Decapitazione con la scure
Come spiega Eva Cantarella nel suo "I supplizi capitali in Grecia e a Roma" il rito della decapitazione con la scure "veniva eseguito dinanzi al maggior numero possibile di persone, convocate a questo scopo da un araldo, al suono di tromba. La decapitazione era uno spettacolo pubblico cui si faceva luogo dopo che il condannato era già stato sottoposto a un altro rituale la cosiddetta passeggiata ignominiosa. Con le mani piegate dietro al dorso e la schiena curva sotto il peso della furca il reo veniva fustigato e pungolato dagli aiutanti del magistrato, insultato dalla folla e da questa, non di rado, preso a sassate. Giunto sul luogo dell'esecuzione allo stremo delle forze non gli restava che attendere la fine. E la fine, nella sua sanguinaria crudeltà, sopraggiungeva assai rapidamente. Mentre le trombe suonavano, dopo che il magistrato aveva pronunziato le 'parole di legge', la scure colpiva brutalmente il collo del condannato. La testa rotolava sanguinante al suolo e Tito Livio asserisce che la terribile visione aveva un formidabile effetto deterrente sugli spettatori: per tutti essa era ammaestramento a evitare nel futuro comportamenti analoghi a quello punito (.)" Ma in realtà aggiunge la Cantarella il vero scopo di questa esecuzione rituale altro non era se non "dimostrare l'autorità incontrastata di chi l'infliggeva" e secondo alcuni, tra cui il Mommsen, anche quella di "offrire il colpevole agli dei come vittima sacrificale". D'altra parte anche la scure (securis), la cui lama era affiancata da alcune verghe di olmo o di betulla (virgae), le stesse adoperate per flagellare il condannato prima dell'esecuzione e tenute insieme da una cinghia rossa che rappresentava il potere della magistratura - era "un simbolo e strumento di potere, e più precisamente dell'imperium".
Sacrifici umani aztechi
Presso gli Aztechi la spettacolarizzazione della tortura assume una funzione prettamente religiosa e quindi strettamente legata alla dimensione mitopoietica.
"Il metodo più importante che permetteva all'uomo d'influenzare gli dei non era la preghiera; l'uomo doveva nutrire gli dei, soprattutto il Sole" spiega il Katz nel suo "Le civiltà dell'America precolombiana" e continua "Senza tale nutrimento il Sole non avrebbe potuto esistere, la sua luce si sarebbe spenta e il mondo sarebbe stato annientato". Tale missione sacra per gli Aztechi venne esposta chiaramente dalla Donna Serpente Tlacaellel, luogotenente del Sommo Oratore "Sacrificate questi figli al Sole. Si deve cercare un mercato conveniente e, come gli uomini vanno al mercato per trovare le tortillas calde, il nostro dio verrà al mercato con il suo esercito ad acquistare le vittime sacrificali ed esseri umani, che potrà mangiare" Questa pratica rituale tanto importante era legittimata dal mito delle origini, quando gli dei, dopo l'avvento del Quinto Sole (secondo gli Aztechi il mondo era stato creato cinque volte e distrutto quattro, ogni epoca era chiamata "Sole") si erano dovuti sacrificare gettandosi nel fuoco, così gli uomini erano tenuti a seguire il loro esempio.
"Vennero suonati il cupo tamburo di Huichilobos e molte altre buccine e corni e strumenti come trombe, e il frastuono era terrificante. Tutti noi guardammo in direzione della grande Piramide, da dove giungeva il suono e vedemmo che i nostri compagni catturati quando era stato sconfitto Cortés, venivano portati a forza su per i gradini per essere sacrificati. Quando li ebbero portati sulla piccola piazza, davanti al santuario dove sono custoditi i loro maledetti idoli, vedemmo che ponevano piume sulle teste di molti di loro, e ventagli nelle loro mani; e li costrinsero a danzare davanti a Hiuchilobos, e dopo che ebbero danzato, immediatamente li stesero riversi su pietre piuttosto strette preparate per il sacrificio, e con coltelli di pietra squarciarono loro il petto ed estrassero i cuori palpitanti e li offrirono agli idoli che stavano là. Quindi a calci gettarono i corpi giù per la gradinata e i macellai indios che li attendevano là sotto tagliarono le braccia e i piedi e scuoiarono la pelle dei volti e quindi la prepararono come fosse pelle da guanti, con le barbe, e la conservarono per le loro feste.Allo stesso modo sacrificarono tutti gli altri e mangiarono le gambe e le braccia e offrirono agli idoli i cuori e il sangue" a riportare inorridito la vicenda è Bernal Diaz del Castillo, uno dei conquistadores del Messico, che durante l'assedio di Tenochtitlan fu costretto ad assistere impotente alla morte dei compagni. Ma se è vero che i corpi delle vittime venivano mangiate, non si trattava tuttavia di puro cannibalismo. Anche in questo caso, infatti, la natura della cerimonia era rituale, "era un pasto rituale" - osserva il Katz - "una sanguinosa comunione con gli dei".
Le torture dell'Inquisizione
"La stagione dei grandi massacri non è il Medioevo. Comicia ora, verso la fine del XV secolo, mentre Cristoforo Colombo scopre l'America" scrive Frescaroli e, mentre i conquistadores inorridivano davanti ai sacrifici umani degli Aztechi, portando avanti la propria crociata, dall'altra parte dell'oceano, in Europa, gli uomini di Chiesa praticavano le più atroci torture in nome di Dio. Se nel 1484 era stata scritta la famosa bolla papale "Summis desiderantes affectibus" a proposito delle streghe, le amanti del maligno, il sentimento di odio e di terrore irrazionale già da tempo aveva preso piede. Tortura dell'acqua, stivaletto, strappata, veglia e ovviamente rogo erano solo alcuni dei supplizi che la mente sadica degli inquisitori aveva partorito.
Ecco dunque una storia di stregoneria, una vittima e il solito rituale pubblico. L'accusata: una povera donna del popolo, Anne Eve.
"Nell'estate del 1658, a Wehlitz, un villaggio a 5 km da Gommern, presso Magdeburgo, avvenne un fatto insignificante. Una donna, Anne Eve, stende la biancheria a stendere in giardino ad asciugare al sole. Quando va per ritirarla, due bambine l'avevano sporcata e in un momento di stizza la donna impreca 'Rospi del diavolo'" Il caso vuole che una delle due bambine muore accidentalmente e Anna Eve viene accusata di satanismo. Processo, tortura. Era il 9 ottobre 1660 quando la poveretta è trascinata davanti al tribunale. Il giudice le fa quattro domane. Alla prima "Siete una strega?" il carnefice le stritola i pollici. L'inquisita risponde che neppure sa cosa significhi "strega". Alla seconda domanda, "Avete fatto del male?", il boia le applica le cosiddette scarpe spagnole. Alla terza domanda "Avete conosciuto i dragoni del diavolo?", le viene inflitta la strappata (rottura delle ossa). Infine all'ultima domanda "Dite tutto ciò che sapete, tutto ciò che avete fatto", di nuovo le vengono infilati i piedi nelle scarpe spagnole. Ma Anne Eve non confessa, non sa cosa deve confessare, di cosa è accusata. Il fatto inoltre che la donna non abbia versato neppure una lacrima è segnale ch'essa è demoniaca, perché insensibile al dolore, al punto che si è addormentata due volte durante il processo - viene fatto notare dai giudici - (in realtà era svenuta). "La furia tormentatoria si abbatte ancora su di lei. E' irrigata, sfregiata, affumicata con zolfo bollente. La si sottopone a una violentissima strappata, le si spezzano le ossa a martellate, le si fa trangugiare ancora del liquido e le si brucia ancora con lo zolfo sotto il mento, le ascelle e nelle parti intime. D'un tratto una calma profonda, paurosa (.) La bocca si contorce, il viso diventa livido. Carnefici e giudici temono che la preda sfugga e nell'estremo tentativo di sottrarla alla morte le fanno odorare dell'aceto. Ma Anne Eve è morta. Sono le otto del mattino del giorno 11 novembre 1660. Le 'operazioni' erano cominciate all'alba, alle quattro"
Squartamento per lesa maestà:
Cosa s'intende quindi per ordine costituito? E' la società che si difende o comunque si sente legittimata a difendersi contro ogni minaccia reale o immaginaria che in qualche modo metta in discussione uno stile di vita comune, con le sue regole, le sue credenze, la sua morale religiosa, le sue abitudini. A garanzia di questo ordine, al di sopra di tutto, siede il re, il capo tribù, l'imperatore, il pater familias (nel microcosmo familiare), ossia colui che incarna il Potere. Potere cui viene conferita spesso una natura sovra-umana, sacra, divina. Potere che in nessuna maniera e per nessuna ragione deve essere messo in discussione, pena l'annientamento dell'intera comunità.
Attentare direttamente alla persona del re in una monarchia significa quindi commettere una colpa che va ben oltre il gesto in sé. E' una minaccia all'intera società.
"Cinque gennaio 1757, Robert François Damiens procurò una ferita al costato del re Luigi XV con un temperino. Le ragioni non si vennero mai a sapere. Immediatamente immobilizzato dalle guardie, cominciò per lui un lungo e tormentato calvario. Fu sottoposto innanzitutto alla tortura dello stivaletto, strumento che serviva a fratturare le caviglie. Si faceva infilare il piede del condannato nello stivale di ferro e negli spazi liberi s'incuneavano a martellate zeppe roventi. Non contenti i carnefici gli strapparono la carne dalle gambe con ferri infuocati, poi lo gettarono in una cella strettissima quasi priva di ossigeno. Il 26 marzo 1757, legato come una bestia in un sacco di cuoio, fu gettato ai piedi dei giudici. Riconosciuto colpevole di lesa maestà fu condannato a essere portato sulla piazza de Greve e qui a essere 'attenagliato' al petto, braccia, cosce e polpacci. Sulle parti 'attenagliate' fu gettato olio bollente, pece resinosa, cera e zolfo fusi. La sua mano destra fu costretta a prendere un coltello e poi bruciata con 'fuoco di zolfo'. Infine il corpo 'tirato e smembrato da quattro cavalli' e le sue membra 'consumate al , ridotte in cenere e gettate al vento'. La macabra esecuzione avvenne davanti a una folla delirante ed eccitata. Sembra che il poveretto non si decidesse a morire e che per ben tre volte i cavalli caddero perché le sue membra non si lasciavano staccare. Un uomo nella folla, un medico forse, gridò 'Datemi un coltello, occorre amputare i fasci di nervi degli arti. Dobbiamo facilitare il lavoro a quelle povere bestie'. E così fece. Quando i cavalli si misero in moto, una coscia si staccò per prima, poi l'altra, poi un braccio. Damiens respirava ancora. Finalmente nel momento in cui i cavalli s'irrigidirono trattenuti da un solo arto che restava, le sue palpebre si sollevarono, i suoi occhi si volsero al cielo e quel tronco trovò la morte."
Tortura indiana
Tra tutti i riti di iniziazione praticati dai selvaggi, quelli degli Indiani nordamericani sono però forse i più terrificanti, consistendo in torture atroci e diaboliche. Le procedure variavano da tribù a tribù, ma sembra che quella dei Mandan fosse la più spietata e sanguinaria. Prima di essere sottoposto alla prova, il giovane doveva digiunare. Il procedimento, dice Catlin, era il seguente:
“L'iniziando, col petto rivolto verso l'alto, si disponeva sulle mani e sui piedi. Un uomo, che serrava un coltello nella mano destra, afferrava un pollice o più di carne da ciascuna spalla o da ciascun seno e la sollevava con due dita, al di sotto delle quali infilava la sua lama, affilata da entrambi i lati, nonché intaccata o dentellata con un'altra per provocare il maggior dolore possibile. Una volta estratta, un altro uomo, che teneva stecche e spiedi nella mano sinistra, era pronto a infilarli nella ferita. Si facevano quindi scendere due corde dalla sommità della capanna (tenute da due uomini appositamente posti fuori dalla stessa) e dopo averle assicurate a quei dolorosi appigli, si cominciava a sollevare il corpo dell'iniziando; durante l'elevazione, erano introdotti altri spiedi nella carne o nei tegumenti di ciascun braccio, sotto la spalla, ma anche sotto il gomito e le ginocchia. Si completava infine il sollevamento fino alla sospensione dell'intero corpo e, mentre il sangue colava per le membra, gli astanti, sempre a quegli spiedi, appendevano anche il proprio scudo, il proprio arco, la faretra, ecc.” (G.Catlin, Letters and notes on the manners, customs and conditions of the North American Indians, 1841, p.170)
Come se non bastasse, la vittima veniva gradualmente e ulteriormente sollevata, cosicché, non solo il peso del suo corpo, ma anche quello dei vari oggetti attaccati alle sue membra, gravassero sui punti a cui erano ancorate le corde. Era tale la sollecitazione della carne, nei punti nei quali erano inseriti gli spiedi, che, rispetto al tessuto circostante, si allungava per sei o otto pollici di altezza. E così, questi uomini, in uno stato di agonia che al solo pensiero fa rabbrividire, se ne stavano appesi per aria, ricoperti del loro stesso sangue coagulato, soffocando il benché minimo gemito, nello sforzo di superare questa suprema prova di resistenza e coraggio. «Facevano spavento e orrore alla vista», dice Catlin. In aggiunta, solo quando le autorità si fossero ritenute soddisfatte, avrebbero ordinato di riportare a terra i corpi, dove avrebbero giaciuto apparentemente senza vita, per riaversi solo dopo molto tempo.
Si potrebbe pensare che un simile supplizio possa soddisfare i più esigenti fautori della disciplina. E invece no, le sofferenze dell'iniziato non si sono esaurite qui. È esistita infatti un'altra prova di sopportazione, che è nota come "l'ultima corsa", ossia, nella lingua della tribù che l'ha praticata, Eh-ke-nah-ka-nah-pick. Ogni giovane veniva affidato a due atletici guerrieri più anziani di lui. Una di queste guardie, se così possiamo chiamarle, stava a destra dell'iniziando, mentre l'altra alla sua sinistra, ma entrambe gli tenevano stretta l'estremità libera delle cinghie di cuoio che gli avvolgevano i polsi. In vari punti aveva appesi alla carne, per mezzo di spiedi, pesi diversi. Ad un segnale stabilito le due guardie si mettevano a correre in tondo attorno al giovane in loro custodia, trascinandolo. Gli iniziandi, erano trascinati in tondo, l'uno dietro l'altro, dalle rispettive scorte, mentre i pesi gravavano sulle loro carni, che si laceravano in orribili brandelli insanguinati. La prova continuava finché la vittima, per la stanchezza e per il sangue perduto, sveniva.