostante il fatto che la radiazione della nostra stella abbia subito un incremento del 25-30 %. In base a questo dato, durante il suo fragile periodo iniziale la superficie della Terra avrebbe dovuto essere del tutto ricoperta di ghiaccio, visto che i raggi del sole erano molto più deboli di quanto siano oggi, circostanza che invece dagli studi geologici non risulta di sicuro. Una risposta plausibile fu proposta nel 1993 dal fisico dell'atmosfera James Kasting (1953-vivente), della Pennsylvania State University, il quale propose che il 30 % dell'atmosfera terrestre di quattro miliardi di anni fa fosse costituita da CO2. Questa grande quantità di gas serra avrebbe costituito uno strato protettivo nei confronti del pianeta, prevenendo così il congelamento degli oceani.
Nel 2010 tuttavia Christian Bjerrum, del Dipartimento di Geografia e Geologia dell'Università di Copenhagen, e Minik Rosing, del Museo di Storia Naturale della Danimarca, insieme con alcuno colleghi della Stanford University in California, hanno annunciato di aver scoperto la vera ragione del "ghiaccio mancante", dopo aver analizzato campioni di rocce risalenti a 3,8 miliardi di anni fa provenienti da uno dei siti geologici più antichi del pianeta, quello di Isua in Groenlandia. « Ciò che impedì un'era glaciale in quei tempi remoti non fu l'alta concentrazione di CO2 in atmosfera, ma il fatto che lo strato di nubi era molto più sottile di quanto sia oggi », ha spiegato Rosing sulla rivista Nature. « Inoltre la superficie terrestre era ricoperta da acqua. Ciò significa che i raggi del Sole potevano scaldare gli oceani senza ostacoli, e che essi avrebbero poi restituito il calore gradualmente, impedendo alla superficie terrestre di ghiacciare ». La mancanza di nubi può essere spiegata con il processo grazie al quale esse si formano, il quale richiede la presenza di sostanze chimiche prodotte da alghe e piante, sostanze che a quel tempo non esistevano. Questi processi chimici sarebbero stati in grado di formare un denso strato di nubi, che a loro volta avrebbero riflesso nel cosmo i raggi del Sole, impedendo così il riscaldamento degli oceani della Terra. Se la teoria è vera, un altro dei grandi enigmi del lontano passato del nostro pianeta può così dirsi risolto.
L'enigma degli zirconi australianiPrima di procedere con l'Archeano, è bene riferire di un'importante scoperta pubblicata da John W. Valley, docente di geologia presso l'Università del Wisconsin, che ha trascorso molti anni a studiare le formazioni rocciose più antiche dell'intero pianeta Terra: le rocce sedimentarie delle Jack Hills, in Australia Occidentale 800 Km a nord di Perth, la più isolata delle grandi città australiane. Queste rocce hanno la bellezza di 4,4 miliardi di anni di età (risalgono dunque addirittura al 9 gennaio dell'Anno della Terra!), e contengono minuscoli cristalli di zircone (ZrSiO4), facilmente databili perchè a volte gli atomi di uranio si sostituiscono nella struttura cristallina a quelli di altri elementi e, confrontando la percentuale di uranio e di piombo nella miscela naturale e negli zirconi, è possibile determinare la loro età con uno scarto massimo di 40 milioni di anni (per rocce così antiche è pochissimo).
Come riferisce l'autore sul numero di dicembre 2005 di "Le Scienze", edizione italiana di "Scientific American", questi zirconi sono in grado di intrappolare il più antico ossigeno della Terra, ed usando il rapporto tra i diversi isotopi dell'ossigeno si può stimare a quale profondità nel mantello terrestre le rocce si sono formate, giacché esso dipende dalla temperatura di formazione delle rocce. Il rapporto isotopico tra O16 ed O18 (quest'ultimo raro in natura) è ad esempio perfettamente conosciuto per il mantello terrestre. Rapportando tale rapporto isotopico all'acqua di mare (per cui si assume il valore zero), quello del mantello terrestre è pari a 5,3. Dunque, se gli zirconi si sono formati dentro rocce antichissime rifuse dentro il mantello terrestre in seguito a subduzione, anche in essi si dovrebbe registrare questo valore. Invece, stime accuratissime hanno fornito il sorprendente valore di 7,4. Questo è tipicamente il valore che si riscontra in rocce a bassa temperatura, presenti sulla superficie della Terra, che reagiscono con la pioggia o con l'acqua dell'oceano acquisendo un alto rapporto isotopico tra O16 ed O18. Dunque esso richiede la presenza sulla superficie terrestre di acqua allo stato liquido e basse temperature; nessun altro processo conosciuto è in grado di fare altrettanto. In pratica, questi zirconi australiani verrebbero a dirci che, appena 100 milioni di anni (una settimana dell'Anno della Terra) dopo la formazione del nostro pianeta, su di esso esistevano già le condizioni adatte all'instaurarsi del ciclo dell'acqua. Tanto più che la maggior parte dei cristalli di zircone delle Jack Hills presentano superfici arrotondate e prive di spigoli vivi, come se il vento le avesse trascinate a lungo sulla superficie di un continente solido. Ad avvalorare queste tesi contribuiscono le pubblicazioni di Mark Harrison, professore di geochimica all'Ucla (University of California Los Angeles), il quale ha stabilito che gli zirconi australiani si sono formati in una zona in cui il flusso di calore era di 75 milliWatt per metro quadro, di gran lunga inferiore a 200-300 milliWatt al metro quadro previsto per quel periodo geologico. L'unico ambiente possibile per la formazione di zirconi con un flusso di calore così basso è quello della zona di collisione tra placche tettoniche, grazie anche a temperature di fusione inferiori dovute alla grande presenza di acqua nelle rocce. Finora, come si è detto, si era sempre creduto che l'Adeano (come il suo stesso nome attesta) fosse un periodo assolutamente privo di crosta terrestre allo stato solido e di acqua allo stato liquido; incredibilmente, i minuscoli zirconi australiani (pochi decimi di millimetro di dimensione) testimonierebbero un ambiente primordiale assai più temperato, caratterizzato da vaste estensioni di acqua liquida (oceani o almeno mari) e rocce già solidificate, quindi un ambiente molto diverso da un pianeta infernale di vulcani, colate di lava e rocce bollenti; ed in esso la vita potrebbe essere nata molto prima di quanto noi ci aspettiamo. Incredibilmente, le pietruzze studiate dal professor Valley potrebbero essere i resti fossili del più antico continente della storia!
Naturalmente le domande che restano aperte sono tante. Com'è possibile che questi cristalli, pur avendo viaggiato per centinaia di chilometri sospinti dal vento, siano ancor oggi concentrati in una regione così ristretta? E come hanno evitato di essere seppelliti e fusi all'interno del mantello terrestre, prima che la crosta continentale fosse abbastanza stabile? Inoltre la parte interna dei cristalli di zircone sembra avere 4,3 miliardi di anni, mentre quella più esterna sembra averne 3,7 (risale cioè al 30 marzo dell'Anno della Terra). È normale che uno zircone diventi via via più giovane mano a mano che ci si sposta verso l'esterno, perchè questi cristalli crescono per accrezione, come le perle dentro un'ostrica. Ma il fatto che le età del centro e del bordo degli zirconi siano concentrate in questi due periodi topici sembra indicare la presenza di due eventi distinti nella loro storia, separati da un lungo intervallo di tempo e concentrati attorno a queste due date. Ma quali eventi? Negli zirconi più giovani questa differenza di età è solitamente dovuta a processi tettonici nei quali si ha la fusione della crosta continentale ed il "riciclaggio" degli zirconi in essa contenuti. Si sta lavorando per capire se anche gli zirconi delle Jack Hills hanno avuto un simile destino. Inoltre, le scoperte di zirconi analoghi a questi si sono moltiplicate in varie zone dell'Australia; si lavora sperando di trovare anche fuori dall'Australia degli zirconi più vecchi di 4 miliardi di anni.
Le teorie di John Valley potrebbero essere avvalorate da un ulteriore studio, condotto presso l'Università del Colorado a Boulder e pubblicato su Nature. Già si è detto che, nel corso dell' Adeano, il pianeta Terra fu interessato da un bombardamento meteoritico senza precedenti, che secondo tutti gli scienziati sarebbe sufficiente per estinguere ogni forma di vita dal pianeta, se si ripetesse oggi (grazie a Dio è impossibile). Le nuove ricerche però mostrano che il calore sviluppato dal grande bombardamento tardivo riuscì a fondere meno dal 25 % della crosta terrestre, e dunque, se fossero già comparsi, alcuni microrganismi avrebbero potuto sopravvivere negli habitat presenti al di sotto della superficie, protetti dalla distruzione venuta dal cielo.
Anzi, le condizioni prodotte dal bombardamento potrebbero aver favorito la vita di eventuali batteri termofili, cioè di microrganismi simili a quelli che si trovano ora nelle sorgenti idrotermali a temperature tra 80 e 110 gradi Celsius. « Questi risultati retrodatano il possibile inizio della vita sulla Terra a prima di 3,9 miliardi di anni fa », ha spiegato Oleg Abramov, uno degli autori della ricerca, « e suggeriscono che la vita possa aver avuto origine già 4,4 miliardi di anni fa, all'epoca della formazione degli oceani ». Un'altra ipotesi veramente accattivante: davvero quelle minuscole "capsule del tempo" fatte di zircone potrebbero rivoluzionare la geologia e la paleontologia del ventunesimo secolo.
ARCHEANO(da 3,8 miliardi a 1,6 miliardi di anni fa)Al periodo Archeano ("antico") risalgono le formazioni rocciose più antiche oggi superstiti sulla Terra, e proprio la scarsità di testimonianze rende incerta la nostra conoscenza di questo periodo, il quale copre l'arco di tempo che va da 3,8 miliardi a 1,6 miliardi di anni fa; in termini di Anno della Terra, esso è cominciato il 26 febbraio ed è terminato il mattino del 24 agosto. Sei mesi, dunque: la metà del nostro Anno della Terra. Con molta fantasia, esso è stato diviso in Eoarcheano, Paleoarcheano, Mesoarcheano e Neoarcheano; un tempo invece era suddiviso in Ontariano ed Huroniano. Molto discussa è l'ulteriore suddivisione di questi in sottoperiodi.
I cratoni e i protocontinentiAl principio di quest'epoca il nostro pianeta aveva già una crosta solida, in cui si distinguevano ampie aree depresse, coperte dagli oceani, e alcuni settori emersi, in cui lo spessore della crosta era andato aumentando per il formarsi e accumularsi di rocce simili al granito. Oltre che in Australia e in Groenlandia, dove affiorano le più antiche testimonianza di quelle lontane fasi di evoluzione della Terra, rocce di età compresa tra i 3,4 e i 3 miliardi di anni, di origine sedimentaria, sono state trovate in Sudafrica, e rocce analoghe per natura ed età sono state riconosciute anche in Africa, in Siberia e nel Sudamerica. Si tratta delle aree note come scudi o cratoni, che comprendono i frammenti più antichi dei continenti attuali, di difficile interpretazione perché consistono di complesse successioni di rocce metamorfiche che sono state in molti casi intruse da grandi corpi ignei nel rincorrersi delle ere geologiche.
Durante l'Archeano sono stati ritrovati i resti delle primissime orogenesi, che hanno formato imponenti caene montuose, da tempo totalmente spianate dall'erosione; rimangono solo le rocce dei loro nuclei, profondamente metamorfosate. Si sono riconosciute rocce di origine desertica ed estesi depositi morenici distribuiti in molti punti del globo, testimonianze di profondi mutamenti climatici su scala mondiale, analoghi a quelli messi in luce, con molti più dettagli, per età più recenti. In alcuni scudi, tra le rocce di antiche orogenesi, compaiono le ofioliti o rocce verdi, cioè resti di crosta oceanica: questo significa che già da allora i bacini oceanici si aprivano e si richiudevano, mentre i continenti si allontanavano o si avvicinavano, come accade tuttora in seguito alla deriva dei continenti, e come si è detto nell'approfondimento a parte.
Al principio dell'Archeano risalgono i primissimi indizi dell'esistenza di continenti emersi. Si pensa che il più antico in assoluto sia il continente di Vaalbara, il cui nome deriverebbe da quelli della regione sudafricana del Kaapvaal e dell'area di Pilbara (Australia Occidentale), in cui si trovano ancora racchiuse come reliquie le loro antichissime rocce: Vaalbara sarebbe già esistito circa 3,3 miliardi di anni fa (l'8 aprile dell'Anno della Terra). Poco dopo di esso è attestata la formazione del continente di Ur, il cui nome nulla ha a che fare con la biblica patria di Abramo, ma deriva dal tedesco Urkontinent ("continente ancestrale"), e che sarebbe emerso circa 3 miliardi di anni fa (il 2 maggio). Ma come essi si sono formati esattamente? Un'ipotesi è che essi siano nati per accrezione, cioè per sovrapposizione successiva delle cosiddette "Cinture di Greenstone" (Greenstone Belt), che a partire dagli anni settanta sono state interpretale dalla maggior parte dei geologi come antichissimi archi di isole vulcaniche formatisi lungo i margini delle placche tettoniche in collisione, e successivamente diventati parte degli attuali continenti. Infatti, quando un oceano si chiude, la crosta oceanica più pesante si immerge nel mantello scivolando sotto la crosta oceanica, e formando profonde fosse di subduzione: è ciò che accade alla Placca di Nazca, che sta scivolando sotto la Placca Sudamericana dando vita all'imponente sistema montuoso delle Ande: questo scontro ha tra l'altro provocato il catastrofico terremoto di 8,8 gradi Richter che il 27 febbraio 2010 ha colpito il Cile. La fusione della crosta basaltica scivolata in profondità provoca la riemersione di magma, che dà vita a grandi archi vulcanici lungo il margine di una fossa oceanica: in questo modo si sono formate le isole giapponesi, parallele alla profonda fossa del Giappone siccome il fondo del Pacifico sta scivolando sotto la placca asiatica. Quando l'oceano si chiude, le isole così formate non vengono trascinate nel mantello insieme al resto delta crosta, ma vanno a scontrarsi contro la placca continentale già esistente e si uniscono ad essa. Questo è il caso del cosiddetto "continente di Avalonia", un arco insulare esistente nel Paleozoico nell'Oceano Giapeto, il precursore dell'attuale Oceano Atlantico; quando esso si chiuse dando vita al supercontinente Pangea, Avalonia venne schiacciato contro Nordamerica ed Europa, ed oggi le sue rocce costituiscono parte del New England, dell'isola di Terranova, dell'Irlanda, l'Inghilterra ed il Galles, il Belgio, i Paesi Bassi, la Germania settentrionale e la Polonia nordoccidentale (come si vede, dopo l'apertura dell'Oceano Atlantico parte di Avalonia restò su una delle sue sponde e parte sull'altra).
Secondo alcuni però questo modello di crescita continentale non spiega tutte le caratteristiche geologiche osservate nelle formazioni sudafricane e australiane che sarebbero appartenute ai continenti di Vaalbara e di Ur. Infatti Andrew Y. Glikson, dell'Australian National University di Canberra, ha scoperto che i segmenti più antichi delle Greenstone Belt di queste aree, di età compresa tra i 3,5 e i 3 miliardi di anni, sembravano accumulati verticalmente, come se strati di materiale eroso si fossero depositati a più riprese tra masse di magma granitico deformate dalle forze provenienti dal mantello, e non orizzontalmente, come dovrebbero presentarsi le formazioni geologiche che presentano i segni tipici delta subduzione. Come spiegare tutto ciò?
I continenti ebbero un'origine violenta?Nel 1986, durante una spedizione sulle Barberton Mountains, in Sudafrica, i geologi statunitensi Donald R. Lowe, della Stanford University, e Gary R. Byerly, della Louisiana State University, scoprirono uno strato sottile di antichi sedimenti marini contenente migliaia di microscopiche sfere cave, fatte di un materiale simile al vetro. Esse potevano avere una sola origine: l'impatto con la Terra di un asteroide colossale, avvenuto 3,4 miliardi di anni fa. L'incredibile calore dell'impatto non solo fuse, ma addirittura vaporizzò la roccia, che fu dispersa dal vento su tutto il globo. Raffreddandosi repentinamente, il vapore di roccia solidificò così rapidamente da dar vita a forme prive di struttura cristallina, della consistenza appunto del vetro e dalla forma di piccole gocce: esse sono chiamate sferule da impatto o tectiti. In seguito Bruce M. Simonson dell'Oberlin College (Ohio) scoprì dei depositi di sferule a Pilbara e li mise in relazione con quelli trovati da Lowe e Byerly, dato che la catastrofe le dovette distribuire su tutto il pianeta, ma queste risalivano a 2,5 miliardi di anni. Ciò significava che la Terra era stata colpita da enormi sassi di origine spaziale (oggi sappiamo che gli impatti dovettero essere almeno nove) durante tutto il corso dell'Archeano. In base alla composizione delle tectiti, ricche di magnesio e di ferro, Lowe e Byerly dedussero che molto probabilmente gli asteroidi erano decisamente grandi, tra 20 e 50 chilometri di diametro, e colpirono la roccia densa di un bacino oceanico, assai lontano dalle aree dove poi le sferule si depositarono. I segni di maremoti planetari che accompagnano ogni deposito di sferule hanno rafforzalo l'ipotesi secondo cui gli impatti avvennero in mare, e non sulla terraferma.
Ora, Andrew Glikson si e convinto che alcuni impatti con oggetti extraterrestri abbiano addirittura contribuito alla formazione dei primissimi continenti, a partire da quelli i cui resti sono conservati come reliquie dentro le rocce del Sudafrica e dell'Australia Occidentale. Egli infatti ha notalo che l'epoca di questi impatti coincide con la formazione nelle rocce del Pilbara di un gran numero di massi spigolosi, con blocchi larghi fino a 250 metri: essi sarebbero il risultato del sollevamento e del successivo collasso delta superficie terrestre in seguito all'impatto con un grande asteroide. Le dimensioni stimate di quest'ultimo hanno suggerito a Glikson un possibile ruolo degli asteroidi archeanici nella formazione dei protocontinenti, visto che l'epoca di questi impatti coinciderebbe proprio con l'emersione di queste aree al di sopra del livello del mare. Inoltre le rocce formatesi prima degli impatti consistono in spessi strati di crosta oceanica e in sedimenti che normalmente si formano sul fondo marino, mentre durante il periodo degli impatti questi strati basaltici sono deformati, sollevati ed erosi: il tipo di trasformazioni che si possono associare facilmente all'impatto con un oggetto extraterrestre. Tutte le rocce formatesi successivamente agli impatti, invece, risultano composte dai resti erosi di rocce che si potevano formare soltanto sulla terraferma. Questo cambiamento fa pensare che, poco dopo gli impatti, grandi forze dall'interno del mantello abbiano sollevato la crosta al di sopra della superficie del mare, formando graniti e altri tipi di crosta continentale che poi sono stati erosi.
Ma non basta: Glikson ha suggerito che potrebbero essere stati proprio gli asteroidi a causare quei sollevamenti. Egli ha infatti analizzato le grandi intrusioni di magmi granitici risalenti a circa 3,2 miliardi di anni fa, presenti sia nel Pilbara che nelle Barberton Mountains. La vicinanza temporale degli impatti e della formazione del magma secondo lui non sarebbe una coincidenza: sarebbe stata la forza distruttiva di impatti ad alterare i movimenti convettivi del mantello, dando origine a nuovi pennacchi caldi di magma che riscaldarono e modificarono la crosta, come testimoniano le intrusioni di magmi granitici. La plausibilità dell'ipotesi dipende sostanzialmente dalle dimensioni degli asteroidi considerate. Se confrontato con le dimensioni della Terra, un asteroide delle stesse dimensioni di quello che si pensa abbia causato l'estinzione dei dinosauri (10 o 15 Km di diametro) sarebbe stato « poco più che un moscerino sul parabrezza », come ha commentato Simonson. Dimensioni doppie però potevano produrre effetti più devastanti, e secondo Jay Melosh, geofisico della Purdue University, un asteroide di almeno 50 chilometri di diametro poteva effettivamente alterare i flussi di calore interni alla Terra. Basandosi su simulazioni al computer, Melosh è riuscito a descrivere le conseguenze sulla geologia terrestre di un bolide del genere: esso si sarebbe schiantato su un bacino oceanico a circa 20 chilometri al secondo, generando non un cratere, ma genera un enorme mare di roccia fusa ampio almeno 500 chilometri. Se un simile lago di magma si fosse formalo in corrispondenza di un pennacchio, il suo intenso calore avrebbe soffocalo il pennacchio stesso, deviandolo verso le regioni circostanti: sotto la densa crosta oceanica, dove avrebbe generalo nuove isole che poi sarebbero migrate verso una zona di subduzione, contribuendo all'accrescimento di un continente, oppure sotto un protocontinente esistente di roccia poco densa, dove il suo calore sarebbe stato sufficiente a produrre nuove emissioni di magma granitico, simili a quelle rinvenute in Australia e Sudafrica, aumentando lo spessore del continente.
Lo stesso Melosh però ha avvertito che uno scenario del genere sarebbe assai difficile da dimostrare: è praticamente impossibile provare che un asteroide abbia devialo i pennacchi nel mantello, generando gli embrioni degli attuali continenti, visto che ormai i crateri lasciati dagli asteroidi dell'Archeano sono stati cancellati dall'erosione da lunghissimo tempo. Inoltre, se anche il granito delle Barberton Mountains fosse effettivamente stato prodotto da un pennacchio, è possibile che esso fosse già attivo assai prima dell'impatto. In definitiva, quella di Glikson è « un'ipotesi mollo probabile su ciò che potrebbe essere accaduto, ma è solo una delle possibili interpretazioni », ha affermato Donald Lowe. Senza dubbio comunque alcuni impatti hanno interrotto la dinamica interna della Terra, e la loro violenza potrebbe non essere stata esclusivamente distruttiva.
Antichi supercontinentiNaturalmente, subito dopo la loro nascita, i continenti cominciarono ad andare alla deriva sul mantello fluido sottostante. I dati paleomagnetici hanno permesso di ricostruire, sia pure con molte incertezze, la posizione reciproca delle aree continentali, che nel loro vagabondare sono entrati più volte in collisione, saldandosi in un'unica vasta massa, per disarticolarsi però ben presto in nuovi frammenti alla deriva. Nel corso dell'eone Archeano abbiamo indizi dell'esistenza di almeno tre supercontinenti formatisi e disgregatisi in continuazione, ecco i loro nomi:
Kenorlandia, fra 2,7 e 2,2 miliardi di anni fa (fra il 27 maggio e il 6 luglio), che comprendeva la Laurentia (il nucleo di quello che oggi sono il Nord America e la Groenlandia), la Baltica (l'attuale Scandinavia e i paesi baltici), l'Australia occidentale e il Kalahari;
Columbia o Hudsonia, tra 1,8 ed 1,5 miliardi di anni fa (fra l'8 agosto e il 1 settembre), che comprendeva Laurentia, Baltica, Siberia, Ucraina, Amazzonia, Australia, il Nord della Cina e il Kalahari, e si estendeva per ben 13.000 km lungo l'asse nord-sud;
Rodinia (dal russo rodit, "generare"), tra 1,3 e un miliardo di anni fa (tra il 17 settembre e l'11 ottobre), centrata probabilmente a sud dell'equatore e ricoperta da vaste calotte glaciali per buona parte della sua storia.
Molte porzioni di crosta archeana racchiudono inoltre importanti giacimenti minerari di ferro, nichel, rame, cromo, oro, argento e uranio, e sono state appunto le ricerche di tali giacimenti per ovvi motivi economici a fornire molte delle informazioni su cui si basano le nostre conoscenze geologiche dell'Archeano. È significativo il fatto che all'Archeano medio o Mesoarcheano (da 3,2 a 2,8 miliardi di anni fa, cioè dal 16 aprile al 18 maggio) risale la maggior parte dei principali giacimenti di ferro, soprattutto in forma di ematite (Fe2O3). Questi giacimenti, di origine sedimentaria, corrispondono al momento della storia della Terra in cui, grazie alla comparsa di organismi in grado di realizzare la fotosintesi, cominciò a formarsi ossigeno libero che, reagendo con il ferro presente allora in soluzione nelle acque, provocò la sua precipitazione sotto forma di ossido, insolubile. Solo dopo che la maggior parte del ferro presente in soluzione fu rimosso da questo processo, cessò la formazione di tali giacimenti e cominciò ad aumentare la concentrazione di ossigeno libero nelle acque e nell'atmosfera. L'esistenza dei depositi di ferro archeani è pertanto un indice di un processo fotosintetico in atto, e quindi una prova che, al tempo della loro formazione, la vita si era abbondantemente stabilita nelle acque. Ma come?
Il mattino della vita L'evento più straordinario della storia del nostro pianeta si compì nelle acque degli oceani dell'Eoarcheano circa 3 miliardi ed 800 milioni di anni fa (il 26 febbraio), allorché comparve il primo essere vivente unicellulare. Infatti sulla giovane Terra si instaurò assai presto un ciclo dell'acqua: le piogge trasportavano i composti venefici dell'atmosfera primigenia (CO2, CH4, NH3, H2S...) nei fiumi e quindi nel mare. Qui essi subivano grandi apporti di energia dalle scariche elettriche dei fulmini, assai frequenti in quei remotissimi acquazzoni, dai vulcani di cui la crosta solida abbondava, e forse dall'azione dei raggi ultravioletti del Sole (non vi era certo lo strato di ozono a proteggere il mondo) e dall'attività dei materiali radioattivi, certamente a quei tempi assai maggiore dell'attuale. Ciò provocò la reazione dei semplici composti sopra citati a formare molecole più complesse: gli aminoacidi, che non sono altro che le basi chimiche della vita. Infatti il citoplasma cellulare consiste di molecole di proteine, a loro volta formate da varie combinazioni di molecole di amminoacidi unite in serie fra loro, mentre il materiale genetico è formato da lunghe molecole di acidi nucleici, formati da diverse combinazioni di unità molecolari molto più semplici, i nucleotidi, anch'essi uniti in serie. Tutto questo fa comprendere come la comparsa di organismi viventi debba essere stata preceduta dalla formazione di un complesso ambiente chimico detto comunemente « brodo primordiale », e descritto come una soluzione di sostanze organiche formatesi in seguito a processi non biologici. Ma quali?
La possibilità teorica di un passaggio da quelle sostanze inorganiche ai primi composti organici fu indagata a lungo da Harold C. Urey (1893-1981), autore della teoria secondo la quale i raggi ultravioletti del Sole e le violente scariche elettriche nell'atmosfera primordiale avrebbero innescato le reazioni chimiche necessarie alla formazione del brodo primordiale. Nel 1953 un giovane collaboratore di Urey, il chimico americano Stanley L. Miller (1930-2007), in un esperimento divenuto famoso tentò la verifica di tale teoria. Nel bollitore A di vetro era contenuta dell'acqua in ebollizione grazie alla serpentina S. In O il vapore acqueo veniva arricchito di una miscela di sostanze gassose (in viola) che, secondo Urey, costituivano l'antichissima atmosfera terrestre, e cioè idrogeno, ammoniaca, metano e anidride carbonica, quindi entrava nella boccia B dove era sottoposto per alcuni giorni a una serie di piccole scariche elettriche (vedi figura sopra); al termine dell'esperimento il vapore, incanalato in T", era convogliato in un condensatore R che lo faceva tornare acqua liquida; il filtro S' intrappolava la soluzione di sostanze (in blu) formatesi nell'acqua, la cui analisi dimostrò la formazione di vari tipi di composti organici, tra cui sei amminoacidi.
Alcuni studiosi negli anni successivi misero in discussione i risultati ottenuti da Miller, sostenendo che l'atmosfera primigenia era più povera di idrogeno di quanto Miller ed Urey avevano ritenuto. Ma di recente nuovi studi fanno pensare che potrebbero essere stati i vulcani ad immettere nell'atmosfera di allora i gas necessari alla sintesi degli aminoacidi. Inoltre, nell'estate 2008 Jeffrey Bada, ricercatore alla Scripps Institutions of Oceanography a San Diego (California) e ultimo studente di Miller, che ha conservato fino ad oggi le 11 provette rimaste dal famoso esperimento del 1953, decise di analizzare di nuovo i vecchi campioni; grazie alle tecniche odierne, molto migliorate dagli anni cinquanta ad oggi, sono emersi dati molto più ricchi rispetto al passato. Bada e collaboratori hanno trovato ben 22 aminoacidi, 10 dei quali non erano stati stati individuati da Miller. Incredibilmente sembra aver avuto ragione la scrittrice Mary Shelley (1797-1851) che, nel suo romanzo horror "Frankenstein" (1818), ipotizzò che la vita sulla Terra sia stata creata dall'azione dei fulmini (tanto che il protagonista li usa per ridare vita a un cadavere)!
Successivamente, un altro gruppo di ricercatori americani trovò una via diversa per spiegare la comparsa dei primi amminoacidi: essi dimostrarono infatti che miscugli di composti organici semplici, come la formaldeide, l'ammoniaca e l'acido cianidrico, possono dare origine a famiglie di aminoacidi in seguito al riscaldamento dovuto all'impatto di meteoriti anche di piccole dimensioni, come provava il fatto di sminuzzare continuamente con una macchina apposita la sabbia cui erano miscelati i composti di partenza. L'importanza di tale scoperta risiede nel fatto che composti come quelli citati sono stati identificati nella materia interstellare e nelle comete, e quindi potrebbero essere stati gli stessi corpi celesti a trasportarli sulla Terra, dopo che si erano formati direttamente nello spazio! Che noi siamo... figli delle stelle?
La questione è ancora controversa. Certo è solo che la formazione e la diffusione di sostanze organiche deve aver richiesto milioni di anni e innumerevoli combinazioni chimiche tra le sostanze presenti sia sulla superficie terrestre, sia nelle acque calde degli oceani, alla fine delle quali gli oceani si ritrovarono ricchi del "brodo primordiale" formato da amminoacidi e nucleotidi; in che modo però all'interno di esso possano essersi formate le proteine, i virus, le cellule e quindi tutti gli esseri oggi viventi sulla Terra, è mistero fitto. Alcuni pensano che sia esistita una "molecola primigenia" su cui gli aminoacidi possono essersi innestati, dando poi vita alle proteine ed all'elica del DNA, ma una tale molecola non è mai stata individuata, e nessuno è mai riuscito a riprodurre sostanze organiche complesse in laboratorio simulando fenomeni naturali. Più di uno scienziato si è spinto ad ammettere la possibilità di un intervento soprannaturale all'origine della vita, ma in ogni caso io non prenderò posizione sull'argomento, perché questo problema esula dai compiti della scienza, e quindi dai limiti che questo ipertesto si è imposto. Mi limito a riportare il parere dello scienziato singalese Chandra Wickramasinghe (1939-vivente): « Un vento impetuoso che soffiasse su delle carcasse di aereo avrebbe più probabilità di comporre un Boeing 747 nuovo di zecca, pur partendo da questi rottami, di quante non ve ne siano di generare la vita mettendo insieme a caso gli elementi che la compongono! »
Le prime celluleComunque siano andate le cose, è un dato di fatto che l'RNA ed il DNA si sono formati; questi aggregarono altre proteine, bolle d'aria, molecole d'acqua ed una pellicola esterna di zuccheri e proteine. Ebbe così origine una struttura complessa cui è stato dato il nome di coacervato ("ammucchiato"): un'aggregazione sferica di molecole lipidiche che formano un'inclusione colloidale, tenute insieme da forze di natura idrofobica. I coacervati misurano da 1 a 100 micrometri, possiedono proprietà osmotiche e si formano spontaneamente in alcune soluzioni organiche diluite. Si arriva in tal modo ai protobionti, come li ha chiamati il biochimico russo Alexander Oparin (1894-1980), che negli anni trenta del secolo scorso fu tra i primi a studiare la genesi della vita. I protobionti dovevano essere organismi microscopici, forse simili ai batteri attuali del tipo cocchi, ed erano eterotrofi, cioè non erano in grado di sintetizzare in modo autonomo le sostanze nutritive organiche loro necessarie, ma si trovavano costretti ad assumerle direttamente dall'ambiente circostante. Tutto questo richiede naturalmente che l'organismo eterotrofo sia immerso costantemente in acqua o almeno in un ambiente umido, indispensabile veicolo per far penetrare quelle sostanze in soluzione attraverso una primitiva specie di membrana.
Sulla base delle tracce fossili di Fig Tree, nello Swaziland, nelle quali (vedi figura sopra) fu ritrovato il più antico microrganismo fossile conosciuto, si può inferire che, ad un solo miliardo di anni di distanza dall'origine della Terra, sulla superficie del nostro pianeta erano già comparsi i primi organismi viventi. Tutto questo fa ben sperare circa la possibilità che anche su altri pianeti si sia innescato lo stesso processo, e quindi ci incoraggia a proseguire la ricerca di forme di vita extraterrestri, a partire dagli altri pianeti del Sistema Solare.
Una questione molto dibattuta è se tutti gli organismi viventi oggi sulla Terra discendano da un unico essere o se, come sostengono alcuni scienziati, la vita è sorta da diversi antenati indipendenti. In questo caso, la vita sarebbe nata in diversi punti della superficie terrestre e in diverse epoche indipendentemente l'una dall'altra. Per risolvere la questione Douglas Theobald, un biochimico della Brandeis University di Waltham (Massachusetts), ha studiato un gruppo di 23 proteine essenziali, presenti in tutti gli organismi conosciuti, prendendo in esame veri organismi rappresentativi degli eucarioti, dei batteri e degli archea, i tre principali gruppi di esseri viventi, e analizzando i possibili percorsi che hanno portato a variazioni nella loro struttura. Tutto questo ha richiesto complesse analisi statistiche e la messa in campo di una notevolissima potenza di calcolo, ma alla fine Theobald ritiene che i suoi calcoli suffraghino in misura massiccia la teoria dell'antenato comune, che sarebbe milioni di volte più probabile della teoria che prevede più antenati indipendenti. « Ciò non esclude che la vita si sia originata indipendentemente più volte », ha osservato Theobald, « ma in tal caso nell'evoluzione vi è stato un collo di bottiglia tale da far sopravvivere fino al presente i discendenti di una sola di questi alberi della vita tra loro indipendenti. Oppure, in alternativa, popolazioni separate potrebbero essersi mescolate, scambiandosi nel corso del tempo abbastanza materiale genetico da diventare un'unica famiglia che alla fine è diventata l'antenato di tutti noi. In entrambi i casi, tutte le forme di vita sono geneticamente correlate tra loro. »
La vita è nata fra le tenebre?Non manca però chi pensa che l'origine della vita non sia da ricercare nel tiepido "brodo primordiale" degli oceani primigeni, bensì nelle oscure e paurose profondità marine, là dove la luce del sole non giunge da miliardi di anni. In effetti, sulle terre emerse e nei mari poco profondi i luoghi rimasti da esplorare sono davvero ben pochi, mentre il 75 % della superficie terrestre coperto dagli oceani è in larga parte sconosciuto. Paradossalmente, conosciamo meglio la superficie di Marte che quelle tenebrose e fredde profondità abissali. Ebbene, nel 1977 presso le isole Galapagos di darwiniana memoria un piccolo sommergibile battezzato Alvin osservò l'esistenza di forti sorgenti idrotermali battezzate fumarole nere o black smoker. Esse si formano quando acqua a temperatura altissima (oltre i 400 °C) proveniente da sotto la crosta terrestre trova uno sbocco attraverso il fondo dell'oceano. L'acqua surriscaldata è ricca di minerali in soluzione (soprattutto solfuri, ferro, rame e zinco) provenienti dalla crosta, che cristallizzano formando intorno alle sorgenti una struttura rocciosa simile a un camino. Quando l'acqua surriscaldata viene a contatto con la freddissima acqua oceanica, molti minerali precipitano dando origine al caratteristico colore nero, da cui il nome. L'acqua emessa peraltro è estremamente acida: il suo pH può scendere fino a 2,8 (pari a quello del succo di limone). Nel novembre 2009 Bramley Murton, ricercatore del National Oceanography Centre di Southampton, ha scoperto nei Caraibi la fumarola nera più profonda del mondo, che emette acqua bollente a ritmo continuo ad oltre 5.000 metri sotto la superficie marina nella fossa delle Cayman, ed ha subito commentato che « esplorare questa zona mediante un sottomarino telecomandato è stato come vagare sulla superficie di un altro mondo ». A dispetto della chimica ostile, però, le aree che circondano simili camini brulicano di vita, per lo più estremamente esotica: ad esempio vi prospera la Riftia pachyptila, un verme gigante senza né bocca né intestino, che sopravvive grazie alla simbiosi con batteri in grado di consumare il velenoso acido solfidrico che esce dalle fumarole. Nell'Oceano Indiano è stato addirittura scoperto un gasteropode corazzato che per la sua corazza usa solfuri di ferro (pirite e greigite) invece del comune carbonato di calcio! In habitat così estremi la luce solare è completamente assente, e gli organismi che vi vivono trasformano in energia il calore, il metano e i composti solforati attraverso un processo detto chemiosintesi. Più d'uno ha dunque pensato che la vita potrebbe essere nata proprio nelle vicinanze di queste ostili bocche idrotermali, quando la superficie di terre e mari era ancora inabitabile, per poi migrare in ambienti meno ostili, dando inizio all'esplosione della vita.
Nel dicembre del 2000 alle fumarole nere si sono aggiunte quelle bianche. Infatti una spedizione che stava cartografando una montagna sommersa sul fondo dell'Oceano Atlantico, nota con l'evocativo nome di Massiccio di Atlantide, 15 chilometri a ovest della dorsale medio-oceanica e a 800 metri di profondità, scoprì una colonna di roccia bianca alta come un palazzo di venti piani che si innalzava dal fondo del mare. Quella era solo una delle tantissime strutture analoghe che pullulavano nella zona: era stata scoperta un'area ricca di sorgenti calde sottomarine che, per assonanza con la perduta Atlantide, fu battezzata Lost City (la Città Perduta), un luogo completamente diverso da ogni altro fino ad allora studiato, incluse le fumarole nere. Le osservazioni compiute nel 2003 dalla geologa Deborah S. Kelley dell'Università di Washington permisero di rivedere alcune idee molto radicate sulla chimica che potrebbe aver dato origine alla vita, e di ampliare addirittura le ipotesi sulla possibile presenza di vita fuori dal nostro pianeta. Confrontati con il rigoglioso ambiente delle fumarole nere, i camini di Lost City appaiono stranamente tranquilli: il magma della dorsale medio-atlantica è troppo lontano per riscaldare i fluidi in risalita fino alle centinaia di gradi delle fumarole nere, e le temperature lì non superano i 90° C. Inoltre le emissioni della Città Perdute non sono acide bensì basiche, con un pH tra 9 e 11, simile a quello delle soluzioni di ammoniaca normalmente in commercio. Non potendo le acque dissolvere rapidamente alte concentrazioni di metalli come ferro e zinco, qui non ci sono i pennacchi di fumo tipici delle fumarole nere, e Lost City è invece ricca di calcio, il quale dà vita ad enormi camini di calcare, dal colore incredibilmente bianco, alti fino a 60 metri, quindi più di ogni fumarola nera nota. E l'ambiente della Città Perduta è estremamente riducente. Perchè questo è così importante?
Perchè, dopo il suddetto esperimento di Stanley Miller, si è fatta strada in modo prepotente l'ipotesi che i gas riducenti abbiano avuto un ruolo fondamentale nella nascita della vita sulla Terra. Ora, il biologo inglese John Burdon Sanderson Haldane (1892-1964) negli anni venti del secolo scorso suggerì che l'atmosfera primitiva della Terra potrebbe aver avuto un'altissima concentrazione di gas riducenti (atti cioè a cedere elettroni ad altre molecole) come idrogeno, ammoniaca e metano; in questo caso, come visto, gli elementi necessari alla vita si sarebbero formati spontaneamente. Nei decenni successivi però è apparso chiaro che l'atmosfera primitiva non era così riducente come ipotizzato da Haldane, e forse le condizioni previste da Miller e collaboratori non si erano mai realizzate. I gas riducenti però abbondano proprio nei camini idrotermali di Lost City. Molte ere geologiche fa fumarole simili a queste potrebbero aver creato proprio le condizioni più adatte per la nascita della vita, laggiù, molto lontano dal calore vivificante del Sole. Sistemi idrotermali come quello potrebbero essere state le fabbriche ideali per produrre straordinarie quantità di metano, semplici composti organici come il formiato e l'acetato, e forse addirittura i primi acidi grassi, componenti essenziali della membrana cellulare di tutti gli organismi conosciuti. Molti dei microrganismi scoperti a Lost City sono infatti metanogeni, appartenenti alla famiglia dei Metanosarcina, che sopravvivono in modo del tutto indipendente dalla luce del Sole.
Lo studio dei ribosomi, gli organelli che le cellule usano per tradurre in proteine l'informazione contenuta negli acidi nucleici (DNA ed RNA), sono composti di RNA e proteine; ebbene, confrontando le sequenze dei componenti fondamentali dell'RNA ribosomiale è stato possibile costruire l'albero genealogico visibile qui sopra, nel quale sono ipotizzate le parentele tra tutte le forme di vita esistenti sulla Terra e a noi note. Ebbene, molti degli organismi che si trovano vicini alla "radice" dell'albero (ed indicati in esso in colore blu) consumano idrogeno, ed abitano le sorgenti calde in superficie o sul fondo del mare, indicando che l'antenato universale comune a tutti i viventi terrestri potrebbe aver abitato anch'esso una sorgente calda, forse in un ambiente simile a quello di Lost City. Tra l'altro, una recente scoperta ha confutato l'idea, finora ben consolidata, che gli unici esseri viventi in grado di prosperare in condizioni di anossia fossero da catalogare fra gli archea, i batteri e i virus: un gruppo di ricercatori dell'Università Politecnica delle Marche ad Ancona e del Museo di storia naturale di Copenaghen ha scoperto ben tre specie marine pluricellulari che compiono il loro intero ciclo di vita in assenza di ossigeno e circondati da nuvole di sostanze velenose come i solfuri, derivati dell'acido solfidrico. La scoperta è il risultato di tre spedizioni oceanografiche condotte fra il 1998 e il 2008, durante le quali sono stati analizzati i fondali del bacino dell'Atalante, al largo delle coste meridionali della Grecia, a una profondità di oltre 3000 metri: un bacino buio, profondo, ipersalino e anossico (la concentrazione salina dell' acqua è dieci volte superiore a quella dell'acqua di mare, quindi vicina al punto di saturazione), formatosi nel Miocene, circa 6 milioni di anni fa, quando si chiuse la comunicazione tra Atlantico e Mediterraneo e una gran quantità di sali si depositò sul fondo del Mare Nostrum, e rimasto in queste condizioni almeno negli ultimi 50.000 anni. Proprio in questo ambiente, uno dei più inospitali della Terra, sono stati individuati tre organismi (Spinoloricus, Rugiloricus e Pliciloricus) catalogati nel philum dei Loriciferi, i quali, al posto dei mitocondri, gli organelli delle cellule deputati tra l'altro a generare energia dall'ossigeno, presentano delle strutture simili agli idrogenosomi, le forme anaerobiche di mitocondri osservati in organismi unicellulari che vivono in ambienti privi di ossigeno. « La scoperta », ha dichiarato William Martin dell'Università Heinrich Heine di Düsseldorf, « ci fornisce un esempio di come poteva essere la vita nei mari e negli oceani del Pianeta 600 milioni di anni fa ». Secondo alcuni, paradossalmente, le tre specie potrebbero rappresentare il futuro della vita negli oceani, poiché vengono date in espansione le cosiddette "zone morte", aree marine profonde in cui l'ossigeno è assente o scarsissimo a causa del dilagante inquinamento. In ogni caso, i meccanismi evolutivi ed adattativi che hanno portato alla colonizzazione di simili ambienti estremi restano ancora un enigma.
I geologi hanno seri motivi per sospettare che ecosistemi come Lost City fossero comuni sulla Terra in un passato remoto, e quindi condizioni basiche e tiepide come quelle della Perduta Città potrebbero aver costituito l'incubatrice delle primissime forme di vita. Inoltre ciò rafforza la speranza di trovare vita anche fuori del nostro pianeta, in ambienti poveri di luce solare ma ricchi di acqua liquida, tiepida e basica, come Europa, la luna di Giove che sotto una spessa crosta ghiacciata potrebbe nascondere un oceano riscaldato dal forte campo gravitazionale del quinto pianeta. Ed anche nell'attuale atmosfera di Marte sono state rintracciate tracce di metano, che secondo alcuni sarebbe di origine organica, prodotto cioè da batteri come quelli di Lost City: il Mars Science Laboratory, il cui lancio è previsto nel 2011, potrà dirci qualcosa di più in proposito.
Edited by demon quaid - 28/4/2016, 19:16