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Distruzioni del patrimonio artistico

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morgana1869
view post Posted on 22/4/2013, 07:32     +1   -1




Distruzioni del patrimonio artistico




Prefazione

Questa sezione sarà dedicata alla distruzione del patrimonio artistico dalle:
Architetture
Dipinti
Film
Sculture
Opere teatrali
Uova di Fabergè
Gioielli

buona lettura a tutti
Morgana1869


Architetture scomparse





Abbazia di Bourras




L'&nbso;Abbazia di Bourras (dal latino Bonus radius) fu un'abbazia cistercense francese sita nel dipartimento della Nièvre, in Borgogna, nel territorio dell'attuale comune di Saint-Malo-en-Donziois.


Storia

L'abbazia fu fondata nel 1119 grazie al finanziamento di Ugo di Thil, signore di Champlemy, e della sua consorte Alice di Montenoison. Essa era una filiazione dell'abbazia primigenia di Pontigny (nello stesso anno in cui l'abbazia di Cadouin si poneva sotto la sua protezione). Essa fu luogo di sepoltura di diversi Signori di Montenoison. Alla fine del medioevo l'abbazia entrò nel regime delle commende.

Nel 1568, durante le guerre di religione, l'abbazia fu data alle fiamme dalle truppe del conte Palatino e duca di Zweibrücken, Wolfgang del Palatinato-Zweibrücken.

Nel 1790 nell'abbazia vivevano solo più tre monaci e l'anno successivo, con la Rivoluzione francese, essa terminò la sua vita.

Edifici e ambiente

Dell'abbazia sono rimasti la casa dell'abate commendatario, trasformata in una grossa casa signorile di campagna, e gli edifici dedicati all'agricoltura che ancor oggi sono quelli di una fattoria. Nelle vicinanze della casa dell'abate commendatario, sono state ripristinate tre arcate del chiostro. Basi e capitelli delle colonne portanti della chiesa sono state ritrovati. La cancellata del coro della chiesa abbaziale è ora nella chiesa parrocchiale di Varzy.


Abbazia di Chelles






L'abbazia di Chelles era un'antica abbazia reale femminile situata a Chelles, fondata in epoca merovingia per volere della regina dei Franchi santa Batilde, sposa di Clodoveo II.

Alto Medioevo

Una possibile data di fondazione è il 656, forse su un piccolo monastero preesistente, dedicato a Santa Clotilde e che seguiva la regola di Cesario d'Arles.

Il compito di organizzare la fondazione fu affidato al vescovo di Lione Genesio, il quale chiese all'abbazia di Notre-Dame de Jouarre alcune monache per portare a Chelles la regola colombaniana; prima badessa fu per nomina reale Bertilla.

Quando (nel 664 circa) vi si ritirò la regina Batilde, l'abbazia attirò come novizie le figlie della nobiltà più elevata, tanto dalla Francia che dall'estero, e poté inviare monache a fondare nuovi monasteri sino in Inghilterra; esponenti di spicco del monachesimo anglosassone ispirato da Chelles furono le sante Mildthryth (o Mildred), Mildburh (o Milburga) e Mildgyth (o Mildgytha).

Nel 715 vi fu confinato Teodorico IV, alla morte del padre Dagoberto III, sino a quando sei anni dopo il maggiordomo di palazzo Carlo Martello lo trasse dall’abbazia e lo mise sul trono dei Franchi.

Nel 753 vi fu rinchiusa Swanachilde di Baviera, seconda moglie di Carlo Martello, dopo la morte di questi e la sconfitta di Grifone, ribelle ai fratellastri Carlomanno e Pipino il Breve, legittimi eredi dei possedimenti paterni.

Sul finire del secolo (di sicuro prima del 788) diventò badessa di Chelles Gisella, sorella di Carlo Magno. Sotto il suo governo fu deciso l'ampliamento del monastero, con la costruzione di una nuova chiesa, intitolata alla Madonna, e la ristrutturazione della chiesa preesistente che venne suddivisa e in parte adibita a cappella per i religiosi del priorato e dedicata alla Santa Croce, e in parte a chiesa parrocchiale per il personale di servizio e dedicata a San Giorgio.
Sempre per iniziativa di Gisella, e con l'augusta approvazione di Carlo Magno, l'abbazia di Chelles divenne un importante centro di copiatura, conservazione e restauro di manoscritti, in gran parte perduti nel XIII secolo in seguito ad un incendio, poi definitivamente dispersi con la Rivoluzione francese.

Nell'855 Carlo il Calvo donò alla moglie Ermentrude d'Orléans il titolo di badessa commendataria, beneficio che passò poi ad una figlia di Carlo, Rotilde; questa, badessa dell'abbazia reale di Soissons, nell'ultima parte della vita risiedette a Chelles, forse anche per scampare alle ricorrenti incursioni normanne, da cui peraltro neppure Chelles fu risparmiata, e probabilmente rivestì il ruolo di badessa anche de facto.

Nel 925 circa Richilde morì, e per più di un secolo non possediamo notizie sull'abbazia, forse a causa dell'incendio del XIII secolo. Sappiamo però che nel 1008 Roberto II di Francia convocò a Chelles un concilio cui presero parte i vescovi di Sens, Tours, Orléans, Troyes, Châlons, e Tarbes.

Basso Medioevo

Nel XII secolo, anche a causa di guerre e carestie, l'abbazia visse anni di grande difficoltà economica, da cui poté in parte risollevarsi grazie ad alcune donazioni e alle doti di alcune nobili novizie. Nel 1185, badessa Maria I di Duny e presente il vescovo di Parigi Maurice de Sully, avvenne con grande cerimonia la traslazione del corpo di Santa Bertilla, dalla cripta sotto la chiesa del priorato, alla chiesa nuova, dove fu posto a fianco delle reliquie di Santa Batilde.

Il secolo successivo vide, nel 1226, un grande incendio distruggere gran parte degli edifici abbaziali, e la comunità costretta a disperdersi temporaneamente. Per interessamento delle più importanti abbazie francesi, e dello stesso vescovo di Parigi, fu lanciata una grande raccolta di offerte, anche col pellegrinaggio attraverso il Paese delle reliquie della santa fondatrice; gli oboli furono generosi e più che sufficienti alla ricostruzione, nello stile gotico dell'epoca, sia degli edifici di alloggio e servizio, che della chiesa (a croce latina, con una galleria di cappelle absidali, come descritto in una pianta tracciata nel 1688). Dopo l'incendio l'abbazia visse un periodo di prosperità, incrementata da esenzioni, donativi e privilegi, tra cui si possono citare quelli ricevuti nel 1228 dal connestabile di Francia Matteo II di Montmorency.

Sotto il governo di Matilde V di Nanteuil (1250-1274), in un periodo di particolare prosperità economica, venne completamente riedificata la chiesa parrocchiale di San Giorgio, i cui canonici e chierici divennero così in tutto dipendenti dall'abbazia.

Con lo scoppio della guerra dei cent'anni e la peste nera di poco successiva a questo, l'abbazia - come il resto della Francia - entrò in un periodo di grave difficoltà; ciononostante non diminuirono le professe, che nel 1350 sappiamo erano in numero di 80 Nel 1355, al termine della tregua imposta dalla pestilenza, Giovanni II convocò a Parigi gli Stati generali, per votare la ripresa della guerra e il finanziamento necessario. Chelles fu tassata per un importo di 1600 lire tornesi, somma notevole, che i commissari reali riscossero a scapito dei fondi agricoli e dei coloni, privando l'abbazia di gran parte dei propri mezzi di sostentamento. La badessa in carica, Adeline II di Pacy, non esitò a rivolgersi direttamente al Delfino Carlo, che regnava durante la prigionia di Giovanni II. Carlo accordò una rateizzazione in sedici anni, per un importo di 100 lire l'anno; dopo non molto tempo Adeline ottenne l'esenzione totale dall'imposta, il che diede modo al monastero di risollevarsi e ritrovare una sembianza della passata prosperità.

Nel maggio-giugno 1358 le campagne di Île-de-France, Piccardia, Champagne, Artois e Normandia furono percorse da quella rivolta contadina che andò sotto il nome di Grande Jacquerie, e anche le religiose di Chelles furono costrette a rifugiarsi nella città di Parigi con le reliquie e i beni più preziosi. Quando il Delfino si accampò a Chelles, il 22 giugno, per reprimere gli eccessi della Jacquerie, trovò in effetti il monastero saccheggiato, anche per mano inglese. Il trattato di Brétigny segnò l'inizio di un periodo di relativa pace che incoraggiò le religiose a ritornare alla loro sede, dove ritrovarono solo edifici in rovina

Nel periodo di relativa tregua seguente il trattato, come in gran parte della Francia, anche a Chelles imperversavano le Grandi Compagnie, bande di mercenari smobilitati e di predoni dedite al saccheggio e alla rapina. Nel 1369 le religiose, sotto la protezione di Carlo V di Francia, badessa Giovanna II di La Forest, dovettero trovare nuovamente rifugio a Parigi. Poterono tornare alla loro casa solo dopo che le Compagnie ebbero cessato il loro girovagare trovando impiego nella guerra di Castiglia tra Pietro I il Crudele ed Enrico di Trastamara. Dopo una nuova faticosa opera di ricostruzione, che vide anche il restauro della tomba di Santa Batilde, il monastero fu in più occasioni onorato della visita della pia consorte di Carlo, la regina Giovanna di Borbone.

Il nuovo secolo portò con sé altro disordine al monastero, dove, in ragione delle traversie precedenti, si vissero un allentamento della rigidità della regola monastica ed un decennale scontro con l'autorità vescovile, dalla quale le badesse cercavano da tempo con insistenza di affrancarsi; intanto un nuovo conflitto, non meno rovinoso del precedente, era scoppiato, la guerra civile tra Armagnacchi e Borgognoni, particolarmente vivo nei dintorni della Capitale. Ancora una volta le religiose dovettero lasciare l'abbazia per rifugiarsi a Parigi, dapprima con l'avanzare delle truppe di Giovanni di Borgogna (settembre 1405), e poi ancora nel 1411 e , di fronte alle bande di Armagnacchi cui si erano uniti ladri e predoni che vivevano di saccheggio. Di ritorno dall'esilio la badessa, Agnese II di Neuville, si rivolse alla regina consorte Isabella di Baviera, che si trovava in quel periodo a Melun col suo favorito Luigi di Valois-Orléans; non solo ne ottenne aiuto per la ricostruzione ma anche il permesso di erigere fortificazioni - mura, porte e fossato - intorno all'abbazia, cosa che fu portata a compimento come testimoniano documenti del secolo successivo. Ad Agnese di Neuville si attribuisce l'istituzione dell'elemosina di Santa Batilde, ossia la distribuzione, il giorno dopo la festa della fondatrice, di pane e vino a tutti i bisognosi (l'usanza, dal 1402, continuò ininterrotta sino al 1790, quando l'abbazia fu soppressa).

Gli anni seguenti videro nuove traversie per il monastero e la Francia tutta, in particolare per Parigi, in preda alla guerra civile, assediata più volte dalle truppe di Carlo VII (nel 1427, nel 1429 con Giovanna d'Arco, nuovamente nel 1435); non meno difficile l'esistenza nei dintorni della Capitale: Chelles subì più volte il passaggio di truppe di entrambi gli schieramenti, coi conseguenti saccheggi.

Epoca moderna

Rimase attiva fino alla Rivoluzione francese, quando nel 1790 fu chiusa, venduta nel 1796 come bene nazionale e successivamente demolita.

Elenco delle badesse

Santa Bertilla (680-705)
Sigisle (705-708)
Vilcome (708-724)
Ermengarde (724-7??)
Clementine
Asceline I
Sibille
Marsilie o Marsille
Gisella (7??-810), sorella di Carlo Magno
Helvide o Hegivilde o Edvige di Sassonia (825/826-855), madre dell'imperatrice Giuditta di Baviera
Ermentrude d'Orléans (855-869), moglie di Carlo il Calvo
Rotilde di Neustria (869-925 circa), figlia di Carlo il Calvo e di Richilde di Provenza
Matilde I (1097 circa-1112)
Ameline I (1112- dopo il 1137)
Matilde II (1155-1156)
Helvide II (1156-1177)
Asceline II (1177-1178)
Maria I di Duny (1178-1190 circa)
Éméline o Ameline II (1190 circa-1205)
Maria II di Néry (1206-1208)
Matilde III di Berchère (1208-1220)
Matilde IV di Corbeil (1220-1223)
Florence (1223-1230)
Margherita I di Néry (1230-1231)
Pétronille I di Mareuil (1231-1250)
Matilde V di Nanteuil (1250-1274)
Adeline I di Nanteuil (1280-1311)
Alice I di Clignet d'Otis (1311-1317)
Margherita II di Pacy (1317-1348)
Pétronille II di Paroy (1348-1354)
Adeline II di Pacy (1354-1363)
Giovanna I di Soissy (1363)
Agnese I di La Queue (1364-1368)
Giovanna II di La Forest (1368-1379), sorella del cancelliere di Francia e arcivescovo Pierre de La Forest
Giovanna III di Roye (1379-1399), sorella dell'arcivescovo di Tours Guy de Roye
Agnese II di Neuville (1399-1414)
Alice II di Thorote (1414-1420)
Maria II di Cléry (1420-1429)
Elisabetta di Pollye (1429-1475)
Caterina I di LignIs (1475-1504)
Giovanna IV di La Rivi (1504-1507)
Maria III di Reilhac (1507-1510)
Maria IV Cornu (1510-1514)
Caterina II Margherita di Champrond (1514-1518)
Barbe di Tallensac (1518-1528)
Maddalena I di Chelles (1528-1542)
Jacqueline d'Amignon (1542-1579)
Renata di Borbone (1579-1583), figlia di Carlo IV di Borbone-Vendôme
Maria V di Lorraine-Aumale (1583-1627)
Maria-Enrichetta di Bourbon (1627-1629), figlia di Enrico IV
Maddalena II di la Porte de La Meilleraye (1629-1671)
Margherita III Guidone di Cossé-Brissac (1671-1680)
Caterina III di Scorailles de Roussille (1680-1688)
Margherita III Guidone di Cossé-Brissac (1688-1707) (per la seconda volta)
Agnese III Carlotta di Villars (1707-1717)
Luisa Adelaide di Borbone-Orléans (1717-1734), figlia di Filippo II di Borbone-Orléans
Anna di Clermont-Chaste di Gessans (1735-1790)


Abbazia di Landévennec





L'abbazia di san Guénolé di Landévennec (in francese Abbaye Saint-Guénolé de Landevénnec) è un'abbazia situata nel comune di Landévennec, in Bretagna. La tradizione vuole che sia stata fondata nel V secolo da san Guénolé, cosa che la rende una delle più antiche e importanti della Bretagna. Nel 1793 fu abbandonata, per essere rifondata nel 1958 da una comunità di monaci benedettini appartenenti alla congregazione Sublacense. Il 26 maggio 1992 l'antica abbazia fu classificata come Monument historique.


Antica abbazia di San Guénolé

Il nome Landévennec ha nel suo nome il prefisso "lann-", che in bretone indica un luogo religioso; non si è tuttavia ancora spiegata in modo certo l'etimologia della seconda parte del nome. Una delle versioni vuole che venga dal nome gallese del suo fondatore, Walloé (Guénolé).

Guénolé si stabilì nella regione dell'estuario dell'Aulne assieme a undici compagni, dove divenne in breve tempo amico del re Gradlon, primo re di Cornovaglia. La vita di san Guénolé ci è trasmessa dall'abate Gurdisten e dal monaco Clemente, fonte di Gurdisten.

L'abbazia fu fondata nel 485, e seguiva le regole del monachesimo irlandese, che prevedeva tra l'altro l'uso di tuniche bianche, di cappucci di lana e il tradizionale rispetto dei voti di obbedienza, castità e povertà. San Guénolé ebbe un ruolo fondamentale nella cristianizzazione della regione, e l'abbazia divenne così in breve tempo un centro fondamentale per la vita religiosa e monastica della Bretagna. Dopo la morte di Guénolé divenne abate san Gwenaël.

Nell'818 Ludovico il Pio, imperatore del Sacro Romano Impero, giunse in Bretagna per conquistarla e convinse l'abate dell'epoca, Matmonoc, a rinunciare alla regola irlandese in favore di quella benedettina, senza che l'abbazia (all'epoca chiamata Lantowinnoc) perdesse però la sua influenza celtica, come testimonia il caratteristico stile dei codici miniati. Il IX secolo fu considerato l'età d'oro dell'abbazia di Landévennec.

A partire dall'884 i Normanni iniziarono le loro scorrerie in Bretagna, fino al giorno in cui, nel 913 saccheggiarono e incendiarono l'abbazia. I monaci fuggirono salvando le spoglie di san Guénolé, che furono portate a Montreuil-sur-Mer, dove trasferirono la biblioteca, i reliquiari e fondarono l'abbazia di San Walois.

Le invasioni vichinghe e l'influenza carolingia fecero fuggire molti Bretoni in Francia e Gran Bretagna, mentre la Bretagna occidentale si impoverì economicamente e culturalmente, perdendo anche moltissimi testi redatti nei monasteri.

L'abate Jean, capo della comunità monastica fuggita da Landévennec, riuscì a convincere Alano II Barbastorta, duca di Bretagna, a tentare di cacciare definitivamente i Normanni. Le battaglie svoltesi a Dol, Saint-Brieuc e a Nantes, nel 936, diedero ragione al duca, e così i monaci poterono tornare al monastero. Alano Barbastorta concesse all'abbazia la parrocchia di Batz-sur-Mer, il monastero di Saint-Médart-de-Doulon e le chiese di Saint-Cyr e Sainte-Croix, situate a Nantes.

A metà dell'XI secolo iniziò la costruzione della badia romanica, contemporaneamente alla redazione del cartulario di Landévennec.

Nel 1793, quando ormai restavano solo 4 monaci, l'abbazia fu abbandonata e poi venduta come bene nazionale, cosicché cambiò di proprietà almeno sei volte nel corso del secolo successivo.

Nuova abbazia di San-Guénolé


Il 18 giugno 1950 fu decisa la costruzione di una nuova abbazia, che fu terminata e gestita dalla comunità benedettina di Kerbénéat, affiliata alla congregazione Sublacense a partire dal 7 settembre 1958. Alla cerimonia di inaugurazione, oltre a una numerosa folla, parteciparono anche vescovi e abati di tutta la Bretagna.

Scavi e museo

A partire dal 1978, sul luogo furono eseguiti degli scavi, durante i quali vennero alla luce reperti dell'età carolingia e romanica e il più antico chiostro d'Europa, risalente all'anno 1000.

Il museo fu inaugurato nel 1990, e raccoglie sepolcri, capitelli e manoscritti originari delle diverse epoche vissute dall'abbazia, mentre dal 1988 l'associazione Abati Landevenneg di occupa della gestione del sito archeologico. Annualmente vengono proposte esposizioni artistiche e musicali per far conoscere meglio il luogo.


Abbazia di Savigny




L'Abbazia di Savigny è un'antica abbazia normanna fondata nel XII secolo da San Vitale come monastero doppio. Qualche decennio dopo l'abbazia entrò nell'Ordine di San Benedetto. Dopo uno sviluppo notevole, con le guerre di religione francesi, l'abbazia subì saccheggi e distruzioni che la portarono alla decadenza. Abolita e confiscati edifici e beni rimasti dalla Rivoluzione francese, l'abbazia terminò la sua vita alla fine del XVIII secolo ed oggi ne rimangono solo più le rovine.

Storia

San Vitale, nato verso il 1050 a Tierceville, presso Bayeux, fu cappellano di Roberto di Mortain e canonico della collegiale di Mortain.

I suoi talenti e le sue notevoli qualità gli valsero una meritata reputazione. Il romitaggio che aveva creato a Dompierre en Mantilly (conformemente ai suoi gusti di ritiro spirituale) non era più sufficiente per i suoi numerosi seguaci.

Egli fondò quindi l'abbazia di Savigny, al centro di una foresta selvaggia, su un terreno dono di Raoul de Fougères, signore di Fougères (1112) Raoul si era ammalato gravemente ma le preghiere di Vitale lo salvarono. Fu subito eretta una chiesa in legno ed alcuni edifici circostanti: si trattava di un monastero doppio, una comunità maschile e, a circa 500 passi, una comunità monastica femminile, alla cosiddetta Prise aux Nonnes, all'ingresso della foresta.

Nel 1120 le monache si spostarono al priorato della Blanche (o abbaye Blanche), presso Mortain,fondato dalla sorella di San Vitale, santa Adelina.

L'abbazia si sviluppò rapidamente e san Vitale morì nel 1122, dopo aver fondato tre nuove case monastiche (i suoi successori ne fondarono 26, tra Francia ed Inghilterra).

L'abbazia di Savigny, con il concilio di Reims, tenutosi nel 1148, s'unì all'Ordine Cistercense del quale adottò usi e regola monastica.

Nel 1200 fu terminata la sontuosa chiesa abbaziale, ancora in piedi nel 1789. L'arcivescovo di Rouen la consacrò nel 1220.

Cinque religiosi di quest'abbazia salirono all'onore degli altari:
san Vitale;
san Goffredo;
san Pietro d'Avranches;
san Guglielmo;
sant'Hamon

ai quali si può aggiungere santa Adelina, sorella di San Vitale, che fondò l'abbazia di Mortain.

La traslazione delle loro reliquie ebbe luogo di fronte a 100.000 persone nel 1248.

Nel 1172 il re d'Inghilterra Enrico II v'incontrò gli emissari di papa Alessandro III a seguito dell'assassinio di Thomas Becket.

Nel 1256 San Luigi si recò in visita all'abbazia. Pierre-Daniel Huet, vescovo d'Avranches, vi si recò nel 1696.

Nel 1562 l'abbazia subì il saccheggio da parte dei calvinisti, il che costituì un grave colpo per il monastero, che da allora cominciò il suo declino. Essa verrà ancora saccheggiata e data alle fiamme dai seguaci protestanti di Gabriele I di Montgomery.

La Rivoluzione del 1789 espulse i monaci e successivamente un vandalismo cupido portò alla distruzione di quest'importante capolavoro. La mobilia fu venduta e gli edifici distrutti per essere utilizzati come cave di pietra.

Architettura

L'architettura era maestosa: la cuspide era alta 70 m, la superficie della chiesa abbaziale raggiungeva i 3256 m², vi erano 15 altari, 76 vetrate e 3 rosoni di 6 m.



Castello di Choisy



Il castello di Choisy era un castello reale situato a Choisy-le-Roi, comune della regione parigina che acquistò questo nome quando il castello venne acquistato da Luigi XV nel 1739.


Edited by morgana1869 - 26/4/2013, 10:12
 
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morgana1869
view post Posted on 22/4/2013, 08:01     +1   -1




Castello di Marly






Il Castello di Marly era una residenza reale francese situata nell'odierno comune di Marly-le-Roi, che confinava con il parco reale e che inizialmente era stato creato per il castello.

Nel castello di Marly, Luigi XIV di Francia si rifugiò per sfuggire alle formalità di Versailles. Camere più piccole significava infatti meno compagnia e quindi meno protocollo; i cortigiani, che lottarono tra loro per essere invitati al Marly, furono alloggiati in dodici padiglioni costruiti su due linee che fiancheggiano la grande fontana posta di fronte alla residenza del re.

Storia

I lavori per la costruzione del castello iniziarono nella primavera del 1679, il 22 maggio,[1] prima che Luigi XIV avesse spostato permanentemente la sua corte a Versailles. Il re voleva costruire una residenza isolata nelle sue proprietà situate tra i boschi tra la Reggia di Versailles e il Castello di Saint-Germain-en-Laye e così scelse Marly.

Il progetto per la costruzione di Marly è frutto della collaborazione dell'architetto Jules Hardouin Mansart e del pittore Charles Le Brun, che avevano già lavorato insieme per la realizzazione della Galerie des Glaces a Versailles. Nel giugno 1684 vennero ultimati i lavori dell'impianto idraulico e la costruzione si poteva considerare quasi completata. Nel 1686 fu inaugurato per la prima volta dal re e da una ristretta cerchia di ospiti che vi alloggiarono per qualche giorno. Nel 1688 fu aggiunto il Grand Abreuvoir à chevaux, un abbeveratoio per cavalli, e fino alla sua morte Luigi XIV continuò ad aggiungere altri abbellimenti al parco boscoso e creò nuove fontane, tra cui la Rivière o Grande Cascade costruita tra il 1697 e il 1698. Nel 1712, in questo castello, morì anche Luigi di Borbone-Francia (1682-1712), duca di Borgogna e Delfino di Francia. L'intera Corte si era ritirata a Marly per sfuggire ad un'epidemia di morbillo che decimò dal 1710 la famiglia reale.

Durante i regni di Luigi XV e del successore Luigi XVI la residenza venne trascurata e andò in rovina a poco a poco. Il re di Francia soggiornò nel castello per l'ultima volta nel luglio 1789.

Con la Rivoluzione francese, il castello venne saccheggiato dai rivoluzionari e alcune opere vennero portate altrove, come le sculture di Guillaume Coustou, i "cavalli di Marly", che furono portate a Parigi (1794) e collocate all'ingresso degli Champs-Élysées (oggi si trovano nel Museo del Louvre). Il 31 marzo 1799 venne poi acquistato dal parigino Alexandre Sagniel, che lo trasforma in una fabbrica per filare il cotone. L'azienda però non fu molto redditizia e Sagniel cercò di recuperare soldi smantellando il castello e rivendendo il materiale recuperato, ma nel 1806 la sua azienda fallisce così velocizza la demolizione e le rovine rimaste verranno poi riacquistate dall'impero nel 1810. A causa di un dissidio tra Sagniel e Napoleone, quest'ultimo vi stanzierà delle truppe che contribuirono alla distruzione del castello, saccheggiando quello che restava.

Attualmente non resta niente di visibile del castello, se non i segni sul terreno delle fondamenta del padiglione reale


Castello di Saint-Cloud




Il Castello di Saint-Cloud era un castello reale in Francia, costruito su un luogo magnifico che guarda verso la Senna a Saint-Cloud in Hauts-de-Seine, a circa 10 chilometri ad ovest di Parigi. L'Hôtel d'Aulnay esistente sul sito fu ampliato in un castello nel sedicesimo secolo dalla famiglia dei banchieri fiorentini Gondi, poi da "Monsieur" Filippo I di Borbone-Orléans, nel diciassettesimo secolo, ed infine da Maria Antonietta nel 1780 circa. Dopo essere stata reggia di Napoleone I e di Napoleone III, il castello andò distrutto nel 1870, durante la guerra franco-prussiana.

Oggi rimangono soltanto alcuni edifici attigui ed il parco di 460 ettari, che costituiscono il Domaine national de Saint-Cloud. Il Pavillon de Breteuil nel parco è stato la sede del Bureau International des Poids et Mesures dal 1875.


Sedicesimo secolo: i Gondi

Il Gondi erano una famiglia di banchieri fiorentini stabilitisi a Lione durante i primi anni del sedicesimo secolo, giunti alla corte della Francia nel 1543, al seguito di Caterina de' Medici. Negli anni settanta del secolo, la regina offrì a Girolamo di Gondi una dimora a Saint-Cloud, l'Hôtel d'Aulnay, che si trasformò nel nucleo del futuro castello con un'ala ad angolo che si protendeva verso una terrazza. La facciata principale affacciava a sud, con un'ala che terminava in un padiglione che permetteva una vista panoramica sulla Senna. Enrico III di Francia si installò in questa casa per condurre l'assedio di Parigi durante le guerre di religione francesi e qui venne assassinato dal monaco domenicano Jacques Clément.

Dopo la morte di Girolamo di Gondi nel 1604 l'edificio venne venduto nel 1618 da figlio Giovanni Battista II de Gondi a Jean de Bueil, conte di Sancerre, che morì poco dopo. Il castello fu allora ricomprato da Giovanni Francesco di Gondi, arcivescovo di Parigi. L'arcivescovo abbellì molto il complesso, in particolare i giardini grazie all'opera di Thomas Francine.

Dopo la morte di Giovanni Francesco di Gondi, nel 1654, l'edificio venne ereditato da Filippo Emanuele di Gondi e poi da suo nipote Enrico di Gondi, duca di Retz, che vendette la proprietà nel 1655 a Barthélemy Hervart, un banchiere d'origine tedesca che era allora intendente delle finanze. Questi ingrandì il parco a dodici ettari realizzando ingenti opere di ricostruzione, tra le quali una grande cascata, diversa da quella attualmente esistente nel parco.

I giardini furono disegnati da Israel Silvestre, secondo lo stile all'italiana, con facciate affrescate. I giardini discendevano verso la Senna digradando in una serie di terrazze, con fontane ad ogni livello.

Diciassettesimo secolo: Monsieur, Filippo duca d'Orléans

Il 8 ottobre 1658, Hevart organizzò una suntuosa festa a Saint-Cloud in onore del giovane Luigi XIV di Francia, del suo fratello minore Filippo I di Borbone-Orléans duca d'Orléans, della loro madre Anna d'Austria e del cardinale Mazarino. Due settimane dopo, il 25 ottobre, Monsieur comprò il castello e le sue pertinenze per 240.000 lira tornese. Sembra che Mazarino abbia favorito la vendita, contribuendo ad una politica di sviluppo della rete di castelli reali ad ovest di Parigi, salvando l'eccessivamente arricchito Hervart dal destino di Nicolas Fouquet, la cui festa a Vaux-le-Vicomte lo condusse alla rovina e alla prigione.

Monsieur si occupò dei lavori di costruzione a Saint-Cloud fino alla sua morte nel 1701: i progetti furono disegnati e realizzati dall'architetto Antoine Lepautre, che costruì le ali dell'edificio nel 1677. Il castello che fu ricostruito per Monsieur aveva una forma ad U aperta ad oriente, verso la Senna, con il castello dei Gondi, orientato a sud, integrato nell'ala di sinistra. Sul retro, una lunga orangerie si prolungava lungo l'ala destra della corte. Il viale d'ingresso, bordato da dependacies, alcune delle quali ancora esistenti, arrivava da un angolo tramite un piccolo ponte.

All'interno, l'appartamento di Madame, Enrichetta Anna Stuart che si trovava nell'ala di sinistra venne decorato da Jean Nocret nel 1660 e i 45 metri della Galleria d'Apollo, che occupava tutta l'ala di destra, venne decorata con i miti di Apollo da Pierre Mignard entro il 1680.

Nel mese di ottobre del 1677, cinque giorni di suntuose feste in onore di Luigi XIV inaugurarono le nuove decorazioni e dimostrarono lo splendore di Monsieur. La Galleria era preceduta e seguita da un salone ad ambedue le estremità, una scelta che sarebbe poi stata impiegata anche a Versailles.

A seguito della morte di Lepautre nel 1679, il lavoro venne continuato dal suo assistente Jean Girard, un maestro muratore piuttosto che un esperto architetto e forse da Thomas Gobert. Jules Hardouin Mansart intervenne verso la fine del secolo, progettando una grande scala nell'ala di sinistra sulla maniera dello Scalone degli Ambasciatori a Versailles.

I giardini furono reinventati da André Le Nôtre ed il parco raggiunse le dimensioni che mantiene oggi. La Grande Cascata, costruita nel biennio 1664-1665 da Antoine Lepautre, è sopravvissuta. Il bacino ed il canale più basso sono stati aggiunti da Hardouin-Mansart nel 1698. Per questi lavori si pensa che siano state spese un totale di 156.000 lire tornesi.

Diciottesimo secolo: i duchi d'Orléans e Maria Antonietta


Saint-Cloud passò agli eredi di Monsieur e rimase nelle loro mani per quasi tutto il diciottesimo secolo. Dopo lunghi negoziati venne comprato nel 1785 da Luigi XVI per la moglie Maria Antonietta, la quale pensava che l'aria di Saint-Cloud avrebbe fatto bene ai suoi figli. Il duca Luigi Filippo I di Borbone-Orléans, che non si era più recato al castello fin dal suo matrimonio morganatico con Madame de Montesson, fu spinto a vendere dietro il pagamento di sei milioni di lire.

Dopo che l'acquisto del palazzo fu ufficializzato, Maria Antonietta iniziò a far trasformare il suo nuovo palazzo privato. Tra il 1787 e il 1788 il suo architetto preferito, Richard Mique, ingrandì il corps de logis e la metà adiacente dell'ala destra, ricostruendo anche la parte anteriore del giardino. Lo scalone di Hardouin-Mansart venne demolito per creare nuove scale di pietra che davano sugli appartamenti di stato.

Il castello fu inizialmente rifornito dal sovrintendente alla casa reale con collezioni provenienti da altre residenze reali, ma presto un nuovo mobilio venne commissionato appositamente. Le sedie e cassettoni intarsiati con cornici in bronzo dorato nel più ricco stile Luigi XVI, cominciavano ad essere trasportati a Saint-Cloud nei primi giorni della Rivoluzione francese. Nel 1790 il castello fu il palcoscenico del famoso incontro fra Maria Antonietta e Mirabeau.

Rivoluzione ed Impero

Il castello fu dichiarato un bene nazionale ma svuotato dalle vendite rivoluzionarie. Fu nell'orangerie che avvenne il colpo di Stato del 18 brumaio (10 novembre 1799) con cui il Direttorio fu soppresso e proclamato il Consolato: dopo cinque anni Napoleone Bonaparte venne proclamato imperatore dei francesi ancora a Saint-Cloud, il 18 maggio 1804. L'imperatore fece del castello la sua residenza preferita e trasformò il salone di Venere nella sala del trono, della quale l'edificio era ovviamente privo, ma non mise mano in modo rilevante alle decorazioni interne.
Fu di nuovo a Saint-Cloud, nella Galleria d'Apollo, che Napoleone III si proclamò imperatore dei Francesi il 1º dicembre 1852. Durante il Secondo Impero, Napoleone III e l'imperatrice Eugenia tennero corte a Saint-Cloud in primavera e autunno. Napoleone III fece demolire l'orangerie nel 1862 ed Eugenia trasformò la camera da letto di Madame in un salone stile Luigi XVI.

Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia il 28 luglio 1870: le colline che dominano Parigi furono occupate dai Prussiani durante l'assedio di Parigi, e bocche da fuoco vennero posizionate nei pressi del castello: i bombardamenti francesi colpirono la costruzione che venne divorata dalle fiamme il 13 ottobre 1870. Fortunatamente, molta parte dei suoi arredi erano stati spostati dall'imperatrice Eugenia dopo la dichiarazione di guerra. Le pareti scoperchiate che ancora stavano in piedi furono tirate giù nel 1891. Il frontone dell'ala destra del castello, una delle parti meglio conservate dell'edificio, fu comprato da Ferdinando I di Bulgaria e venne integrato nel suo palazzo Euxinograd sulla costa del Mar Nero.

Oggi

Oggi il parco di 460 ettari costituisce il Domaine nationale de San-Saint-Cloud ed include il giardino alla francese progettato da Le Nôtre, il giardino floreale di Maria Antonietta, un giardino all'inglese del 1820 circa, 10 fontane e un belvedere su Parigi conosciuto come "la lanterna", perché vi veniva accesa una lanterna quando l'imperatore si trovava nel castello. Molte migliaia di alberi nel parco sono state abbattuti o danneggiati da una tempesta il 26 dicembre 1999.


Port-Royal des Champs






Port-Royal des Champs è un antica abbazia cistercense nella valle di Chevreuse a sud-ovest di Parigi famoso per la comunità religiosa di orientamento giansenista che vi si sviluppò dal 1634 al 1708. Port Royal fu distrutto all'inizio del XVIII secolo per ordine di Luigi XIV. L'abbazia e il suo comprensorio sono divenuti in seguito luoghi di memoria, meta di pellegrinaggi di viaggiatori e intellettuali. Oggi sono visibili le rovine dell'abbazia e il suo demanio, e il Musée national de Port-Royal des Champs, (in passato Musée des Granges).


Storia

La comunità religiosa fu fondata nel 1204 dai Cistercensi per le loro monache, nella insalubre valle della Chevreuse, non lontano da Parigi[1]. Per molti secoli la vita del monastero seguì una routine senza sussulti e nel tempo, in maniera progressiva, scivolò sempre più nella rilassatezza dei costumi fino a che, nel 1609, una giovane ed energica badessa, Angélique Arnauld, della omonima facoltosa famiglia parigina, riportò la casa alla primitiva purezza. Angélique Arnauld era entrata in convento nel 1599, all'età di soli sette anni, senza vocazione (altri segni, questi, di allentamento delle regole) e fu nominata badessa nel 1602 ad appena dieci anni La sua risoluzione a riformare il convento maturò nel 1609, dopo l'ascolto della predica di un controverso frate cappuccino.

Fu così che sotto l'energica guida della badessa, il monastero vide ristabilirsi la fermezza della regola fino a divenire «uno dei più vivaci e influenti – anche se aspramente discussi e osteggiati – centri di spiritualità e di riforma cattolica del suo secolo»

Nel 1625, considerato il clima pessimo e insalubre della zona, le religiose decisero di trasferirsi a Parigi nel quartiere di Saint Jacques. Mère Angelique decise poi nel 1636 di assumere come direttore del monastero l'abate Jean Duvergier de Hauranne, il quale, nel 1638, decise di riunire nel monastero un certo numero di uomini per vivere nell'isolamento, nella preghiera e nel lavoro.

Si vennero ben presto ad aggiungere uomini eminenti, come il teologo e moralista Pierre Nicole, o il grammatico Claude Lancelot.

Nel 1648, una parte delle suore tornò nella vecchia casa della valle: si iniziarono così a distinguere Port-Royal de Paris e Port-Royal des Champs (in cui si sviluppò il movimento del giansenismo).

Port-Royal era aperto a tutta quanta la tradizione cattolica; vi erano presenti la Bibbia, i padri della chiesa, san Bernardo. Come quasi tutta la Chiesa a quel tempo, si poneva al di sopra di tutti i pensatori la figura di Sant'Agostino.

Port Royal fu distrutto all'inizio del XVIII secolo per ordine di Luigi XIV, e l'abbazia e il suo comprensorio sono divenuti luoghi di memoria, meta di pellegrinaggi di viaggiatori e intellettuali. Oggi sono visibili le rovine dell'abbazia e il suo demanio, e il Musée national de Port-Royal des Champs, (in passato Musée des Granges).

Port-Royal des Champs e il giansenismo

A Port-Royal des Champs vennero fondate molte scuole, conosciute con il nome di Piccole Scuole di Port-Royal, che divennero celebri per la qualità eccezionale dell'insegnamento che vi si impartiva. Nel 1634 Jean Duvergier de Hauranne, abate di Saint-Cyran ne divenne il direttore spirituale; egli era stato amico di Cornelius Jansen, conosciuto come Giansenio e a partire da questo momento i conventi e le scuole di Port-Royal aderirono strettamente alla corrente teologica del giansenismo.

L'atmosfera di intensi studi e di religiosità giansenista attirò molti protagonisti della vita culturale dell'epoca. Jean Racine frequentò Port-Royal e Blaise Pascal ne prese le difese contro i Gesuiti all'epoca della controversia giansenista. Inoltre, alcuni importanti personaggi di corte erano vicini al giansenismo, come il duca di Luynes o il duca di Liancourt. Alcuni componenti della famiglia Arnauld ottennero importanti incarichi come Simon Arnauld de Pomponne, che divenne ministro sotto Luigi XIV.

In seguito alla controversia giansenista nell'ambito del cattolicesimo, le scuole di Port-Royal furono accusate di eresia. Nel 1679 fu proibito al convento di accettare novizi, la qual cosa lo condannò all'estinzione. Il convento stesso venne soppresso dalla bolla di papa Clemente XI nel 1708, i religiosi che vi rimanevano furono espulsi a forza nel 1709 e gli edifici furono rasi al suolo nel 1710 e il luogo del monastero divenne proprietà del convento di Port-Royal di Parigi.

Dopo la Rivoluzione francese

Al tempo della Rivoluzione Francese, in seguito alla confisca dei beni del clero, nel 1791 il convento divenne proprietà dello stato e una parte di esso fu trasformata in fattoria e venduta a dei contadini. Questa parte del monastero ritornò proprietà statale nel 1951.

L'altra parte, consistente nelle rovine dell'abbazia, fu venduta a una donna vicina agli ambienti giansenisti, madame Desprez. La sua famiglia ne rimase proprietaria fino al 1828, quando i giansenisti riuscirono ad acquistarla installandovi una scuola gratuita per i bambini della regione che continuò fino al 1867. Nel 2004 il luogo è ritornato all'amministrazione statale e l'intero complesso è visitabile ancora oggi.

Port-Royal di Sainte-Beuve

Lo scrittore Charles Augustin de Sainte-Beuve ha raccolto la storia del convento e della comunità di Port-Royal in una sua ponderosa opera in più volumi, pubblicata tra il 1840 e il 1859, che ha contribuito a sottrarre il luogo all'oblio in cui era caduto nel secolo e mezzo precedente, e a fondarne il mito successivo.

L'opera è tradotta in italiano nel 2011 per Einaudi, a cura di Mario Richter, all'interno nella collana I millenni

Logica di Port-Royal

Con il titolo di "Logica di Port-Royal, ovvero dell'arte di pensare", Antoine Arnauld e Pierre Nicole, due fra i principali esponenti del giansenismo, pubblicarono un trattato di logica che si caratterizzava per l'inserimento, oltre ai consueti capitoli dedicati al concetto, al giudizio e al ragionamento, di un quarto capitolo dedicato al metodo, che si rifaceva al pensiero di Cartesio.

La logica di Port-Royal si caratterizza, contro ogni nominalismo, per un orientamento funzionalista: tema principale infatti non sono i nomi o i segni, ma le modalità con cui la mente opera i collegamenti fra i vari nomi. In questo senso va inteso il riferimento all'arte di pensare: la logica infatti non è qui intesa dal punto di vista formale, come costruzione pura di ragionamenti deduttivi, ma come un metodo per condurre la mente alla conoscenza di idee chiare e distinte, quindi alla scoperta e all'invenzione.
 
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morgana1869
view post Posted on 23/4/2013, 07:15     +1   -1




Abbazia di San Vittore (Parigi)




La Reale abbazia di San Vittore fu fondata da Guglielmo di Champeaux nei pressi di Parigi nel 1108, dopo che egli entrò in contrasto con Pietro Abelardo circa la disputa sugli universali.

L'abbazia ospitava una comunità di canonici regolari che seguivano la regola di sant'Agostino e vi fu fondata una scuola per l'insegnamento della filosofia, della teologia e del diritto. Soprattutto in campo filosofico-teologico raggiunse degli importanti vertici nella cultura scolastica, in quella che fu chiamata appunto scuola di San Vittore e che ebbe tra i suoi maggiori esponenti Ugo di San Vittore e Riccardo.

Attraverso le generose donazioni di papi, re, regine e nobili, l'abbazia fu presto arricchita di ricche dotazioni e numerose case di canonici regolari entrarono sotto la sua influenza, comprese alcune abbazie anche fuori dai confini francesi: la chiesa e l'abbazia di Santa Genoveffa (Parigi), Wigmore nel Galles, Sant'Agostino (Bristol), Santa Caterina (Waterford), Saint Thomas (Dublino) e San Pietro ad Aram (Napoli).

Re Luigi VIII di Francia nominò almeno quaranta abbazie dell'ordine di San Vittore nel suo testamento e lasciò tutti i suoi gioielli per la costruzione della chiesa abbaziale e 4.000 sterline da dividere tra gli istituti monastici. Entro il XIII secolo, durante la sua massima fioritura, alcuni cardinali e almeno otto significativi abati erano usciti dai suoi membri.

Tra gli intellettuali e gli studiosi attratti a San Vittore si ricordano Ugo di San Vittore, Pietro Lombardo e San Tommaso Becket. Insieme alla scuola abbaziale di Santa Genoveffa e a quella cattedrale di Notre Dame di Parigi, la scuola di San Vittore diede impulso alla nascita dell'Università di Parigi.

L'abbazia si trovò in serie difficoltà, più tardi, quando fu tacciata di Giansenismo, e finì per essere distrutta durante la Rivoluzione francese. Si trovava nell'attuale comune di Boissise-le-Roi.
 
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morgana1869
view post Posted on 23/4/2013, 08:29     +1   -1




Abbazia Saint-Antoine-des-Champs






L’abbazia Saint-Antoine-des-Champs, o anche Saint-Antoine-lès-Paris, più comunemente abbazia Saint-Antoine, era un'abbazia femminile dell'Ordine cistercense, ubicata al momento della fondazione nei pressi di Parigi; oggi, con l'espansione urbanistica avvenuta nei secoli, ne occupa il luogo l'Ospedale Saint-Antoine, nel XII arrondissement della capitale francese.


Medioevo

Sino al XII secolo la zona dove oggi sorge l'ospedale Saint-Antoine era ricoperta di foreste e paludi; solo una strada romana, che collegava l'antico centro di Parigi con Meaux e Melun, la traversava, bagnata dai ruscelli che scendevano dalle colline di Ménilmontant e Belleville.

Nel 1198 Folco di Neuilly, curato di Saint-Baudile (Neuilly-sur-Marne) e predicatore della quarta crociata per conto di papa Innocenzo III, fece costruire sulla via di comunicazione - destinata in seguito a diventare rue du Faubourg-Saint-Antoine - un piccolo eremitaggio femminile, destinato probabilmente a prostitute redente. L'impulso gli era venuto dal defunto vescovo di Parigi Maurice de Sully.

Nel 1204 il convento fu eretto ad abbazia, abbracciando la regola cistercense, ad opera di Eudes de Sully (fratello e successore di Maurice); lo stesso accadde in quell'epoca a Port-Royal des Champs, fondato poco prima.[2] Il complesso venne fortificato e circondato da un fossato alimentato dalla Senna tramite canali. Nello stesso anno venne eletta la prima badessa, di nome Théophanie.

Sin dalla fondazione l'abbazia ricevette cospicue doti e privilegi dal vescovo di Parigi, dal sovrano, da famiglie borghesi; deteneva i diritti su tre pedaggi (Mantes, Lieusaint, Tournan); i suoi possedimenti erano situati in maggioranza in prossimità di vie d'acqua in un raggio di una quindicina di chilometri da Parigi, e nella stessa Parigi, ma pure lontano dall'Île-de-France, come Aulnay, e Savigny

Nel 1206 Saint-Antoine entrò a tutti gli effetti nell'ordine cistercense, cadendo quindi sotto l'autorità diretta dell'abate di Cîteaux.

Nel 1210 papa Innocenzo III prese sotto sua protezione speciale l'abbazia, confermandone l'appartenenza all'ordine cistercense, e designandola come luogo di pellegrinaggio ed indulgenza al pari delle basiliche papali di Roma.

Nel 1209-1218 alcuni componenti di grandi famiglie della zona (Montfort, Mauvoisin, Beaumont) figurano come benefattori dell'abbazia. Nel 1211 Robert Mauvoisin (o Malvoisin) fece costruire a sinistra dell'ingresso dell'abbazia una cappella dedicata a Sant'Antonio (ma detta di Saint-Pierre) in cui farsi seppellire. Ugualmente fecero famiglie a lui imparentate, i Cressonsacq, gli Aulnay, i Garlande. Lo stesso re Luigi VIII fece dono nel 1215 di terreni e vigne, per celebrare la nascita del proprio figlio Luigi (poi Luigi IX).

Nel novembre 1227 re Luigi IX elevò con diploma Saint-Antoine-des-Champs ad abbazia reale, e ne confermò i privilegi.

La benevolenza reale di cui beneficiarono le religiose andò a vantaggio di tutta la zona: numerosi artigiani si radunarono nei pressi, rimanendo sotto l'autorità delle Corporazioni delle arti e mestieri parigine; poco a poco i terreni circostanti vennero bonificati e messi a coltura, inoltre la vicinanza con la Senna permise l'approvvigionamento di legname ed incoraggiò l'insediarsi di artigiani del legno.[4] Il complesso abbaziale era ben fortificato: circondato da un fossato alimentato dalle acque della Senna, da mura e contrafforti, comprendeva, con la chiesa e gli edifici claustrali, la cappella di Saint-Pierre, gli edifici di servizio, e terreni arativi, orti e giardini. Alla fine del XV secolo era delimitato a nord dall'odierna rue du Fabourg-Saint-Antoine, a sud dalla via tra Parigi e Charenton (rue de Charenton), ad est da una strada che univa le due precedenti e fungeva da confine con i possedimenti reali di Reuilly, ad ovest da viabilità minore.

Il 2 giugno 1233 avvenne la solenne dedicazione della chiesa: consacrata a Gesù Cristo, alla Vergine Maria, e ad Antonio abate, in stile gotico, aveva una pianta a tre navate, sormontate da una cupola; officianti furono i vescovi di Parigi, Cambrai, e Meaux, presenti i vescovi di Chartres, Noyons, Soissons, Senlis e Châlons. Assistevano alla cerimonia Luigi IX e la madre, Bianca di Castiglia, contornati da un vasto pubblico di nobili e popolani convenuti da Parigi.

Il 18 agosto 1239 Luigi IX espose all'interno dell'abbazia la Corona di spine che aveva comprato dall'imperatore di Costantinopoli Baldovino II, prima di portarla lui stesso a Parigi. Nei secoli successivi l'abbazia si confermò - per collocazione geografica e prestigio - punto di sosta e di passaggio in molte occasioni significative della vita religiosa e civile di Francia: nel 1364 le spoglie di Giovanni II, morto in prigionia in Inghilterra, giunsero a Saint-Antoine dove furono preparate per le esequie in Notre-Dame, nel 1370 lo stesso si fece per Giovanna d'Évreux, vedova di Carlo IV, e dieci anni dopo per suo figlio Carlo V, e ancora per Carlo IX nel 1574

Nel 1261 Luigi IX confermò una legge del suo predecessore Luigi VI, sul pascolo libero dei maiali, ma ne esentò l'abbazia, che era libera di far vagare i propri animali, a condizione di munirli di una campana contrassegnata da una croce quale segno di riconoscimento.

Nel 1272 Filippo III esentò l'abbazia da tutti i dazi sul trasporto di beni per terra e per acqua.

Nel maggio 1309 (o 1310), durante il regno di Filippo il bello, presso il mulino dell'abbazia vennero arsi sul rogo 59 cavalieri templari.

Nel 1358 le religiose di Saint-Antoine furono costrette a trovare rifugio nella città di Parigi, in seguito ai moti popolari passati alla storia come Jacquerie. Durante il lungo periodo della guerra dei cent'anni l'abbazia fu coinvolta in un'altra occasione: nell'agosto o settembre 1432 la madre badessa e alcune consorelle vennero imprigionate con l'accusa di aver cospirato contro il governo di Parigi, allora in mano agli inglesi.

Nel 1439 l'abate di Cîteaux ordinò un'inchiesta sull'operato della badessa in carica, Émerance (o Emerentienne) de Calonne, che fu costretta ad abdicare, accusata di aver venduto gioielli e ornamenti sacri provenienti dalla chiesa, e di aver gestito malamente l'abbazia, cui la buona borghesia parigina aveva ormai da tempo smesso di destinare le sue figlie. All'epoca vivevano a Saint-Antoine solamente sei religiose, campando di elemosina.

La rivolta della cosiddetta Lega del bene pubblico (1465) vide coinvolta l'abbazia in più di un episodio, sia come luogo di scontro, sia come luogo di trattativa in vista della pace, conclusa nel mese di ottobre con il trattato di Conflans.

Dal Rinascimento alla Rivoluzione


Il 1º gennaio 1540 l'imperatore Carlo V entrò a Parigi, dopo aver soggiornato alcuni giorni al castello di Vincennes, ma prima sostò nei pressi dell'abbazia per ricevere l'omaggio dei notabili della città: per accoglierlo venne innalzato un padiglione tappezzato d'oro e d'argento, e dalle mura cittadine, e dalla Bastiglia poco lontana, furono esplosi trecento colpi d'artiglieria.

Tra il 1544 e il 1547 in più momenti si registrarono nell'abbazia episodi di scandalo e malversazione, tanto che il procuratore generale del re ne ordinò la riforma all'abate di Froidmont, Claude de Beze.

Nel maggio 1590, agli inizi dell'assedio che Enrico IV aveva posto alla capitale, un distaccamento di soldati della Lega cattolica comandati da Carlo di Guisa, fecero una sortita con la quale scacciarono dall'abbazia gli assedianti che vi si erano fortificati, salvo darsi poi alla spoliazione degli arredi sacri e degli oggetti preziosi, mentre una turba di popolani saccheggiava i magazzini. Il 6 agosto dello stesso anno ebbe luogo nel chiostro dell'abbazia un incontro, infruttuoso peraltro negli esiti, fra Enrico IV e gli emissari della Lega (il cardinale di Parigi Pierre de Gondi e l'arcivescovo di Lione Pierre d'Épinac) che chiedevano la pace.

Nel 1636 venne eletta badessa Marie Le Bouthillier de Chavigny, figlia di Claude Le Bouthillier, sovrintendente alle finanze; governò l'abbazia per oltre sedici anni, durante i quali fece ricostruire gran parte dei fabbricati, ed edificò un'infermeria per le monache anziane. Fece inoltre osservare rigidamente la clausura per le religiose, accrebbe ulteriormente le proprietà terriere dell'abbazia, e ricevette da Luigi XIV la riconferma di tutti i privilegi, esenzioni e franchigie concesse dai precedenti sovrani.

Dal 1766 al 1770 vennero aggiunte due ali all'edificio abbaziale, e la chiesa fu restaurata, il tutto sotto la direzione di Nicolas Lenoir, architetto che nel contempo procedeva alla costruzione del quartier d'Aligre su terreni già di proprietà dell'abbazia (che approfittò così della speculazione immobiliare).

Nel 1768 la giovane principessa Maria Teresa Luisa di Savoia-Carignano, morto il marito Luigi Alessandro di Borbone-Penthièvre, trascorse ritirata a Saint-Antoine il primo anno di vedovanza.

Nel 1776 vennero alienate vaste parti dei terreni circostanti l'abbazia: l'espansione della città richiedeva l'apertura di nuove vie e di un mercato. Il recinto dell'abbazia vide notevolmente ridotto il proprio perimetro.

Nel 1788 l'abbazia Saint-Antoine era l'abbazia femminile con la maggior rendita (40 000 lire), raccolta - sin dal 1760 - anche grazie all'accoglienza di pensionanti (in gran parte ragazze di buona famiglia o altre donne desiderose di allontanarsi dal mondo senza prendere i voti) che pagavano da 500 a 600 lire annue.

Per decreto dell'Assemblea Nazionale del 13 novembre 1789 tutti gli ordini religiosi dovettero stilare un inventario dettagliato dei propri beni mobili e immobili. Il 28 febbraio successivo la madre badessa, rappresentata da André Guibout, negoziante, dichiarò di fronte a Barthélémy le Coulteux de La Moray, luogotenente del sindaco della città di Parigi, che le rendite dell'abbazia, composta da 25 religiose e dodici suore converse, erano state di 75 285 lire, 15 soldi e 2 denari, provenienti dagli affitti di immobili in Parigi, dai banchi di macelleria, dai canoni riscossi sul grano a Parigi e a Montreuil, da rendite vitalizie, e che le spese erano state di 32 119 lire, 12 soldi e 10 denari, ma che esistevano debiti per 78 195 lire e 10 soldi.

Per decreto dell'11 febbraio 1791, l'abbazia Saint-Antoine venne dichiarato bene nazionale.

Nel 1792, durante i massacri di settembre, davanti all'abbazia sfilò un macabro corteo: la testa mozzata di Maria Teresa Luisa di Savoia-Carignano, trucidata poco prima alla prigione della Forge in cui era detenuta, venne mostrata dalla folla alla badessa Gabrielle-Charlotte de Beauvau-Craon, sua intima amica.

Elenco delle badesse

L'abbazia fu in tutto diretta da 42 badesse, tutte appartenenti a famiglie in vista dei dintorni.[5]
1.1212-1214: Théophanie
2.1214-1221: Agnès I
3.1221-1233: Amicie I
4.1233-1240: Agnès I Mauvoisin de Cressonsacq
5.1240-1253: Amicie II de Briart de Villepêche
6.1253-1255: Jeanne I
7.1255-1256: Guillemette d’Aulnay
8.1256-1267: Jeanne II
9.1267-1275: Philippa
10.1275-1287: Agnès III
11.1287-1295: Héloïse I de Moncy d’Aunoy
12.1295-1298: Laure de Tressemane
13.1298-1304: Gillette de Beaumont
14.1304-1318: Alix de La Roche
15.1318-1324: Héloïse II Allaire
16.1324-1331: Marguerite I Petit
17.1331-1338: Pétronille Ire de Condé
18.1338-1359: Ameline de Bourdon
19.1359-1372: Marguerite II d’Allemand
20.1372-1381: Drocque de Bourgoigne
21.1381-1396: Jeanne III du Pont
22.1396-1416: Jacqueline de Chanteprime
23.1416-1417: Marguerite III
24.1417-1419: Pétronille II Le Duc
25.1419-1440: Émerance (o Emerentienne) de Calonne
26.1440-1489: Marie V de Gouy
27.1489-1497: Jeanne IV Thibousé
28.1497-1502: Anne Ire Martine Baillet de Villiers
29.1502-1525: Isabelle Simon
30.1525-1554: Jeanne V de Longuejoüe
31.1554-1572: Marguerite IV d’Artois de Vaudetar
32.1572-1595: Anne II de Thou
33.1595-1596: Jeanne VI Camus de Pontcarré
34.1596-1597: Madeleine I Brûlart de Sillery
35.1597-1600: Jeanne VII du Puy de Vatan
36.1600-1636: Renée de La Salle
37.1636-1652: Marie II Le Bouthillier de Chavigny
38.1652-1681: Madeleine II Molé de Champlâtreux; assunse la carica nel 1653 alla presenza di Anna d'Asburgo, era figlia di Mathieu Molé, primo presidente del parlamento di Parigi nel XVII secolo. Si adoperò molto nel contrasto alla povertà, conformemente alle idee dell'amico Vincenzo de' Paoli
39.1681-1686: Françoise Molé de Champlâtreux; sorella minore della precedente, coadiuvò l'opera della sorella sin dal 1653[6]
40.1686-1722: Marie III Madeleine de Mornay de Montchevreuil
41.1723-1760: Marie IV Anne-Gabrielle-Eléonore de Bourbon-Condé; figlia di Luigi III di Borbone-Condé,
42.1760-1790: Gabrielle-Charlotte de Beauvau-Craon; appartenente alla famiglia de Beauvau, importante stirpe aristocratica della Lorena, nacque il 29 ottobre 1724 a Lunéville, figlia di Marc de Beauvau, principe di Craon e Anne Marguerite de Lignéville.

L'ospedale Saint-Antoine

Dopo la soppressione del 1791 l'edificio, abbandonato dalle religiose nel 1795, divenne sotto la Convenzione l'"Hospice de l’Est", da una parte per sopperire la mancanza di ospedali nella parte orientale della città, dall'altra per ricompensare gli abitanti del quartiere per il ruolo avuto nei moti rivoluzionari.[1]

La chiesa di Sant'Antonio venne abbattuta nel 1796. L'architetto Nicolas-Marie Clavareau ricevette l'incarico della ristrutturazione degli edifici. Iniziò la costruzione di due ali supplementari, ma dovette presto fermarsi per mancanza di fondi. L'ospedale, con due camerate, maschile e femminile, di 72 letti ciascuna, contava su un solo medico, un farmacista ed una quindicina di infermieri. Nel 1802 ricevette l'attuale nome di Ospedale Saint-Antoine.

Nel 1798 vennero venduti gli ultimi terreni circostanti l'abbazia, e presto vi sorsero nuove strade e quartieri.

Nel 1811 la gestione passò in mano alle Suore Ospedaliere di Santa Marta, che la tennero sino al 1881. Seguì un ingrandimento dei locali ed un miglioramento delle condizioni igieniche. Nel 1842 l'ospedale contava 320 letti.

Grandi nomi della medicina ne fecero sul finire del XIX secolo uno degli ospedali più rinomati: Georges Hayem, Marcel Lermoyez, Brissaud e Ballet, Antoine Béclère, ecc.

Dell'antica abbazia non resta che il padiglione dell'Orologio, vestigia del chiostro, e il simbolo della facoltà di medicina Saint-Antoine, che riproduce lo stemma di una delle badesse dell'abbazia, Marie de Bouthillier, inciso su una pietra dell'edificio nel 1643.


Bastiglia (Parigi)





La Bastiglia (francese Bastille, nome completo Bastille Saint-Antoine) originariamente era una fortezza, che fu eretta a Parigi per volontà di Carlo V di Francia tra il 1367 e il 1382 per rafforzare le mura orientali della città, e a difesa della Porte St-Antoine. La leggenda vuole che il prevosto Hugues Aubriot, che aveva officiato la posa della prima pietra, ne sia stato il primo ospite.

Era alta 24 metri (come un palazzo di 7 piani ai nostri giorni), aveva pianta rettangolare, otto torri, due cortili interni detti Cortile grande e Cortile del pozzo, ed era circondata da un fossato alimentato dalla Senna vicina, sicché vi si accedeva solo tramite ponte levatoio.

Nel XVII secolo, con Richelieu, divenne prigione di stato dove custodire le vittime delle lettres de cachet, e vi furono rinchiusi celebri personaggi: tra gli altri, "Maschera di ferro" (presunto fratello gemello di Luigi XIV), Voltaire nel 1717, il Marchese de Sade, Cagliostro, Fouquet, Mirabeau. Va detto che la prigionia degli aristocratici era condotta in ambienti e con stili di vita (servitù, alimentazione, spazi) molto meno inospitali di quelli destinati ai detenuti qualsiasi.

Va detto, pure, che essendo divenuto inutilmente costosissimo il mantenimento della grande struttura che aveva perduto quasi ogni utilità, la stessa monarchia francese ne aveva deciso la demolizione nel 1784, ma gli elevati costi avevano spinto Luigi XVI a rimandare l'intervento.

Ironia della sorte, appena 36 giorni prima della Presa della Bastiglia, il re aveva ordinato la distruzione dell'ingombrante prigione, la quale avrebbe dovuto far spazio alla Place Louis XVI con un monumento che lo raffigurava nelle vesti di un Liberatore.

Dunque, era piuttosto per la sua imponenza che veniva considerata dal popolo di Parigi - come la Tour du Temple - un clamoroso simbolo dell'oppressione assolutista, tanto che ne era stata richiesta la demolizione già con i Cahiers de doléances.

Fu assaltata il 14 luglio 1789 per rubarne le armi e liberarne i prigionieri. Di prigionieri in realtà ce n'erano soltanto sette: cinque erano semplici ladri e gli altri due erano stati rinchiusi per volontà delle rispettive famiglie. La difesa di una fortezza pressoché inutile costò la vita a 32 Guardie svizzere, ma la presa della Bastiglia divenne poi, come è noto, l'icona dell'inizio della Rivoluzione francese e il 14 luglio il giorno della festa nazionale francese (che commemora peraltro, almeno ufficialmente, la celebrazione del primo anniversario della Rivoluzione, tenutasi il 14 luglio 1790).

L'edificio fu poi saccheggiato e raso al suolo, lentamente e sistematicamente. Il suo demolitore, un imprenditore edile di nome Palloy, ebbe fra l'altro l'idea di rivenderne le pietre come reliquie (esempio seguito, 200 anni dopo, nella demolizione del muro di Berlino). Altri materiali servirono a costruire il Pont de la Concorde, mentre il fossato entrava a far parte del bacino dell'Arsenale di Parigi.

La Colonna di luglio che è al centro della piazza fu voluta da Luigi Filippo in memoria della sollevazione che aveva rovesciato Carlo X, e inaugurata nel 1840. La base circolare su cui poggia la colonna venne realizzata durante il Primo Impero francese e sorreggeva una fontana con un elefante al centro.

La grande spianata fu tuttavia lasciata abbastanza in abbandono per gran parte dell'800, con al centro un monumento non finito voluto da Napoleone (citato da Victor Hugo in I miserabili), dal quale, al momento della demolizione nel 1847, fuggirono milioni di ratti, invadendo per alcuni giorni l'intero quartiere.

Durante i grandi lavori dell'epoca di Haussmann tornarono alla luce alcuni resti delle fondamenta al n° 49 dell'avenue Henri-IV, e durante i lavori per la costruzione della Metropolitana di Parigi riaffiorarono i resti della Torre della Libertà, che furono rimontati lì vicino, in place Galli, nel 1899; altri resti sono stati lasciati in vista nella stazione Bastille del Métro.

L'area su cui sorgeva la fortezza è oggi Place de la Bastille, uno dei luoghi più frequentati di Parigi, e uno dei due poli delle grandi manifestazioni di massa della città (l'altro è Place de la République).

Poco distante dalla piazza sorge la Promenade plantée, una passeggiata fiorita sopraelevata.


Chiesa dei Cordiglieri




La chiesa di Santa Maria Maddalena dei Cordiglieri (in francese église Sainte-Marie-Madeleine-des-Cordeliers, ovvero "chiesa di Santa Maria Maddalena dei francescani", chiamati in Francia cordeliers) è stata una chiesa duecentesca di Parigi, che apparteneva al grande convento dei Cordiglieri di Parigi.

Durante la Rivoluzione francese fu sede del club dei Cordiglieri. Fu abbattuta nell'Ottocento.

Storia

I francescani occuparono inizialmente a Parigi un modesto edificio che era stato loro concesso dall'abate di Saint-Germain-des-Prés.

Le risorse per la costruzione della chiesa furono concesse dal re Luigi IX (san Luigi di Francia)[1].

La costruzione dell'edificio fu iniziata intorno al 1230, sotto la direzione dell'architetto del re Eudes de Montreuil, che nella chiesa avrebbe scolpito anche la propria tomba (in seguito andata distrutta nell'incendio della chiesa del 1580).

La chiesa venne consacrata il 6 giugno del 1262 e fu dedicata a santa Maddalena. La navata centrale venne completata intorno al 1269.

La'edificio sorgeva parallela alla rue des Cordeliers (oggi rue de l'École de médicine) ed aveva 95 m di lunghezza, con il coro orientato ad est.

Vi furono seppelliti nel corso del Trecento alcuni membri della famiglia reale
nel 1321 la regina Maria di Brabante, seconda moglie del re Filippo III di Francia;
nel 1336 il conte Carlo d'Étampes, figlio del principe Luigi d'Évreux a sua volta figlio di Maria di Brabante e del re Filippo III;
nel 1371 il cuore di Giovanna d'Évreux sorella del precedente e regina di Francia come terza moglie del re Carlo IV; la regina aveva fatto costruire un grande refettorio per il convento (56 x 24 m), l'unica parte dell'edificio sopravvissuta.

Il manoscritto della Chronique des Cordeliers de Paris prodotto nel convento, narra la cronaca degli avvenimenti dalla creazione del mondo all'anno 1434. Oggi è custodito presso la Biblioteca nazionale francese ed ha costituito una delle fonti dello storico francese ottocentesco Jules Quicherat per la ricostruzione delle vicende di Giovanna d'Arco

Nel 1531 vi fu sepolto Alberto III Pio di Savoia, signore di Carpi, morto a Parigi dove era stato inviato come ambasciatore dal papa Clemente VII, e nel 1562 Wilhelm Frölich, colonnello delle Guardie svizzere (guardia del corpo dei re di Francia) sotto i re Francesco I, Enrico II, Francesco II e Carlo IX. Le due tombe sono oggi al Louvre.

Nel Rinascimento nel convento, che era anche collegio dell'università di Parigi (collège des Cordeliers) venne aperta una sala anatomica per gli studi di chirurgia che aveva sede nell'amphithéâtre Saint-Côme.

La chiesa e gran parte del chiostro del convento vennero distrutti da un grande incendio il 15 novembre del 1580.

Claudio di Bullion, sovrintendente alle finanze sotto il re Luigi XIII e quindi suo guardasigilli, pagò il rifacimento dell'altar maggiore, che volle in "stile italiano" con colonne in marmo e capitelli e basi di legno dorato, con le statue di san Francesco e di santa Maddalena. Ebbe in patronato la cappella del Crocifisso, che ornò di dipinti e dove lo stesso sovrintendente venne sepolto nel 1640.

Nel 1674 fu avviata la ricostruzione del chiostro, completata nel 1684 e l'architetto dei giardini reali André Le Nôtre sistemò i giardini dietro la chiesa.

Il convento ebbe dei nuovi statuti nel 1733. Nel 1783 nella galleria del chiostro fu disegnata da cinquanta disegnatori coordinati dall'architetto Edme Verniquet una grande pianta di Parigi, comandato dal re il 10 aprile e tradotta in una pianta pieghevole dall'ingegnere geografo del re Louis Brion de la Tour.

La navata della chiesa fu distrutta agli inizi dell'Ottocento. Sul sito venne costruita nel 1906 la sede della Scuola pratica della facoltà di medicina dell'Università di Parigi, che oggi appartiene alle università parigine Pierre e Marie Curie e Renè Descartes (Paris V) (Unità di formazione e di ricerca di medicina della facoltà di medicina).



Grand Châtelet



Il Grand Châtelet è stata una fortezza dell'Ancien Régime, che conteneva un palazzo di giustizia ed una sede della polizia e un certo numero di prigioni, situata a Parigi sulla rive droite della Senna, sul sito di quello che oggi è la Place du Châtelet.

« Le Grand-Châtelet fu, dopo il Gibet de Montfaucon (il patibolo), l'edificio più sinistro di Parigi, tanto per la sua forma e la sua destinazione che per la sua vicinanza alla cloaca che faceva di questo quartiere il luogo più fetido della capitale. »

L'area attorno al Châtelet era fetida a causa dell'odore di essiccazione del sangue proveniente dai macelli vicini e "l'emissario della fogna grande che colava nella Senna fra il Pont Notre-Dame e il Pont au Change".

Dal IX secolo, l'accesso ai due ponti che collegano l'île de la Cité di Parigi alle rive della Senna, erano protetti da due piccoli castelli, prima in legno e poi in pietra: Le Grand Châtelet, a nord, per proteggere l'accesso al Ponte Grande (oggi Pont au Change); il Petit Châtelet a sud, per proteggere l'accesso al Petit-Pont. A Parigi, quando si utilizza il nome « Châtelet » senza ulteriori specificazioni, ci si riferisce sempre al Grand Châtelet.

Medio Evo

Nel III secolo, la città, che si chiama ancora Lutezia, era concentrata nell'île de la Cité, protetta da fortificazioni romane formate da un muro di 2,50 m di spessore. Sembra che a quel tempo nessun manufatto proteggesse l'accesso ai ponti di legno, questi potevano essere rapidamente distrutti o bruciati in caso di attacco. È nel 877 che Carlo II il Calvo ha fatto rafforzare le fortificazioni di Parigi per proteggere la città dalle incursioni dei Normanni che si moltiplicavano. Le mura romane sono state riparate, ponti rafforzati e i loro piloni rinserrati per impedire il passaggio delle imbarcazioni. Fece anche costruire delle torri in legno formando piccoli castelli, per proteggere le estremità dei ponti.

Così, quando gli invasori normanni risalgono la Senna nel novembre dell'anno 885, si imbattono in una fortezza impenetrabile. Le prime feroci offensive furono respinte con determinazione dai difensori, seguì un lungo assedio di Parigi (885-886) per cercare di ridurre alla fame la popolazione e farla capitolare. Nel febbraio del 886, una grande inondazione della Senna porta via il ponte piccolo, isolando i dodici difensori rimasti nella torre di quello che diventerà il piccolo Châtelet. Combatterono ferocemente fino all'ultimo e sono stati tutti massacrati. Carlo III il Grosso alla fine arriva con le sue truppe e compra la partenza dei Normanni che si spostano devastando la Borgogna.

Le torri di legno furono sostituite da edifici in pietra nel 1130 da Luigi VI il Grosso. Le Grand Chatelet formava una fortezza quasi quadrata, con un cortile in centro e porte secondarie, circondata da profondi fossati pieni di acqua corrente, alimentati dalla Senna. Due torri fiancheggiano i due angoli verso l'esterno. Sono destinate a proteggere l'uscita nord del Ponte Grande.

I conti di Parigi l'abitarono fino alla fine del XII secolo, fino alla loro sostituzione con i Prevosti di Parigi. Dal 1190, la costruzione della cinta muraria di Parigi di Filippo Augusto ha reso inutile questa fortezza per difendere la città. Vi si stabilì la sede della giurisdizione del Prevosto di Parigi, responsabile della polizia e della giustizia penale, comprese le prigioni e camere di tortura, dove si svolgevano gli « interrogatori ». La giurisdizione del prevosto era divisa in quattro sezioni: l'« audizione del parco civile », quella del « présidial », la « camera di consiglio » e la « camera criminale ». Dopo la loro fusione in un solo organismo, queste diverse giurisdizioni presero il nome di « Cour du Châtelet » (Corte del Castello).

Il tribunale del Châtelet è sempre stato subordinato al Parlement di Parigi, ma si era man mano estesa la sua giurisdizione penale e civile, e casi di tradimento erano spesso giudicati lì. Per secoli i magistrati del Châtelet si sono scontrati con quelli della giurisdizione dell'Hôtel de Ville.

Durante il regno di san Luigi, dal 1250 al 1257, il Grand Châtelet fu restaurato e notevolmente ampliato[N . Lo Châtelet è stato poi restaurato da Carlo V nel 1369. Il 29 maggio 1418, durante la Guerra civile tra Armagnacchi e Borgognoni, grazie al tradimento di un certo Perrinet Leclerc e al sostegno degli artigiani e degli universitari, Parigi fu consegnata a Jean de Villiers de L'Isle-Adam, capitano di una truppa di seguaci del duca di Borgogna. Il 12 giugno 1418, la fazione borgognone che assedia il grande e il piccolo Châtelet vi massacra tutti i prigionieri armagnacchi che vi erano rinchiusi; i loro corpi, gettati dall'alto delle torri, sono stati infilzati dalle punte delle picche.

Dal 1460 era caduto in rovina in tal modo che le sedute della corte si sono svolte presso il Palazzo del Louvre, per non tornare fino al 1506; nel 1657 la corte è stata ancora una volta costretta a trasferirsi temporaneamente, questa volta per il convento dei Grandi Agostiniani sulla Rue Dauphine.

Epoca moderna

Nel 1684 la struttura fu quasi completamente ricostruita da Luigi XIV, assumendo la forma che aveva fino a quando non fu demolito dopo la Rivoluzione. È stato deciso che, durante la ricostruzione, la corte doveva avere sede ai Grandi Agostiniani sulla Rue Dauphine, ma i monaci non vollero cedere il loro convento. Si prende la risoluzione di assediarlo e di impadronirsene con la forza. Seguirono molti combattimenti e assalti feroci, dove furono uccisi un gran numero di religiosi. La vittoria va al partito della corte, che vi si installa provvisoriamente. Col suo editto del 1684, Luigi XIV riunisce assieme al Châtelet tutti i sedici giudici feudali anziani e i sei giudici ecclesiastici anziani.

"La strada che passa sotto il Chatelet (in effetti la continuazione della Rue Saint-Denis), divide una parte della prigione comunale sul lato orientale della struttura dalle varie camere delle udienze a ovest"[15]. Nei bassifondi del lato ovest vi era l'obitorio cittadino; le prigioni sul lato orientale sono aumentate da nove a venti nel corso degli anni, che vanno da dormitori dove prigionieri vivevano "à la pistole", cioè con letti, da quelli chiamati "au secret" (le segrete) che vanno da un'enorme sala con stuoie di paglia a prigioni sotterranee.
« Come tutti gli edifici del vecchio Regime connessi con l'amministrazione della giustizia, il Châtelet gode di una sinistra reputazione, anche peggio della storica Bastiglia. Relativamente pochi parigini tra la gente comune sono stati in grado di chiarire la dubbia distinzione di un parente o un amico che languiva nei sotterranei della Bastiglia; molti di più potrebbero fare la richiesta delle camere umide del Châtelet, intrinsecamente molto più temibile di quella asciutta e relativamente confortevole prigione un miglio a est ».
Dopo queste nuove ricostruzioni, non rimaneva della vecchia fortezza che qualche torre oscura e inoffensiva. Nel 1756, poteva ancora essere visto, sopra la porta di un ufficio, sotto il porticato del Grande Castello, una lapide di marmo che contiene le parole « Tributum Cæsaris ». È stato la, senza dubbio, che si centralizzavano tutte le tasse della Gallia, uso che sembrava essere continuato, dato che la decisione del Consiglio del 1586 fa riferimento a « diritti demaniali della Corona che usano essere pagati ai pergolati del Châtelet. »

I massacri di settembre 1792


Nel periodo della Rivoluzione, i detenuti incarcerati al Châtelet avevano la reputazione di essere dei grandi criminali: quando i rivoltosi aprirono le porte delle prigioni per liberare i prigionieri il 13 luglio 1789, essi si guardarono bene dall'attaccare il Châtelet. C'erano 305 detenuti nel maggio 1783, e 350 in maggio 1790. Dopo aver giudicato i primi accusati di crimini di lesa-nazione, la corte di giustizia del Châtelet fu soppressa con la legge votata il 25 agosto 1790. Le sue funzioni cessarono il 24 gennaio 1791, ma sopravvisse la prigione. Durante il massacri delle prigioni, il 2 settembre 1792, sui 269 detenuti incarcerati al Châtelet, 216 prigionieri furono infilzati o sgozzati dai rivoltosi.
« Questi prigionieri avevano sentito dire il giorno prima che le carceri sarebbero presto state svuotate, credendo di trovare la loro libertà nella confusione pubblica; pensando che all'avvicinarsi del nemico i realisti potrebbero aprire le porte, avevano, il 1º settembre, fatto i loro preparativi per la partenza; i più, il pacchetto sotto il braccio, camminavano nei tribunali. Sono usciti fuori ma in altra maniera. Un turbine terribile arriva alle 7 di sera all'Abbazia al Chatelet; un massacro indistinto inizia a colpi di sciabola, a colpi di pistola. Da nessuna parte furono più spietati. »
Tutti erano pericolosi criminali, ma nessuno di loro aveva partecipato alle cospirazioni degli aristocratici. Dopo il massacro, i loro corpi furono ammassati ai bordi del ponte grande per essere trasportati alle cave di Montrouge, nei pressi di Parigi.

Le prigioni

Il Grand Châtelet è stata una delle principali carceri di Parigi. Nella sua parte orientale, le celle sono state suddivise in tre categorie: le camere comuni al piano superiore, quelle chiamate « segrete » e le fosse ai bassi fondi. Durante l'occupazione di Parigi degli inglesi, una ordinanza di Enrico VI d'Inghilterra, a partire da maggio 1425, elenca la lista delle sue parti o celle. Le prime dieci erano le meno orribili, esse avevano per nomi: Les Chaînes (le catene), Beauvoir (bellavista), la Motte (la zolla di terra), la Salle (la sala d'attesa), les Boucheries (i macelli), Beaumont (bella montagna), la Grièche (l'uccello), Beauvais (seduta di canapa), Barbarie e Gloriette (grande voliera). Le seguenti erano molto più odiose, certi nomi sono eloquenti: Le Puits (il pozzo), les Oubliettes (le segrete), l'Entre-deux-huis (uscio tra i due), la Gourdaine (amo per pescare), le Berceau (la culla). Infine le ultime due erano particolarmente atroci:
La fosse, chiamata anche Chausse d'hypocras (Calza di Ippocrate), nella quale i prigionieri erano calati con l'aiuto di una puleggia[N 2]. Sembra che avesse la forma di un cono rovesciato. I prigionieri avevano sempre i piedi nell'acqua e non potevano tenersi in piedi o coricati. Vi morivano di solito dopo quindici giorni di detenzione.
Fin d'aise (Fine della comodità) che era riempita d'immondizia e di rettili.

Addirittura queste prigionie avevano una tariffa. I prigionieri dovevano pagare il geôlage[22] per ogni notte durante la loro prigionia e un supplemento per un letto. Le tariffe variavano a seconda della sua condizione: « Conte, Cavaliere di Bandiera, cavaliere, scudiero, lombardo (usuraio), ebreo o altro. »

Diversi personaggi famosi furono imprigionati al Châtelet:
François Villon (1448)
Clément Marot (1526)[N 3]
Louis-Dominique Bourguignon detto Cartouche (1721)
Robert François Damiens (1757)
Thomas de Mahy de Favras (1790)

L'obitorio

Nel XV secolo, la morgue (obitorio) ha l'aspetto di una miniera. I prigionieri portati nelle celle inferiori del Châtelet di Parigi erano « morgués » (umiliati) dai loro carcerieri, cioè fissati con insistenza e probabilmente con arroganza e disprezzo, per essere in grado di identificarli in caso di fuga o di recidiva. Per estensione, il nome « camera mortuaria » è stato attribuito a queste celle. Il deposito di un cadavere al Châtelet è menzionato per la prima volta da una sentenza del prevosto di Parigi del 23 dicembre 1371. Un'altra sentenza del prevosto di Parigi, del 1º settembre 1734, associa le celle dei bassifondi del Chatelet alla identificazione dei cadaveri.

Più tardi queste celle sono state trasferite in un'altra parte del Chatelet; la « camera mortuaria » fu destinata, nel XVIII secolo, all'esposizione dei corpi trovati in strada o annegati nella Senna. Una quindicina di corpi sono stati trovati ogni notte nel XVII secolo. Le filles hospitalières de Sainte-Catherine (figlie dell'ospedale di Santa Caterina) erano tenute a lavarli e a farli inumare nel cimitero degli Innocenti[26]. Un'apertura praticata nella porta permetteva di riconoscerli « turandosi il naso ». Nel 1804, il questore prefetto di polizia Louis Nicolas Dubois fa traslocare l'obitorio al Quai du Marché-Neuf (quartiere del Mercato Nuovo) sull'Île de la Cité.

Nel 1790, con l'abolizione dell'ufficio del prevosto di Parigi, il Châtelet perde le sue funzioni, e come parte della generale ristrutturazione dell'area fu demolito tra il 1802 e il 1810.


Nel 1808, Napoleone Bonaparte dà l'ordine di distruggere il Grand Châtelet. Sul suo sedime saranno costruite la Place du Châtelet al lato nord del ponte grande e il Théâtre du Châtelet, inaugurato nel 1862.


Hôpital de la Charité




L'Hôpital de la Charité (Ospedale della carità) è stato un ospedale di Parigi, fondato nel XVII secolo e chiuso nel 1935.

Storia

Nel 1606, Maria de Medici invitò l'ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio in Francia. L'abate di Saint-Germain-des-Prés concesse loro l'uso della sua ex cappella di Saint-Père che fu da loro riparata.

Nel 1613 iniziarono la costruzione di strutture ospedaliere più importanti. La vecchia cappella fu demolita per essere sostituita con una nuova e più grande.

Gli edifici originali del Hôpital de la Charité sono stati demoliti intorno al 1935 per far posto alla facoltà di medicina di Parigi.

Medici che hanno esercitato presso l'Hôpital de la Charité

Pierre-Jean Burette (1665-1747)
François Gigot de Lapeyronie (1678-1747)
François de Lassone (1717-1788)
Pierre Joseph Desault (1744-1795)
Jean-Nicolas Corvisart (1755-1821)
Alexis Boyer (1757-1833)
René Laennec (1781-1826)
Pierre Rayer (1793-1867)
Pierre Adolphe Piorry (1794-1879)
Alfred Velpeau (1795-1867)
Jean-Baptiste Bouillaud (1796-1881)
Casimir Davaine (1812-1882)
Augusta Dejerine-Klumpke (1859-1927)
Albert Calmette (1861-1933)
Georges Guillain (1876-1961)


Palazzo delle Tuileries






Il Palazzo delle Tuileries sorgeva a Parigi in Francia sulla riva destra della Senna fino al 1871, quando venne distrutto.


Storia delle Tuileries



Dopo la conquista di Milano avvenuta il 23 ottobre del 1515, Francesco I Re di Francia si diede ai piaceri ed ai divertimenti più svariati trasformando il Castello des Tournelles in un suo personale gineceo, tale contesto provocò il disappunto della madre Luisa di Savoia che decise di trasferire la sua sede a Parigi. La Regina Madre nella capitale aveva fatto erigere, con i denari cumulati derante la reggenza, un sontuoso palazzo sulle rive della Senna, questi fu l'ubicazione originaria del Palazzo delle Tuileries che fu abbellito e reso opulente dal figlio. Successivamente dopo la morte di Enrico II di Francia nel 1559, la sua vedova Caterina de' Medici (1519-1589) progettò la costruzione di un nuovo palazzo. Ella iniziò la costruzione del palazzo delle Tuileries nel 1564 nello stesso sito della sua precedentrice, sotto la guida dell'architetto Philibert de l'Orme. Il nome del palazzo deriva dalle fornaci per la cottura delle tegole (tuiles) che occupavano l'area in precedenza. Il palazzo fu realizzato da una serie di lunghi edifici dalle volte molto alte che includevano due cortili di dimensioni diverse. L'edificio venne notevolmente ingrandito nel XVII secolo così che l'angolo di sud-est si unisce al Louvre. I giardini delle Tuileries vennero creati, su ordine di Caterina, dal fiorentino Bernardo Carnesecchi nel 1564 (furono poi ristrutturati da Mollet nel 1609 e successivamente da André Le Nôtre nel 1664, la cui impronta è ancora individuabile nonostante le successive trasformazioni).

Luigi XIV risiedette al palazzo delle Tuileries mentre Versailles era in costruzione. L'architetto dei suoi giardini, André Le Nôtre, sistemò il terreno per le Tuileries nel 1664, ma quando il re andò via, l'edificio fu abbandonato; si usò solamente come un teatro, ed i suoi giardini divennero un luogo di passeggio alla moda per i parigini. Durante la Rivoluzione francese, Luigi XVI e la sua famiglia furono costretti a ritornare da Versailles alle Tuileries agli arresti domiciliari ad iniziare dall'ottobre 1789. Mentre si trovavano nel palazzo, tentarono di fuggire la sera del 20 giugno 1791, ma vennero catturati a Varennes e riportati alle Tuileries. Il palazzo, successivamente, il 10 agosto fu assaltato dalla folla di Parigi in rivolta che massacrò la Guardia reale; la famiglia reale fuggì attraverso i giardini e si rifugiò assieme ai componenti dell'Assemblea legislativa.
Il 9 novembre 1789, l'Assemblea Nazionale Costituente, gli ex Stati generali del 1789, si trasferì da Versailles alle Tuileries, a seguito del trasferimento del re a Parigi. La Salle du Manège, sede dell'accademia equestre reale, era allora la più grande sala coperta di Parigi e servì come luogo di riunione per L'Assemblea costituente e quindi per Convenzione nazionale e per il Concilio dei 500 del Direttorio prima che questi si trasferisse al Palais Bourbon nel 1798.

Quando Napoleone Bonaparte salì al potere come primo console fece delle Tuileries la sua residenza e quindi, successivamente, la residenza imperiale. Nel 1808 iniziò la costruzione di una nuova ala che collegò il palazzo con il Louvre creando così un grande cortile.

A seguito della scelta come residenza ufficiale di Napoleone, il palazzo venne ridecorato in stile neoclassico (stile impero) da Charles Percier e Pierre François Léonard Fontaine oltre che da alcuni dei più noti architetti e mobilieri dell'epoca. A Pierre Paul Prud'hon venne commissionata la ristrutturazione dell'appartamento della imperatrice Maria Luisa d'Asburgo-Lorena. Per la stanza nuziale dell'imperatrice disegnò i mobili e la decorazione degli interni in una rivisitazione dello stile greco antico.
Nel 1809, Jacob-Desmalter, principale fornitore di arredamenti dell'imperatore, cominciò a lavorare ad una stanza da letto per l'imperatrice Giuseppina Beauharnais nel palazzo delle Tuileries (terminata per essere usata dall'imperatrice Maria Luisa). Questo monumentale mobilio disegnato dall'architetto era impreziosito da numerosi intarsi in bronzo; il pannello centrale rappresentava la "Nascita della regina della terra alla quale Cupido e le dee fanno delle offerte" dell'artista scultore Pierre-Philippe Thomire, su di un bassorilievo di Antoine-Denis Chaudet. Jacob-Desmalter completò il grande lavoro nel 1812 con due piccoli mobili, nello stesso stile, usando del legname non esotico.

Il palazzo delle Tuileries servì come residenza reale anche dopo la restaurazione della monarchia borbonica. Nella Rivoluzione di luglio del 1830, il palazzo venne attaccato per la terza volta dai parigini in rivolta. Luigi Filippo vi stabilì la sua residenza fino al 1848, quando il palazzo fu nuovamente attaccato il 24 febbraio. Le guardie svizzere a custodia del palazzo, a conoscenza di quanto accaduto ai loro predecessori nel 1792, abbandonarono il palazzo.

Il palazzo venne utilizzato ancora una volta come residenza reale dopo il colpo di stato di Napoleone III nel 1852; quando il presidente Luigi-Napoleone Bonaparte divenne l'imperatore Napoleone III, si spostò dal Palazzo dell'Eliseo a quello delle Tuileries. Durante il secondo impero, il palazzo venne profondamente modificato nelle decorazioni e nell'arredamento dopo i danni subiti a seguito della rivoluzione del 1848. Alcune sale dell'appartamento di stato, pregevolmente ridecorate, vennero impiegate per i ricevimenti di stato ed in particolare quello della regina Vittoria d'Inghilterra del 1855. Sotto il secondo impero venne completata l'ala nord del Louvre lungo Rue de Rivoli, che collegava le Tuileries con il resto del palazzo del Louvre. Si completava così il progetto realizzato tre secoli prima.

La linea dei tetti del palazzo, e particolarmente quella della cupola centrale, venne adottata in molte costruzioni in Inghilterra e negli Stati Uniti nella costruzione di alberghi, edifici commerciali e privati.

Il completamento delle Tuileries

Il completamento del palazzo Louvre-Tuileries non fu definitivo. Il 23 maggio 1871, durante la repressione della Comune, dodici uomini agli ordini dell'estremista Dardelle, misero il palazzo a fuoco alle 19.00. Il fuoco arse per 48 ore e bruciò completamente il palazzo. Soltanto il 25 maggio, i pompieri ed il 26º battaglione riuscirono a domare il fuoco. Soltanto il museo riuscì ad essere miracolosamente salvato.

Le rovine delle Tuileries rimasero sul luogo per molti anni. Nonostante i tetti e gli interni del palazzo fossero stati distrutti dall'incendio, lo scheletro rimase in piedi e sarebbe stato quindi possibile operare la ricostruzione. Altri monumenti di Parigi bruciati dai comunardi, come l'Hôtel de Ville, vennero ricostruiti dopo il 1870. Dopo molte esitazioni, il governo della terza repubblica decise di non restaurare il Palazzo delle Tuileries in quanto simbolo degli antichi regimi monarchico ed imperiale. D'altra parte la porzione del Louvre che fu bruciata dall'incendio, venne ricostruita nel suo stile originale dal governo francese.

Nel 1882 l'Assemblea nazionale francese, votò per la demolizione delle rovine che vennero vendute ad un imprenditore privato per la somma di 33.300 franchi d'oro (approssimativamente 130.000 euro del 2005), nonostante le proteste del barone Haussmann e altri membri di circoli artistici parigini che dichiararono che l'operato del governo era un crimine contro l'arte e la storia di Francia. La demolizione iniziò nel febbraio del 1883 e venne completata il 30 settembre dello stesso anno. Pietre e marmi del palazzo vennero venduti ai privati come ricordo.

I giardini delle Tuileries


Quando il grande spazio vuoto fra l'ala nord e quella sud del Louvre a noi così familiare, si realizzò nel 1883 con la demolizione di cui si è detto, per la prima volta il cortile del Louvre si affacciò sui giardini delle Tuileries. I giardini, Jardin des Tuileries in francese, vennero circondati dal palazzo del Louvre ad est, dalla Senna a sud, dalla Place de la Concorde ad ovest e da Rue de Rivoli a nord. Ancora a nord, per Rue de la Paix si raggiunge Place Vendôme.

I giardini delle Tuileries ricoprono oggi una superficie di 25 ettari, furono, come detto, inizialmente creati su ordine di Caterina dei Medici dal fiorentino Bernardo Carnesecchi nel 1564, ristrutturati da Mollet nel 1609 e dall'architetto André Le Notre nel 1664. Nonostante successive trasformazioni conservano attualmente l'impronta data loro da André Le Notre. La loro pianta spaziosa si riflette sulle due vasche poste sull'asse centrale ai due estremi fino all'Arc du Carrousel.

La Galleria nazionale del Jeu de Paume è un museo d'arte contemporanea ubicato nell'angolo nord-est dei giardini su Place de la Concorde. Simmetricamente disposto verso l'angolo di sud-est vi è l'Orangerie (l'Aranceto), dove re Luigi XVI aveva fatto attrezzare una serra idonea ad ospitare alberi d'aranci. Dopo un lungo restauro, nel 2005 l'Orangerie è tornata alla sua funzione museale e raccoglie famose opere di Impressionisti (Renoir, Manet, Cézanne, Rousseau e, specialmente, le notissime "ninfee" di Monet, disposte a 360° in due saloni ovali perfettamente idonei allo scopo). Dopo il Musée d'Orsay ma prima del Marmottan, l'Orangerie è quindi il terzo polo museale dedicato all'Impressionismo in Francia.


Petit Châtelet




Il Petit Châtelet è uno dei due ponti che dal IX secolo collegavano l'île de la Cité di Parigi alle rive della Senna, protetti da due piccoli castelli, prima in legno e poi in pietra. Il Petit Châtelet a sud, per proteggere l'accesso al Petit-Pont, le Grand Châtelet, a nord, per proteggere l'accesso al Ponte Grande (oggi Pont au Change).

Situato all'estremità meridionale del Petit-Pont, il petit Châtelet è stato chiamato così per distinguerlo dal grand Châtelet situato al di là del Ponte grande. A Parigi comunque quando si utilizza il nome « Châtelet » senza ulteriori specificazioni, ci si riferisce sempre al Grand Châtelet.

Il Grand Châtelet è stata una fortezza dell'Ancien Régime, che conteneva un palazzo di giustizia ed una sede della polizia con un certo numero di prigioni, situata a Parigi sulla rive droite della Senna, sul sito di quello che oggi è la Place du Châtelet.

L'area attorno al Châtelet era fetida a causa dell'odore di essiccazione del sangue proveniente dai macelli vicini e "l'emissario della fogna grande che colava nella Senna fra il Pont Notre-Dame e il Pont au Change".

Origine

Nel III secolo, la città, che si chiama ancora Lutezia, era concentrata nell'île de la Cité, protetta da fortificazioni romane formate da un muro di 2,50 m di spessore. Sembra che a quel tempo nessun manufatto proteggesse l'accesso ai ponti di legno, questi potevano essere rapidamente distrutti o bruciati in caso di attacco. È nel 877 che Carlo II il Calvo ha fatto rafforzare le fortificazioni di Parigi per proteggere la città dalle incursioni dei Normanni che si moltiplicavano. Le mura romane sono state riparate, ponti rafforzati e i loro piloni rinserrati per impedire il passaggio delle imbarcazioni. Fece anche costruire delle torri in legno formando piccoli castelli, per proteggere le estremità dei ponti.

Così, quando gli invasori normanni risalgono la Senna nel novembre dell'anno 885, si imbattono in una fortezza impenetrabile. Le prime feroci offensive furono respinte con determinazione dai difensori, seguì un lungo assedio di Parigi (885-886) per cercare di ridurre alla fame la popolazione e farla capitolare. Nel febbraio del 886, una grande inondazione della Senna porta via il ponte piccolo, isolando i dodici difensori rimasti nella torre di quello che diventerà il Petit Châtelet. Combatterono ferocemente fino all'ultimo e sono stati tutti massacrati. Carlo il Grosso alla fine arriva con le sue truppe e compra la partenza dei Normanni che si spostano devastando la Borgogna.

Medio Evo


Le Grand Chatelet formava una fortezza quasi quadrata, con un cortile in centro e porte secondarie, circondata da profondi fossati pieni di acqua corrente, alimentati dalla Senna. Due torri fiancheggiano i due angoli verso l'esterno. Sono destinate a proteggere l'uscita nord del Ponte Grande.
Il petit Châtelet non era, in realtà, che un edificio costituito da una porta d'ingresso con appartamenti ai piani superiori e due torri ai fianchi.

Una alluvione della Senna il 20 dicembre 1296 aveva distrutto il Petit-Pont e il petit Châtelet; quest'ultimo fu ricostruito da Carlo V, nel 1369, e servì più tardi da prigione di Stato. Carlo VI, nelle sue lettere patenti del 27 gennaio 1382, stabilisce che il Petit Châtelet, riedificato da Hugues Aubriot, serva da dimora e sede del prevosto di Parigi, allo scopo che sia sempre nella sede ove esercita le sue funzioni. Nello stesso documento ordina che le prigioni della fortezza, che non erano mai state utilizzate, servano come aggiuntive a quelle del Grand Châtelet.

Durante il periodo che la Lega cattolica controllava Parigi, il conseil des Seize fece arrestare e impiccare, nell'aula del petit Châtelet, senza prima un processo, il 14 novembre 1591, Barnabé Brisson, presidente del Parlement di Parigi, assieme ai consiglieri Claude Larcher e Tardif, che erano sospettati di favorire il partito del Re.

È sotto il passaggio buio che conduce all'interno del petit Chatelet che sono stati riscossi, sin dai tempi di Luigi IX, i diritti doganali delle merci che arrivano nella città. Una tassa, citata da Saint-Foix, comporta che un mercante che introdurrà una scimmia per venderla pagherà quattro denari; che, se la scimmia appartiene a un giocoliere, quest'uomo, facendola suonare e ballare davanti al pubblico pagante, sarà libero dal pedaggio, tanto dicasi della scimmia che tutto ciò che avrà portato per il suo uso; da qui l'espressione « pagare in moneta di scimmia. »

Una Lettera patenti del 22 aprile 1769 ordina la distruzione del Petit Châtelet che fu demolito nel 1782 per motivi di pubblica utilità; la sua prigione trasferita alla Prison de La Force e lo spazio libero trasformato nella place du Petit-Pont.



Torre del Tempio







La Torre del Tempio faceva parte di una serie di edifici fortificati costituenti la fortezza parigina costruita dall'Ordine dei Templari a partire dal 1240, Luigi IX regnante. Dopo alterne vicende, soppresso l'Ordine nel 1314, la torre divenne una prigione. La sua celebrità è dovuta al fatto che durante la rivoluzione francese in essa vennero incarcerati, fra gli altri, anche i membri della famiglia reale francese fra il 1792 e il 1793. Situata nel 3º arrondissement di Parigi, la torre fu fatta abbattere da Napoleone Bonaparte nel 1808.


La torre al tempo della Rivoluzione


Al fondo del palazzo del Gran Priore si notava il possente torrione dei Templari e, sulla sinistra, la Torre di Cesare ed il campanile della Collegiata costruito sul modello della Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme.
Bisognava passare dal palazzo del Gran Priore per giungere al muro di cinta della Torre del Tempio. Il muro era interrotto da un portone su un passo carraio, rinforzato da barre di ferro, munito di una grossa serratura e di una porta per soli pedoni, il tutto controllato, al tempo della Rivoluzione, da due guardiani. Si entrava quindi nel giardino, ove appariva l'imponente mole della Gran Torre, fiancheggiata dalle quattro torricelle dal tetto a cono, dotate di feritoie e strette finestre. Le canne fumarie correvano lungo il muro, aumentando l'aspetto arcigno della costruzione. Banderuole sormontavano i colmi della Torre e delle quattro torricelle.

La Grande Torre

Questa si ergeva ad una delle estremità dell'antico complesso monastico (all'altezza dell'attuale Palazzo comunale). La Torre era una robusta costruzione feudale, alta circa 50 metri, i cui muri avevano uno spessore medio di 4 metri ed era costituita da quattro piani le cui volte ad ogiva poggiavano su un pilastro centrale. Essa era fiancheggiata da quattro torricelle delle quali una rinchiudeva una scala collimante. La torre rimase inutilizzata per secoli finché l'11 agosto 1792 un imprenditore, Pierre-François Palloy, detto il Patriota, venne incaricato della sua ristrutturazione. Egli aveva diviso ciascun piano in più parti, mediante tramezzi ricoperti di cartoni dipinti, e nascoste le volte, troppo alte, con falsi soffitti.

La Piccola Torre

Attaccata alla facciata della Grande Torre, la Piccola Torre, la cui stretta costruzione era fiancheggiata da due torricelle, non comunicava con la Grande Torre, dettaglio questo di una certa importanza. Essa aveva un pianoterra sul quale si sviluppavano altri quattro piani. Fu in questa torre che la famiglia reale francese venne imprigionata il 13 agosto 1792: il re, Luigi XVI vi rimase fino al 26 settembre dello stesso anno, mentre la famiglia rimase fino al 26 ottobre.

Attribuzione dei piani della Piccola Torre


Il 13 agosto 1792 i piani della Petite Tour furono attribuiti come segue:
Il primo fu assegnato alle tre dame di camera: Mmes Bazire, Navarre, Thibaud
Le secondo fu assegnato alla regina Maria Antonietta ed alla figlia Maria Teresa. Era la vecchia camera di Barthélémy, archivista dell'Ordine di Malta, che era stato espulso dal suo domicilio dagli agente della Comune. Allo stesso piano la principessa di Lamballe dormiva nell'anticamera sopra una branda, Luisa Elisabetta di Croÿ di Tourzel, governante dei figli del re, ed il Delfino, Louis-Charles, condividevano la stessa camera. Vi era un vano per la toilette ed un guardaroba.
Il terzo piano fu assegnato al re, che dormiva solo, sopra un letto a baldacchino. Madame Élisabeth, sorella del re, condivideva la sua camera con la figlia di Luisa Elisabetta di Croÿ di Tourzel, Pauline de Tourzel. I valletti François Hue e Chamilly dormivano in un piccolo stanzino che dava su un'anticamera. Questo piano era anch'esso dotato di un gabinetto e di un guardaroba. Inoltre, il re disponeva di una stanza di lettura ricavata in una delle torricelle.

Assegnazione dei piani della Grande Torre



La Comune di Parigi ne fece la prigione della famiglia reale. Il 26 settembre 1792, Luigi XVI venne trasferito nella Grande Torre, seguito un mese dopo dalla consorte, Maria Antonietta, e dai figli.
Il piano terra.Il piano terra non era stato ristrutturato. Il consiglio di sorveglianza del Tempio vi s'installò l'8 dicembre del 1792. Quest'ampia parte di circa 60 metri era ammobiliata con quattro letti destinati ai commissari, un bureau, un leggìo per Jean-Baptiste Cléry, cameriere personale del re, di armadi, uno dei quali contenente i registri. Era in questa sala che i funzionari municipali consumavano i loro pasti in compagnia degli ufficiali della Guardia nazionale francese, in servizio presso il Tempio.
Il primo pianoIl primo piano ospitava il corpo di guardia, una quarantina di uomini che dormivano su letti da campo. Come il piano terra, questo piano non era stato ristrutturato. Alcuni campanelli collegavano il corpo di guardia con la sala del consiglio e con gli appartamenti della famiglia reale. Tutti i piani erano serviti da una sola scala.
Il secondo pianoEra contornato da tre torrette. Fu assegnato al re. Un corridoio a gomito, sbarrato da due porte, una in ferro e l'altra in legno di quercia, dava accesso alla scala. Il piano era costituito da quattro parti, ognuna delle quali prendeva luce da una finestra con grata ed in parte ostruita da un abat-jour a forma di cappa. Nell'anticamera era stato affisso un manifesto con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 riquadrato dal tricolore. Questa parte era costruita in pietra ed era ammobiliata da quattro sedie, da uno scrittoio e da un tavolo da trictrac. Un tramezzo a vetri la separava dalla sala da pranzo. La camera del re era tappezzata di un giallo vivace e comunicava con l'anticamera tramite una doppia porta a battenti e rimaneva aperta tutto il giorno per facilitare la sorveglianza. Questa parte era dota di un caminetto che stava di fronte alla porta, sormontato da una specchiera. Il letto del re era posto contro il tramezzo. In prolungamento del letto del re vi era una branda destinata al Delfino. I mobili provenivano dal Palazzo del Gran Priore dell'Ordine di Malta. Una torretta serviva da oratorio. Dopo la camera del re si trovava quella di Jean-Baptiste Cléry. Un'altra torretta serviva da guardaroba e la terza da legnaia.

Il terzo pianoQuesto era il piano riservato alla regina, alla figlia e ad alla cognata, Elisabetta di Francia. L'appartamento aveva la medesima superficie di quello del re, ma non ne era la riproduzione esatta. Un'anticamera identica precedeva la camera della regina, sita sopra quella del re, ed aveva anch'essa una doppia porta. Era ammobiliata con un tavolo, un letto ed alcuna sedie. La tappezzeria della camera era dipinta di fiori verdi su fondo blu, aveva una porta a due battenti ed un caminetto. Vi era stato piazzato il letto di Maria Teresa di Francia in un angolo, poco più di una cuccetta. Vi era un canapè, un comodino, un paravento e due tavolini da notte. Una torretta serviva da gabinetto. La camera scura di Madame Élisabeth era sita sopra la camera di Cléry, era provvista di un caminetto, di un letto di ferro, di un comodino, un tavolo, due poltrone e due sedie.
Il quarto pianoEra libero e veniva utilizzato come granaio. Tra i merli e la falda del tetto di ardesia correva un cammino di ronda. All'inizio della prigionia, era consentito alla famiglia del re andarvi a passeggiare ed a questo scopo il Consiglio del Tempio aveva fatto sistemare fra i merli alcune tavole in legno per impedire la vista dei reali dall'esterno.

I commissari, designati ogni sera dal Comune, disponevano ciascuno di una camera e di una sala riunione per tutti. Nel fabbricato ove si apriva la grande porta del complesso e che correva lungo la via del Tempio, si trovavano gli alloggiamenti dei portieri, l'economato e le cucine. La truppa aveva stabilito il suo quartier generale nel Palazzo del Gran Priore. Essa comprendeva un comandante generale, un capo di legione, un aiutante generale, un aiutante maggiore, un portabandiera, venti artiglieri per due cannoni, 287 uomini in tutto contando anche gli ufficiali subalterni, i sottufficiali ed i soldati semplici. Questa era designata a turno dalle otto divisioni della Guardia Nazionale di Parigi.

La partenza della famiglia reale e dei suoi accompagnatori dal Tempio

Il 21 gennaio 1793 Luigi XVI lascia la Torre del Tempio per salire al patibolo, installato in place de la Révolution.

Il 1º agosto 1793 Maria-Antoinetta viene trasfirita alla Conciergerie .

Il 10 maggio 1794, dopo 21 mesi di permanenza presso la Torre del Tempio, Madame Élisabeth sale a sua volta al patibolo.

L'8 giugno 1795 il piccolo Luigi XVII muore nella Torre del Tempio.

Il 17 dicembre 1795 Maria-Teresa di Francia, dopo tre anni di permanenza presso la Torre del Tempio, viene scambiata contro quattro commissari consegnati al nemico da Charles François Dumouriez.

Distruzione della Torre del Tempio

Il Tempio incarnava agli occhi dei monarchici il luogo del supplizio della monarchia ed era divenuto mèta di pellegrinaggio. Per frenare tale sviluppo Napoleone Bonaparte decise di consegnare la Torre del Tempio ai demolitori nel 1808. Il lavoro di demolizione durò due anni. L'angolo nord del municipio del 3º arrondissement e la griglia del giardinetto del Tempio furono eretti sulla sede della Torre. Al posto del Palazzo del Gran Priore, nel XIX secolo fu posto il giardinetto del Tempio.

Ad oggi non rimane nulla di questo luogo della "mitologia" rivoluzionaria che una considerevole produzione di immagini che rappresentano le caratteristiche tragiche del luogo.

All'angolo delle vie rue Dupetit-Thouars e rue Gabriel-Vicaire, sulla cinta di una scuola materna sita a fianco della Scuola Superiore della Arti applicate Duperré, è sita una lapide sulla quale è riprodotto la doppia mappa dell'antico palzzo e delle vie attuali, con il municipio in rosso.

Araldica

Luigi XVIII fece modificare l'arme di Raymond de Sèze, uno degli avvocati di Luigi XVI, per farvi comparire le château du Temple.
 
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morgana1869
view post Posted on 24/4/2013, 07:07     +1   -1




Antirodi







Antirodi (dal greco Aντίρρoδος, Antirrhodos) è un'isola sommersa nel golfo del porto di Alessandria d'Egitto. Vi si trovava un palazzo reale, alcuni dicono il palazzo di Cleopatra. Venne sommersa da una serie di disastri naturali intorno al 300 d.C.

Strabone, nel suo Geografia (C794, libro XVII, capitolo 9) descrive che, entrando nel porto, si poteva osservare l'isola di Faro a destra (Ovest) e un gruppo di palazzi a sinistra (Est), a partire da capo Lochias. Da questo lato, Antirodi, con palazzo, giardini e piccolo porto, il cui nome, dice Strabone, appare un ambizioso richiamo alla ben più grande isola di Rodi. Durante recenti scavi guidati dall'archeologo francese Franck Goddio il palazzo invece fu individuato più verso occident
 
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morgana1869
view post Posted on 24/4/2013, 08:10     +1   -1




Faro di Alessandria






Il Faro di Alessandria, considerato una delle sette meraviglie del mondo antico nonché una delle realizzazioni più avanzate ed efficaci della tecnologia ellenistica, fu costruito sull'isola di Pharos, di fronte al porto di Alessandria d'Egitto, negli anni tra il 300 a.C. e il 280 a.C. e rimase funzionante fino al XIV secolo, quando venne distrutto da due terremoti.

Storia

Fu fatto costruire da Sostrato di Cnido, un mercante greco; il progetto fu iniziato da Tolomeo I Sotere, all'inizio del proprio regno, e venne completato dal figlio Tolomeo II Filadelfo. Lo scopo dell'imponente opera era aumentare la sicurezza del traffico marittimo in entrata e in uscita, reso pericoloso dai numerosi banchi di sabbia nel tratto di mare prospiciente il porto di Alessandria e dall'assenza di rilievi orografici. Esso consentiva di segnalare la posizione del porto alle navi, di giorno mediante degli speciali specchi di bronzo lucidato che riflettevano la luce del sole fino al largo, mentre di notte venivano accesi dei fuochi.

Si stima che la torre fosse alta 134 metri, una delle più alte costruzioni esistenti per l'epoca, e il faro, secondo la testimonianza di Giuseppe Flavio, poteva essere visto a 48 km di distanza, cioè fino al limite consentito dalla sua altezza e dalla curvatura della superficie terrestre. Era costituita da un alto basamento quadrangolare, che ospitava le stanze degli addetti e le rampe per il trasporto del combustibile. A questo si sovrapponeva una torre ottagonale e quindi una costruzione cilindrica sormontata da una statua di Zeus o Poseidone, più tardi sostituita da quella di Helios.
La costruzione del faro di Alessandria si rivelò di grande utilità e indusse a costruire analoghi fari in vari altri porti del mar Mediterraneo ellenistico. Non si hanno descrizioni esatte del suo funzionamento, probabilmente a causa della riservatezza che, come spesso in seguito, nel mondo ellenistico era mantenuta sugli impianti di tecnologia avanzata. Si può comunque supporre che il fascio luminoso del faro venisse rafforzato dall'uso di specchi parabolici, tecnica tipicamente applicata nell'era moderna: le conoscenze matematiche su cui si basano questi apparati riguardano la teoria delle coniche e la catottrica ben nota negli ambienti scientifici di Alessandria (Apollonio, Euclide). Inoltre, la forma cilindrica del contenitore della sorgente di luce induce a pensare che dal faro provenisse un fascio di luce girevole, più utile per i naviganti di una sorgente fissa. Nei secoli successivi queste tecnologie andarono perdute, come gran parte della cultura scientifico-tecnologica ellenistica. Si riprese a costruire dei fari solo nel XII secolo (la prima Lanterna di Genova è realizzata nel 1128 o nel 1139), ma senza riflettori basati sulla teoria delle coniche. Questi verranno recuperati solo nei primi decenni del XVII secolo, in particolare da Bonaventura Cavalieri, e consentiranno la costruzione dei primi fari moderni alla fine del secolo.

Ad eccezione della Piramide di Cheope, il Faro fu la più longeva delle sette meraviglie. Rimase in funzione per sedici secoli, fino a quando nel 1303 e nel 1323 due terremoti lo danneggiarono irreparabilmente. Nel 1480 il sultano d'Egitto Quaitbay utilizzò le sue rovine per la costruzione di un forte nelle vicinanze. Numerosi blocchi ed elementi architettonici sono stati recuperati in mare, insieme alle colossali statue di Tolomeo II e della moglie Arsinoe II rappresentata come Iside.

Dal nome dell'isola Pharos ebbe etimologicamente origine il nome "faro" in molte lingue romanze: faro in italiano e spagnolo, farol in portoghese, phare in francese e far in rumeno.



Museo (Alessandria)



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Il Museo (museion in greco, musaeum in latino) eretto in Alessandria d'Egitto per iniziativa di Tolomeo I era, come dice il nome, un edificio dedicato alle Muse, ossia alle divinità protettrici delle arti e delle scienze.

Luogo d'incontro tra dotti, ed anche di insegnamento, rappresentò per secoli la massima istituzione culturale del mondo ellenistico; al Museo era annessa la famosa biblioteca.

Tra le figure che hanno legato il loro nome al Museo possiamo ricordare Euclide, ma anche Eratostene e il medico Erofilo, fondatore della medicina sperimentale.

Il termine è entrato nell'uso comune in molte lingue moderne, a partire dal XVII secolo, per indicare un luogo ove sono conservate collezioni di opere d'arte o reperti archeologici. A partire dal XX secolo il termine è stato usato anche per indicare collezioni di oggetti di varia provenienza.



Abbazia di Lorsch



L'Abbazia imperiale di Lorsch (in tedesco: Reichsabtei Lorsch, in latino: Laureshamense Monasterium, chiamata anche Laurissa o Lauresham) fu una delle più famose abbazie dell'Impero carolingio; essa si trova nella cittadina di Lorsch, in Assia, circa 10 chilometri a est di Worms. Pur essendo caduta in rovina, i suoi resti sono comunque considerati l'edificio pre-romanico più importante di tutta la Germania. Nel 1170 venne compilato qui un manoscritto (conservato oggi negli archivi di stato di Würzburg) che è di fondamentale importanza come fonte di notizie sulla Germania medievale. Un altro importante documento proveniente dall'abbazia è il Codex Aureus, risalente all'VIII secolo. Nel 1991 le rovine dell'abbazia di Lorsch furono inserite nell'elenco dei Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO.


Gli inizi

L'abbazia venne fondata nel 764 dal conte dei Franchi Cancor e dalla madre Williswinda come chiesa proprietaria (in tedesco Eigenkirche), cioè costruita su di un terreno privato e su cui il signore feudale riteneva il diritto di nominare il personale ecclesiastico. Essi chiamarono quindi Chrodegang, arcivescovo di Metz, che consacrò la chiesa ed il monastero a San Pietro e ne divenne il primo abate. Nel 766 però egli rinunciò al titolo per dedicarsi al compito di Arcivescovo di Metz e mandò il fratello Gundeland come suo successore, insieme a 14 monaci benedettini. Per aumentare l'importanza dell'abbazia come luogo di pellegrinaggio, Chrodegang ottenne da Papa Paolo I il corpo di San Nazario, martirizzato a Roma insieme a 3 compagni durante il regno di Diocleziano. Le sacre reliquie arrivarono il giorno 11 luglio 765 e vennero deposte con tutti gli onori nella basilica che si trova all'interno del monastero. Gli edifici vennero quindi rinominati in onore di San Nazario.

La chiesa principale, dedicata ai santi Pietro, Paolo e Nazario, venne consacrata dall'arcivescovo di Magonza Lullo nel 774, alla presenza di Carlo Magno. Presto si sparse la voce di numerosi miracoli avvenuti a Lorsch per intercessione di San Nazario e cominciarono a giungere pellegrini da molte parti d'Europa. La biblioteca e lo scriptorium dell'abbazia resero Lorsch uno dei principali centri culturali tedeschi del X e XI secolo. Papi e imperatori favorirono a più riprese l'abbazia di Lorsch con privilegi e donazioni, dalle Alpi al Mare del Nord, rendendola in breve tempo non solo immensamente ricca, ma anche sede di una notevole influenza politica. Venne quindi dichiarata una Reichsabtei, cioè una specie di principato sovrano, soggetto direttamente e solamente al Sacro Romano Imperatore. La fama dell'abbazia si può intuire dal fatto che due sovrani carolingi, Ludovico II il Germanico e Ludovico III della Francia Orientale, furono sepolti qui.

La decadenza

L'abbazia fu implicata anche in numerose dispute feudali e addirittura in alcune guerre. Dopo essere stata governata da 46 abati benedettini, Conrad, l'ultimo abate, venne deposto nel 1226 da Papa Gregorio IX; nel 1232, a causa delle pressioni di Federico II, l'abbazia andò a far parte dei possedimenti di Sigfrido II, Arcivescovo di Magonza, ponendo fine al periodo d'oro dell'indipendenza politica e culturale di Lorsch.

Negli anni quaranta del XIII secolo vennero incaricati di prendersi cura del monastero dei monaci premonstratensi, con l'avallo di Papa Celestino IV, ed essi rimasero fino al 1556, quando Lorsch e altri territori della regione passarono nelle mani di principi che aderivano al Luteranesimo e al Calvinismo. Ottone-Enrico, elettore palatino, portò tutti i volumi contenuti nella biblioteca dell'abbazia ad Heidelberg, creando così la famosa Biliotheca Palatina. Subito dopo, fra il 1557 e il 1563, i pochi rimanenti abitanti dell'abbazia vennero congedati e mandati altrove. Nel 1622, dopo la cattura di Heidelberg, Massimiliano I donò la splendida libreria (composta da 196 casse di manoscritti) a Papa Gregorio XV. Venne mandato Leone Allacci per sovrintendere allo spostamento di quel tesoro verso Roma, dove venne incorporato nella Biblioteca Apostolica Vaticana.

Durante la guerra dei trent'anni Lorsch e la regione in cui si trova vennero devastate e la maggior parte degli edifici rasi al suolo. Dopo che l'Arcivescovo di Magonza riguadagnò il possesso della città, essa tornò alla fede cattolica. Il periodo peggiore comunque venne durante le guerre con Luigi XIV, fra il 1679 e il 1697, quando interi villaggi e gli stessi edifici dell'abbazia vennero bruciati dai soldati francesi. Una parte della costruzione, lasciata integra, venne utilizzata come deposito di tabacco negli anni precedenti lo scoppio della prima guerra mondiale.

La vecchia porta di accesso, la Torhalle, costruita nel IX secolo da Ludovico III il Cieco, è il più antico monumento della Franconia che ci sia pervenuto: essa combina elementi degli archi trionfali di epoca romana con tipici elementi teutonici.

Abati di Lorsch (764-1229)

San Crodegango 764-765, anche Vescovo di Metz
Gundeland 765-778
Elmerico 778-784
Richbod 784-804
Adalung 804-837
Samuele 837-856
Eigilbert 856-864/865
Thiothroch 864/865-876
Babo 876-881
Walter 881-882
Gerardo 883-893
Adalberone 895-897 (Prima elezione)
Liutero 897-900 (Prima elezione)
Adalberone 900-901 (Seconda elezione)
Hatto 901-913
Liutero 914-931 (Seconda elezione)
Evergis 931-948?
Bruno di Sassonia (fratello di Ottone I di Sassonia) 948?-951
Gerbodo 951-972
Salmanno 972-999
Werner I 999-1001
Werner II 1001-1002
Geroldo I 1002-1005
Poppo, anche Abate di Fulda (della dinastia dei Babenberger) 1006-1018
Reginbaldo 1018-1032
Umberto 1032-1037
Bruning 1037-1043
Ugo I 1043-1052
Arnoldp 1052-1055
Udalrico 1056-1075
Adalberto 1075-1077
Winther (della dinastia dei Saargaugrafen) 1077-1088
Anselmo 1088-1101
Geroldo II 1101-1105
Ugo II 1105
Gebardo 1105-1107
Ermenoldo 1107-1111?
Benno 1111?-1119
Heidolfo 1119
Ermanno 1124-1125
Diemo 1125-1139
Baldemaro 1140-1141
Folknand 1141-1148
Ildeberto 1148
Marquardo 1148-1149
Enrico 1151-1167
Sigeardo 1167-1199/1200
Luitpoldo di Scheinfeld 1199/1200-1214
Corrado 1214-1229


Glaspavillon





Il Glaspavillon, (in italiano il Padiglione di vetro) fu costruito nel 1914 su progetto di Bruno Taut, in occasione dell'Esposizione del Deutscher Werkbund di Colonia. Influenzato dall’apparato formale dell'espressionismo, era un edificio a pianta circolare, realizzato per l'industria del vetro destinato a dimostrare al pubblico le possibilità dell’architettura del vetro.

Basato su una struttura portante in cemento, aveva le pareti a blocchi di vetro che illuminavano una sala a sette gradoni, rivestita con un mosaico di vetro. Come elemento principale la sommità strutturata a cupola e costituita da elementi rombodali in vetro. La documentazione fotografica dell'opera, in bianco e nero, ha valore relativo dato che il concetto dell'opera era fortemente basato sulle sue sembianze multicolori.

Sul padiglione erano incisi alcuni aforismi di Paul Scheerbart tratti dal suo Glasarchitektur, che egli aveva dedicato a Taut. Vi erano frasi come:"La luce vuole il cristallo", "Il vetro colorato elimina l'odio".

Dato che era destinato alla sola esposizione, venne demolito subito dopo.


Accademia di architettura




L'Accademia di architettura di Berlino (in tedesco: Bauakademie) era uno degli edifici ottocenteschi più importanti della città tedesca, sede della prestigiosa scuola che portava lo stesso nome. Le soluzioni scelte per questo palazzo furono prese come spunto dall'architettura razionale del Novecento, anche se esso venne eretto già nel 1832. Si tratta dell'opera più innovativa dell'architetto tedesco Karl Friedrich Schinkel. Scopo dell'architetto era quello di costruire un edificio scolastico per l'accademia da lui stesso frequentata durante la gioventù.

Descrizione dell'edificio


Il palazzo è a pianta quadrata: ciascuna delle quattro facciate, quasi uguali tra di loro, è suddivisa verticalmente in otto campate grazie a nove pilastri in muratura.

Questa struttura tradisce subito la divisione interna dell'edificio: la pianta dell'accademia è infatti a scacchiera. Essenzialmente, nove file di altrettanti pilastri formano lo scheletro dell'edificio e scandiscono la struttura della pianta, formata da 8x8 caselle; ciascuna delle 64 caselle che compongono la struttura base di ogni piano ha la larghezza e la lunghezza di 5,55 m. Lo schema è utilizzato in tutto il palazzo, tanto per la facciata quanto per la divisione degli spazi interni (che in genere occupano due o quattro caselle) e per la sistemazione del cortile (che occupa sei caselle). L'uso del ferro, all'epoca carissimo, è essenzialmente limitato al collegamento tra i vari pilastri.

Grazie all'apporto statico dei massicci pilastri esterni, Schinkel può alleggerire i muri del palazzo illuminandolo con ampie finestre a trifora con arco ribassato. Al di sopra del pianterreno, leggermente rialzato, si trovano altri due piani, la cui altezza si riduce verso l'alto. Il terzo piano risulta quindi decisamente minore (a mo' di mezzanino).

I pilastri esterni risultano prolungati verso l'alto per coronare l'edificio con un elegante attico che riprende le forme del tetto della chiesa vicina, la Friedrichswerdersche Kirche che, anch'essa un'opera di Schinkel, si trova chiaramente in rapporto di dialogo con il palazzo.

Fonti di ispirazione

Per questo progetto a Schinkel riuscì di fondere le forme classiche a quelle gotiche. Durante i viaggi in Inghilterra, Schinkel aveva inoltre analizzato l'architettura nuda ed essenziale delle prime costruzioni tipiche dell'industrializzazione, restandone positivamente impressionato. Soprattutto i docks nei porti inglesi e le fabbriche (come quelle di prodotti tessili a Manchester) gli avevano dato lo spunto per nuove concezioni architettoniche. La costruzione dell'accademia riprendeva le strutture cubiche di questi edifici industriali nella loro semplicità ed essenzialità, ma le integrava in un concetto eclettico che citava tanto il gotico (assenza di muri portanti, ma solo pilastri, grandi finestre) quanto l'architettura classica (ornamenti, citazione libera del palazzo rinascimentale). Ne risultava un edificio sobrio e decorativo, che già da fuori mostrava chiaramente la sua struttura interna.

Inevitabilmente il palazzo suscitò delle critiche, dovute da un lato alla sua essenzialità, dall'altro semplicemente al colore rossiccio dei mattoni: insieme alla Friedrichwerdersche Kirche, l'Accademia dell'architettura significò, dopo una pausa di secoli, un ritorno alla nuda pietra di laterizio per l'impiego nell'architettura più rappresentativa. Fino ai tempi moderni, fu peraltro sempre un problema reperire tali materiali nella quantità e nel colore necessari tanto alla costruzione dei due edifici quanto al rinnovamento della chiesa in tempi recenti.

La sorte del palazzo


L'accademia sorgeva in una zona strategica di primaria importanza per il centro di Berlino (oggi zona di Berlin-Mitte), vicinissima com'era a costruzioni di massimo prestigio come il Castello di Berlino.

Semidistrutto nella seconda guerra mondiale, il palazzo era destinato a far parlare di sé, anche in virtù della sua particolare posizione nel cuore di Berlino. L'accademia fu trascurata negli anni cinquanta e finì per essere abbattuta, nel 1962, dalle autorità della DDR, che costruirono al suo posto un edificio destinato a diventare la sede del Ministero degli affari esteri, un palazzo dall'architettura tipicamente socialista, mentre parte del materiale del palazzo abbattuto venne depositata poco lontano per il caso di un'eventuale ricostruzione. La decisione dell'abbattimento fu aspramente criticata: l'accademia era infatti un edificio molto amato e aveva decisamente segnato una tappa nella storia dell'architettura mitteleuropea. A detta degli oppositori, la DDR aveva voluto combattere la mentalità prussiano-borghese che le autorità volevano leggere nei concetti artistici di Schinkel, un architetto che sarebbe stato rivalutato dai socialisti solo negli anni ottanta, epoca in cui la chiesa adiacente di Schinkel veniva invece restaurata. Tali avvenimenti posero le basi per un'interpretazione anche politica del problema, che riguardava tanto della sorte del palazzo quanto dell'utlizzo della sua area.

Dopo la riunificazione della Germania, l'edificio ministeriale della DDR venne a sua volta raso al suolo: anche questa misura suscitò alcune perplessità, dato che la costruzione non si trovava affatto in cattivo stato; inoltre non si sapeva (né si sa oggi) se l'Accademia sarebbe mai stata ricostruita.

Dal 2004, in attesa di trovare una soluzione definitiva per l'area non edificata, un'impalcatura ricoperta da un gigantesco telo riproduce tutt'e quattro le facciate dell'accademia, dando un'idea di quel che era il suo ruolo urbanistico per il centro di Berlino.


Stazione di Berlin Anhalter Bahnhof





Inaugurazione e primi anni

La stazione fu l'originario capolinea di una tratta aperta il 15 aprile 1839, e fu inaugurata il 1º luglio 1841, collegandosi con la cittadina brandeburgica di Jüterbog. La stazione, progettata dall'architetto Karl Friedrich Schinkel, affiancava il vicino Potsdamer Bahnhof (aperta nel 1838), e nei primi decenni aveva collegamenti verso Lipsia, Francoforte e Monaco.

La "Porta del Sud"

Nel 1866 l'edificio fu ampliato, passando da 14 a 18 ingressi, e nel 1872 Franz Heinrich Schwechten ne ridisegnò la struttura, inaugurando nel 1876 quella che all'epoca venne considerato il più grande terminal ferroviario d'Europa. La stazione fu dotata di una grande struttura e di un estesissimo parco binari, culminante nello scalo merci, l' Anhalter Güterbahnhof. Un anno prima un'altra stazione terminale, il Dresdner Bahnhof, era stata inaugurata. Visto l'ampliamento dell'Anhalter Bahnhof, le dimensioni ridotte di questo nuovo scalo, posto fra questi ed il Potsdamer Bahnhof, ebbe breve vita come stazione passeggeri, chiudendo nel 1882, dopo soli 7 anni. Nello stesso anno l'Anhalter Bahnhof, che già aveva incrementato corse dirette verso Dresda e Praga, diventava la "Porta del Sud", inaugurando corse dirette verso Vienna, ma soprattutto verso Roma, Napoli ed Atene.
Nel 1930 il traffico ferroviario era notevolmente aumentato, con corse di media ogni 3-5 minuti ed una media giornaliera di passeggeri pari a 44.000. La S-Bahn arrivò nel 1939, nel tracciato dell'asse nord-sud, con grossomodo le stesse linee odierne.

Dalla seconda guerra mondiale al muro

La seconda guerra mondiale segnò le sorti della stazione, all'epoca al massimo della funzionalità, verso la definitiva chiusura. Nei grandi piani di Adolf Hitler di ridisegnare Berlino, rinominandola nella Capitale del Mondo Germania , dovevano venir costruite 2 enormi stazioni centrali, sulla Ringbahn: il Nordbahnhof a Wedding e il Südbahnhof a Tempelhof ; mentre l'Anhalter Bahnhof, conservando la tettoia, sarebbe stata trasformata in una grande piscina coperta.
Tali progetti non furono mai avviati, ma l'Anhalter Bahnhof subì i primi massicci bombardamenti nella notte del 23 novembre 1943, causando vasti danni infrastrutturali e riducendo il volume dei trasporti alle sole corse locali. Altri pesanti bombardamenti, avvenuti il 3 ed il 26 febbraio 1945, causarono la chiusura totale del traffico ferroviario ed ulteriori gravi danni alla stazione stessa.
Nella battaglia finale di Berlino (aprile-maggio 1945), il tunnel della S-Bahn, inaugurato solo 6 anni prima, fu fatto esplodere nei pressi del Landwehrkanal, e venne allagato. Solo dopo la fine delle ostilità, il 2 giugno 1946, riaprì un tratto frammentario del percorso ed il 16 novembre 1947 la stazione riprese l'intero servizio S-Bahn, con il completamento delle riparazioni avvenuto nel 1948.
Dopo questo breve periodo di esercizio, in cui funzionavano alcune corse regionali verso il Brandeburgo e la Sassonia-Anhalt, la stazione ferroviaria chiuse definitivamente il 17 maggio 1952. La causa della chiusura fu dovuta alla decisione dell'amministrazione ferroviaria, la Deutsche Reichsbahn (appartenente alla Repubblica Democratica Tedesca) di deviare il traffico ferroviario sulle stazioni site nel settore orientale della città (Ostbahnhof e Lichtenberg).
Rimase in esercizio la sola S-Bahn. Il traffico di questa fu anch'esso interrotto nel 1953, tra il 9 giugno ed il 17 luglio, durante i Moti operai, per poi riprendere. Il 29 agosto 1960 iniziò la demolizione del fabbricato viaggiatori, di cui venne mantenuto solo un frammento del portico. L'area dei binari, di proprietà della Deutsche Reichsbahn, rimase in stato di abbandono (è immortalata nel 1987 nel film Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders) fino alla Riunificazione.

La stazione oggi


Ciò che rimaneva dell'edificio dell'Anhalter Bahnhof, la porzione centrale , venne definitivamente restaurato nel periodo 2003-2004, assurgendo a monumento, ed alcune copie delle statue "Tag und Nacht" (Il giorno e la notte, opera di Ludwig Brunow) riposizionate. Gli originali si trovano nel Deutsches Technikmuseum, grande struttura che occupa buona parte dell'esteso parco binari, ora in disuso. Altra struttura presente in loco è il moderno Tempodrom, la maggiore struttura concertistica cittadina.
Il grosso dell'area della stazione è divenuto un'area verde, e solo a sud del Landwehrkanal si trova la gran parte dell'esteso parco binari. A sud del "Deutsches Technikmuseum" sopravvive il fabbricato dello scalo merci, l'Anhalter Güterbahnhof, ed una torre dell'acqua. In uno dei binari si trova una carrozza passeggeri d'epoca con una veletta di un fantasioso "Pomp Duck Express" che espleterebbe un curioso ed impossibile percorso euroamericano . A sud del Güterbahnhof le rotaie si perdono inglobate nella boscaglia di un panoramico parco collinare, per poi sbucare in 3 ponti a Yorckstraße (vicino alla fermata omonima di S- ed U-Bahn), ricongiungendosi alla ferrovia nazionale nel nuovo tunnel nord-sud, che porta all'Hauptbahnhof.


Struttura

La grande struttura della vecchia stazione, che si affacciava sull'Askanischer Platz che ospitava l'attigua fermata del tram, comprendeva una facciata con 18 ingressi, ed un grande portone centrale. Su di esso erano poste varie statue e bassorilievi marmorei. Dopo gli ampliamenti la struttura fu sormontata da una grande arcata, con due torrette laterali ed una statua sulla sommità. I binari al servizio passeggeri erano 6, molto trafficati, e successivamente aumentavano nell'area merci.
L'attigua struttura dell'Anhalter Bahnhof (sulla S-Bahn) è una semplice fermata sotterranea con 2 binari di servizio passeggeri ed un ampio marciapiedi centrale, con 2 scale d'ingresso laterali ed una serie di colonne squadrate al centro della piattaforma.

Trasporti urbani

La stazione è servita dalle linee S1 (Wannsee-Oranienburg), S2 (Blankenfelde-Bernau) ed S25 (Teltow Stadt-Hennigsdorf) della S-Bahn. Non è servita dalla U-Bahn ma, non lontano dal parco binari e dal museo della tecnica, sul Landwehrkanal, si trova la fermata di Möckernbrücke (linee U1, U7), e sempre nei pressi, ma al lato opposto, la fermata di Gleisdreieck (linee U1, U2). La stazione non è servita dalla rete tranviaria, ed attualmente non vi sono progetti di ampliamento di rete previsti per la zona. Essa è invece servita da varie linee di autobus, tra cui le linee M29 ed M41.



Castello di Berlino




Il castello di Berlino (Berliner Schloss, o Berliner Stadtschloss) era un edificio di Berlino, abbattuto nel 1950. Sorgeva al centro dell'attuale Schloßplatz. Fu residenza dei principi elettori di Brandeburgo, dei re di Prussia e degli imperatori di Germania.

Storia

La costruzione del Castello iniziò nel 1443. Nei secoli l'edificio fu continuamente ampliato ed abbellito, con il contributo dei maggiori architetti ed artisti dell'epoca. Parzialmente distrutto dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, fu abbattuto nel 1950 su ordine della nuova Repubblica Democratica, perché considerato "simbolo del militarismo prussiano ". Il quarto portale, da cui il 9 novembre 1918 Karl Liebknecht aveva proclamato la fondazione della "Repubblica socialista", fu conservato e inserito nella facciata dello Staatsratsgebäude (edificio del consiglio di Stato della RDT).

L'ampia area ricavata dalla demolizione del Castello fu battezzata Marx-Engels-Platz ed utilizzata come spazio per le dimostrazioni di massa, fino alla costruzione, sul lato est, del Palast der Republik (1976), oggi a sua volta demolito.

Ricostruzione

Nel 2003 si è decisa la ricostruzione del Castello come Humboldt-Forum. L'edificio ospiterà strutture museali come il Museo Etnologico, il Museo di Arte Asiatica, la Biblioteca Centrale e Regionale di Berlino e la Humboldt Universität. Per mancanza di risorse, tuttavia, non vi sono tempi certi, ma nel novembre 2008 s'è scelto il progetto di Franco Stella per la ricostruzione del Castello. Ne è prevista l'inaugurazione per il 2019.



Großes Schauspielhaus





« All'interno della vasta cupola è appesa una varietà infinita di pennacchi e stalattiti, ai quali la cavità della cupola, su cui sono inseriti, conferisce un movimento leggermente sinuoso cosicché ne deriva un'impressione di dissoluzione e di indeterminazione dello spazio. »
(Wassili Luckhardt)

Il Grosse Schauspielhaus (in italiano gran teatro o teatro massimo) era un teatro di Berlino in Germania, progettato da Hans Poelzig e considerato uno dei massimi esempi di architettura espressionista.

Storia

Il teatro era stato commissionato dal produttore teatrale Max Reinhardt e fu realizzato fra il 1918 ed il 1919. Nel dopoguerra il teatro servì per la rappresentazione di spettacoli di varietà, più tardi come edificio militare fino al 1988, quando finì per essere demolito dalle autorità della Repubblica Democratica Tedesca a causa del pericolo di crollo: l'evento fu documentato dal fotografo giapponese Ryuji Miyamoto.

L'architettura

All'interno la scena si affacciava sulla platea, digradando su un'orchestra semicircolare, che per la spazialità ricordava il teatro greco classico. Lungo il perimetro dell'orchestra si dipartivano le gradinate della grande cavea, che era inframezzata da colonne che reggevano degli archi dai bordi composti da stalattiti. Nella parte superiore vi era una cupola a tronco di cono a fasce digradanti verso l’alto, con i bordi costituiti da numerose stalattiti. Il teatro conteneva 5.000 posti a sede
 
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morgana1869
view post Posted on 26/4/2013, 08:16     +1   -1




Großgaststätte Ahornblatt



La Großgaststätte Ahornblatt (in italiano Ristorante Foglia d'acero) era un edificio ubicato nel Distretto di Mitte, a Berlino.

Realizzata tra il 1970 ed il 1973[1] come parte del nuovo complesso realizzato nel quartiere di Fischerinsel - la porzione meridionale dell'isola sulla Sprea - era destinata ad ospitare un grande ristorante self-service da ottocento posti a sedere ed una galleria commerciale, destinata principalmente agli impiegati del Ministero per le Costruzioni della Repubblica Democratica Tedesca e per i lavoratori occupati negli uffici circostanti


Contesto e realizzazione

La Ahornblatt - realizzata all'angolo con la Gertraudenstraße - fu sin dall'inizio progettata come luogo di incontro sociale, da realizzare in stretto rapporto con i vicini condomini residenziali. La sua particolare forma venne concepita dagli architetti tedesco-orientali Gerhard Lehmann e Rüdiger Plaeth, ispirati dagli studi urbanistici di Helmut Stingl.

L'edificio deve la propria denominazione proprio alla particolare forma a foglia d'acero, ulteriormente evidenziata dalla curvatura del tetto. La costruzione del guscio in calcestruzzo armato di copertura fu curata dall'ingegnere Ulrich Müther (1937-2007), all'epoca uno dei massimi esperti mondiali nel campo utilizzando lo speciale calcestruzzo prodotto nella città di Binz.[4] Le pareti esterne vennero invece realizzate in vetro, con geometrie scandite da lamelle orizzontali.

In seguito all'inaugurazione del Palast der Republik, iniziò ad essere utilizzato anche come luogo di ritrovo dopo il lavoro anche per gli impiegati della nuova struttura: venne utilizzato soprattutto come bar e discoteca.

Dopo la riunificazione della Germania

In seguito alla Riunificazione tedesca la Ahornblatt venne utilizzata per alcuni anni come discoteca - sotto la denominazione Exit - ma cadde successivamente in uno stato di abbandono. Nel 1997 l' Oberfinanzdirektion locale decise di vendere l'immobile alla Objekt Marketing GmbH, la quale in breve decise di optare per l'abbattimento dell'opera.

La demolizione dell'edificio fu percepita come parte di un progetto di demolizione dell'Architettura della Repubblica Democratica Tedesca, spinto a volte oltre ai limiti della reale necessità; anche un altro edificio di Ulrich Müther, l'Hyparschale di Magdeburgo, è dal 2011 minacciato di demolizione Nonostante le numerose proteste, la demolizione della Foglia d'acero avvenne a partire dal 19 giugno del 2000: i proprietari ottennero infatti dalla Denkmalschutzbehörde (la Soprintendenza ai beni monumentali) il permesso per l'abbattimento del complesso, sebbene non con consenso unanime. Il 21 gennaio dello stesso anno era stato concesso a Müther di condurre l'ultimo tour guidato all'interno dell'edificio da lui stesso progettato.

Al posto di uno degli edifici simbolo della Berlino Est degli anni Settanta e Ottanta del XX secolo il gruppo Accor ha costruito un albergo.


Edited by morgana1869 - 26/4/2013, 09:32
 
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morgana1869
view post Posted on 26/4/2013, 08:39     +1   -1




Berlin Görlitzer Bahnhof





Il Görlitzer Bahnhof ("stazione di Görlitz") era una stazione ferroviaria terminale di Berlino.

Si trovava nel quartiere di Kreuzberg; è dismessa e demolita da decenni, ma una stazione della linea U1 della metropolitana ne conserva il nome.

Storia

La stazione fu aperta al traffico il 13 giugno 1866, come capolinea della prima tratta (fino a Cottbus) della ferrovia per Görlitz (Görlitzer Bahn).

Il monumentale fabbricato viaggiatori fu progettato dall'arch. August Orth.

La stazione non divenne mai una delle maggiori della città. Era penalizzata dalla mancanza di un interscambio con la rete della S-Bahn, la trafficata ferrovia urbana.[1] La stazione era servita dalla U-Bahn, ma con un interscambio scomodo e poco utile.

Nel 1949, con la divisione della città in quattro settori, il Görlitzer Bahnhof venne a trovarsi nel settore americano. Pertanto la Deutsche Reichsbahn, la compagnia ferroviaria statale d'anteguerra ora gesita dalle autorità orientali, decise di deviare il traffico a lunga percorrenza sulle stazioni Ostbahnhof e Lichtenberg, site nel settore sovietico.

Rimase al Görlitzer Bahnhof il servizio suburbano (a vapore) per Königs Wusterhausen. Il 29 aprile 1951 quella tratta fu elettrificata ed inserita nella rete S-Bahn, e pertanto il Görlitzer Bahnhof rimase attivo solo per lo scarso servizio merci, soppresso definitivamente nel 1985.

La vasta area della stazione passeggeri rimase abbandonata in attesa di un utilizzo. I piani prevedevano la costruzione di un'autostrada urbana diretta verso sud-ovest (la cosiddetta Südtangente), per far posto alla quale si abbatté il pregevole fabbricato viaggiatori, ma la presenza del Muro di Berlino poco distante ne rendeva impossibile la realizzazione.

I progetti mutarono solo negli anni ottanta, con la grande esposizione di architettura "IBA 84". Sull'area della stazione furono realizzati la piscina coperta Spreewaldbad e il vasto Görlitzer Park.

La stazione della U-Bahn


La fermata Görlitzer Bahnhof della U-Bahn fu aperta nel 1902 con la prima tratta della rete (oggi U1), con il nome Oranienstraße.

Nel 1926 cambiò il nome in Görlitzer Bahnhof (Oranienstraße) pur trovandosi ad alcune centinaia di metri dalla stazione ferroviaria.

La fermata mantenne il suo nome (dal 1982 semplicemente Görlitzer Bahnhof) anche dopo la chiusura della stazione ferroviaria. È da tempo in discussione la ridenominazione in Görlitzer Park.

 
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morgana1869
view post Posted on 26/4/2013, 09:11     +1   -1




Lehrter Bahnhof




La Lehrter Bahnhof ("stazione di Lehrte") era una stazione ferroviaria di Berlino. Si trovava nel quartiere di Moabit, nell'area dell'attuale Hauptbahnhof.



Lehrter Bahnhof (1868–1951)


La Lehrter Bahnhof venne inaugurata nel 1871. Essa costituiva il capolinea della tratta ferroviaria che congiungeva Berlino a Lehrte, nei pressi di Hannover. Era situata in posizione centrale fra il porto fluviale detto Humboldthafen e il fiume Sprea a breve distanza dal Reichstag.

Tra il 1868 e il 1871 la Magdeburg-Halberstädter Eisenbahn-Actiengesellschaft realizzò la linea ferroviaria da Lehrte, nei pressi di Hannover, a Berlino, per una lunghezza di 239 km. All'estremità della linea fu costruita, su progetto degli architetti Alfred Lent, Bertold Scholz e Gottlieb Henri Lapierre, una nuova stazione di testa, di fianco alla Hamburger Bahnhof sul Friedrich-Carl-Ufer lungo la Sprea direttamente sul porto fluviale chiamato Humboldthafen. Diversamente dalle altre stazioni suburbane che avevano facciate in laterizio, la stazione avrebbe dovuto avere carattere di rappresentanza, in uno stile ispirato al Neorinascimento francese. Per ragioni di economia si rinunciò tuttavia al progetto iniziale che prevedeva murature in blocchi di pietra naturale, ripiegando su blocchi di laterizio intonacati. Per l'imponenza della sua architettura la stazione veniva paragonata ad un castello.

La tettoia del piano binari, lunga 188 m e larga 8 m, era a campata unica con copertura a botte su capriate ad arco; su entrambi i lati (ovest ed est) la tettoia era fiancheggiata da ali secondarie. Come usava a quei tempi, la stazione era suddivisa dal punto di vista funzionale in un'area arrivi ad ovest ed in una zona partenze ad est. In origine i binari erano cinque, quattro dei quali facevano capo ai marciapiedi laterali e a quello centrale, mentre il quinto, privo di marciapiede, era utilizzato per la manovra delle locomotive. Alla fine dell'ottocento venne eliminato un binario per permettere l'allargamento del marciapiede centrale.

La facciata dell'edificio, riccamente decorata, non aveva significato pratico in quanto sul lato orientale (lato partenze) era situata la corsia per le carrozze e l'ingresso pedonale.

Con l'apertura, nel 1882, della Stadtbahn ("ferrovia urbana"), destinata a congiungere le varie stazioni urbani e a servire la periferia, direttamente a nord della Lehrter Bahnhof fu aperta una stazione distinta, utilizzata per il traffico locale. Per meglio distinguere le due stazioni, quella dei treni a lunga distanza venne spesso indicata col termine Lehrter Hauptbahnhof, mentre quella nuova, destinata alla Stadtbahn, veniva chiamata Lehrter Stadtbahnhof .

La Lehrter Bahnhof (o Lehrter Hauptbahnhof) gestì dal 15 ottobre 1884 i treni per Amburgo, la Germania del nord e la Scandinavia.

Nel 1886 la ferrovia Berlino-Lehrte, e con essa la Lehrter Bahnhof, venne nazionalizzata passando sotto la gestione delle ferrovie prussiane.

Fin dai primi anni la Lehrter Bahnhof divenne nota per i treni veloci che vi facevano capo; già nel 1872 i treni espresso viaggiavano alla velocità di 90 km/h. Il 19 dicembre 1932 il celebre convoglio diesel denominato "Fliegender Hamburger"(Amburghese Volante) effettuò il suo primo viaggio dalla Lehrter Bahnhof ad Amburgo raggiungendo la velocità di 160 km/h.

Durante la Seconda guerra mondiale la stazione venne gravemente danneggiata. Dopo la guerra le rovine annerite dagli incendi furono riattate, in mancanza di alternative, in modo da garantire il traffico minimo indispensabile. Ma l'ultimo treno per Wustermark e Nauen lasciò la stazione il 28 agosto 1951. Il 9 luglio 1957 cominciarono i lavori di demolizione; il 22 aprile 1958 il portale principale venne demolito ed utilizzato per la produzione di laterizio frantumato da destinare alla ricostruzione. La demolizione fu resa difficile dalla necessità di non danneggiare la Lehrter Stadtbahnhof ed il viadotto della Stadtbahn, adiacenti alla tettoia della stazione.

Solo dopo la riunificazione, il progetto di una nuova stazione di transito sul sito di quella vecchia assunse il nome di Lehrter Bahnhof . Nel 1995 iniziarono i lavori, ultimati come previsto nel maggio 2006. Il nome ufficiale della nuova stazione doveva essere Berlin Hauptbahnhof – Lehrter Bahnhof (Berlino centrale - Lehrter Bahnhof) ma è stato poi modificato in Berlin Hauptbahnhof.

Lehrter Stadtbahnhof (1882–2002)


Il 15 maggio 1882 fu aperta la Stadtbahn ("ferrovia urbana"), destinata con i suoi quattro binari che attraversavano la città in direzione est-ovest a collegare i quartieri periferici e gli scali merci. La ferrovia urbana serviva di collegamento fra Charlottenburg, la Lehrter Bahnhof, la Schlesischer Bahnhof e il centro cittadino. Direttamente all'estremità nord della tettoia della Lehrter Bahnhof e perpendicolarmente ai suoi binari sorse, disposta su viadotto, la Lehrter Stadtbahnhof, che costituiva la fermata della Stadtbahn. Poiché il traffico diretto alla Lehrter Bahnhof continuava ad aumentare, e la Lehrter Stadtbahnhof era stata costruita su viadotto a quasi diretto contatto con l'ingresso alla tettoia di questa, si dovette intervenire nel 1912 e nel 1929 modificando la disposizione dei binari in corrispondenza del passaggio sotto la Stadtbahnhof stessa.

Il 1º dicembre 1930 i treni locali, convertiti a trazione elettrica, assunsero la denominazione ufficiale di S-Bahn. Anche dopo la guerra (e chiusura della Lehrter Bahnhof) la Stadtbahnhof rimase in servizio, sempre come semplice fermata S-Bahn; la sua importanza tuttavia divenne pressoché nulla, essendo venuta a mancare la funzione d'interscambio con la Lehrter Bahnhof.

La stazione era divenuta l'ultima fermata della S-Bahn nella parte ovest di Berlino; la fermata successiva di Friedrichstraße si trovava già nel settore sovietico.

Dopo la costruzione del Muro di Berlino nel 1961 si venne a trovare nelle immediate vicinanze del Muro perdendo di conseguenza il carattere di punto nevralgico dei trasporti urbani.

Soltanto in occasione dei 750 anni dalla fondazione di Berlino (1987) la stazione venne in parte ripristinata ed avendo conservato in larga parte le sue caratteristiche originarie fu posta sotto tutela monumentale (Denkmalschutz) dopo un complesso restauro costato circa 10 milioni di marchi.

Nell'estate 2002, nonostante il vincolo artistico, la Lehrter Stadtbahnhof venne demolita. I treni della S-Bahn sostano adesso nella nuova Berlin Hauptbahnhof


Stazione di Berlin-Nordbahnhof






La stazione di Berlin-Nordbahnhof ("stazione nord"), fino al 1950 Stettiner Bahnhof ("stazione di Stettino"), era una stazione ferroviaria terminale di Berlino.



I primi anni

La stazione fu inaugurata il 1º agosto 1842, con il nome di Stettiner Bahnhof, come capolinea della ferrovia per Stettino (Stettiner Bahn).


Nel 1897 fu istituito, in partenza da questa stazione, il servizio suburbano (Vorortbahn) per Pankow, antesignano dell'attuale S-Bahn. I treni suburbani partivano da un marciapiede apposito, sul lato ovest, ed erano serviti da un apposito fabbricato, di ridotte dimensioni, detto Stettiner Vorortbahnhof.

Alla fine del XIX secolo, con la chiusura dell'allora Nordbahnhof, lo Stettiner Bahnhof divenne capolinea anche delle linee per Rostock e Stralsund (Nordbahn); si rese così necessario un ampliamento, realizzato nel 1903 con l'aggiunta di 3 nuove arcate sul lato orientale.

Nel 1936 fu inaugurato il Nord-Süd-Tunnel, un passante ferroviario sotterraneo dedicato alla S-Bahn. In tale occasione fu realizzata la stazione sotterranea Stettiner Bahnhof, e il vecchio capolinea suburbano "Vorortbahnhof" fu chiuso.

Dopo la seconda guerra mondiale

Nel 1949, con la divisione della città in quattro settori, lo Stettiner Bahnhof si trovò nel settore sovietico. La stazione era accessibile solo attraversando l'allora distretto del Wedding, assegnato al settore francese. L'intera rete ferroviaria berlinese continuava però ad essere gestita unitariamente dalla Deutsche Reichsbahn, la compagnia ferroviaria statale d'anteguerra passata alla RDT.

Nel 1950, in seguito al riconoscimento da parte tedesco-orientale della linea Oder-Neiße, che prevedeva il passaggio della città di Stettino alla Polonia, la stazione assunse il nome di Nordbahnhof.

La stazione fu chiusa al traffico ferroviario il 18 maggio 1952, in seguito alla decisione delle autorità orientali di evitare il transito attraverso Berlino Ovest. I treni furono deviati sulla circonvallazione ferroviaria esterna (l'Außenring), con capolinea alle stazioni Ostbahnhof e Lichtenberg. Rimase in servizio la stazione della S-Bahn, ancora gestita come rete unitaria.

Il 13 agosto 1961, con l'improvvisa erezione del Muro di Berlino, fu chiusa anche la stazione della S-Bahn che divenne una delle cosiddette "stazioni fantasma" (Geisterbahnhof); i treni della S-Bahn nord-sud, aventi i capilinea nei settori occidentali, attraversavano il centro cittadino (appartenente al settore orientale) senza fermate.

Il grande fabbricato viaggiatori, ormai abbandonato, fu abbtattuto nel 1962 per far posto ad un cementificio; parte dell'area dei binari, limitrofa al percorso del Muro, divenne "terra di nessuno", accessibile solo dalle pattuglie militari di confine.

La stazione oggi

La stazione della S-Bahn fu riaperta nel 1990, pochi giorni prima della riunificazione.

Il cementificio costruito sull'area del fabbricato viaggiatori è stato abbattuto; al suo posto è stata realizzata una piazza, nella cui pavimentazione sono inserite, a mo' di monumento, lapidi che ricordano i nomi delle città del Baltico, già tedesche ed ora polacche.

La vasta area già occupata dai binari è stata in parte costruita con edifici per uffici (Stettiner Carré), in parte adibita ad area verde, e in parte è ancora abbandonata.

La stazione della U-Bahn


Nel 1923 fu aperta la linea C (oggi U6) della U-Bahn; il capolinea settentrionale era la stazione Stettiner Bahnhof, che però si trovava circa 300 m ad ovest della stazione ferroviaria, in corrispondenza dell'incrocio fra Chausseestraße e Invalidenstraße. Nonostante la posizione, costituiva tuttavia l'interscambio più rapido per raggiungere il centro cittadino.

La stazione mantenne il suo nome anche dopo il 1936, quando l'apertura del Nord-Süd-Tunnel della S-Bahn le fece perdere importanza.

Fu anch'essa ribattezzata Nordbahnhof nel 1950; il 13 agosto 1961 divenne una "stazione fantasma", analogamente alla S-Bahn.

Fu riaperta nel 1990 e ribattezzata nel 1991 con il nome di Zinnowitzer Straße. Dal 2009 porta il nome di Naturkundemuseum.


Palast der Republik







Il Palast der Republik (ted.: "Palazzo della Repubblica") era un grande edificio polifunzionale di Berlino, posto sull'attuale Schloßplatz, nel quartiere di Mitte.

Inaugurato nel 1976, ospitava un grande centro culturale e di divertimenti, e la sede della Volkskammer, il parlamento della Repubblica Democratica Tedesca. Fu probabilmente l'edificio più prestigioso dell'intera repubblica.





Caratteristiche


Il Palast der Republik sorgeva nel luogo più centrale e rappresentativo di Berlino, la Schloßplatz. Fra gli edifici circostanti vi sono il Duomo e l'Altes Museum. Costituiva il fondale prospettico, sul lato est, del viale Unter den Linden.

La facciata principale, larga 180 metri e alta 32, si apriva su Schloßplatz. La facciata posteriore dava sul fiume Sprea e sul retrostante Marx-Engels-Forum.

L'edificio fu costruito con struttura in acciaio su progetto di un gruppo di architetti guidato da Heinz Graffunder. La facciata era caratterizzata dal contrasto fra i muri in marmo bianco e le vetrate color bronzo. Il foyer ospitava una galleria di sedici dipinti, commissionati dal Ministero della Cultura della RDT, e un gran numero di lampade.

Le estremità nord e sud della costruzione erano occupate dalle due grandi sale: la piccola (Kleiner Saal) era sede della Volkskammer, la grande (Großer Saal) era utilizzata per grandi eventi musicali, culturali o politici.

Nel Palast si trovavano poi molte strutture per il divertimento: tredici fra ristoranti e bar (i maggiori furono battezzati Linden, Palast e Spree), che offrivano una qualità e una varietà uniche in tutta la Germania Est, un teatro (Theater im Palast), una grande pista da bowling, una discoteca.



L'edificio centrale

Già dal 1949, con la fondazione della RDT, si era discusso sulle sorti della Schloßplatz e del Castello di Berlino, in quanto luoghi più rappresentativi della capitale e simboli del militarismo prussiano.

La decisione fu presa rapidamente, con l'abbattimento del castello (danneggiato dalla guerra) già nell'agosto 1950, e la previsione di costruire, sull'area oggi occupata dal Marx-Engels-Forum, un grattacielo su modello di quelli moscoviti, che ospitasse gli uffici amministrativi statali. La costruzione fu tuttavia continuamente rimandata per motivi economici e problemi architettonici (dalla fine degli anni cinquanta l'architettura dei paesi del blocco sovietico si orientò su modelli modernisti), e l'area dell'ex castello venne utilizzata come spazio per le dimostrazioni di massa o, in alternativa, come parcheggio.

Nel 1964 la decisione di costruire la già prevista torre della televisione nel pieno centro cittadino, come "edificio dominante" al posto del previsto grattacielo, cambiò i termini della questione: si pensò quindi di realizzare un palazzo dei congressi, ancora sull'area dell'attuale Marx-Engels-Forum. Ma anche questo progetto non fu realizzato.

Nel 1971 il nuovo segretario del Partito di Unità Socialista, Erich Honecker, decise di completare la ricostruzione del centro di Berlino con la realizzazione di edifici prestigiosi: il progetto del Palast der Republik fu quindi approvato nel 1973, con apertura al pubblico nel 1976.

Dal 1976 al 1990 il Palast costituì il centro culturale e di divertimento più importante di Berlino Est e dell'intera Repubblica.

Dopo il 1990


Dopo la caduta del muro il Palast der Republik perse rapidamente la sua importanza di centro culturale e di divertimento, non riuscendo a reggere la concorrenza di Berlino Ovest, ora liberamente raggiungibile. Il Palast continuò tuttavia ad ospitare le sedute della Volkskammer.

Le elezioni nella RDT si tennero il 18 marzo 1990. Il nuovo parlamento votò per la chiusura al pubblico del Palast per il 19 settembre 1990, per l'alto contenuto di amianto presente nella costruzione, non più compatibile con le nuove norme sanitarie.

Dopo la riunificazione si sviluppò un lungo dibattito sulle sorti del Palast. Molti ne invocavano la demolizione per motivi politici (in quanto edificio-simbolo della Repubblica Democratica) ed architettonici, ritenendosi che la ricostruzione del castello, o di un edificio simile, avrebbe ristabilito le proporzioni originarie del Lustgarten e dell'Unter den Linden. Molti, d'altra parte, ne richiedevano il mantenimento, per l'alto valore storico e architettonico e, in qualche misura, anche artistico e ritenevano la questione dell'amianto solo un pretesto per cancellare un simbolo della DDR. Quest'ultima tesi viene in un certo senso avvalorata nel settembre 2012, quando in un analogo caso di presenza di amianto nell'edificio dell'International Congress Centrum sito a Berlino ovest, si decide di non demolire il manufatto. [1]

Nel 1993 venne così eretto, sulla Schloßplatz, un modello a grandezza naturale che rappresentava due delle facciate del castello. Contemporaneamente venne indetto un concorso di idee per la risistemazione dell'area. La discussione si concentrò però su motivi formali, trascurando la funzione del futuro edificio.

Dal 1998 al 2001 il Palast fu decoibentato dall'amianto. Gli anni di abbandono, però, non ne permisero la riapertura.

Nel 2003 il parlamento federale votò per la demolizione del Palast der Republik, al cui posto si prevedeva la realizzazione di un'area verde provvisoria, e la futura costruzione di un nuovo edificio con le facciate identiche a quelle del castello. L'edificio sarà battezzato Humboldt-Forum ed ospiterà funzioni culturali, fra cui un "Museo delle culture extraeuropee". Nello stesso periodo, il Palast fu completamente svuotato, trasferendo in altri luoghi le opere artistiche.

Nel 2004-2005 la struttura, ormai vuota, fu provvisoriamente riaperta, ospitando mostre d'arte ed eventi culturali. Queste iniziative hanno riacceso il dibattito sulla conservazione del Palast, interrotto tuttavia da un nuovo voto del parlamento federale, che, incurante delle manifestazioni di protesta, il 19 gennaio 2006, decise l'immediato inizio della demolizione.

I lavori, iniziati il 6 febbraio 2006, si sono conclusi alla fine del 2008.


Stazione di Berlin Ostbahnhof (1867)




L'Ostbahnhof (colloquialmente anche Küstriner Bahnhof) era una stazione ferroviaria di Berlino, nel quartiere di Friedrichshain.


Storia

Fu aperta nel 1867 come capolinea dell'Ostbahn per Königsberg (l'attuale Kaliningrad). La tettoia interna, progettata da Adolf Lohse e Hermann Cuno, misurava 188 metri di lunghezza e 38 di larghezza.

La stazione restò in servizio pochi anni: nel 1882, con l'apertura della Stadtbahn, l'Ostbahn venne deviata sullo Schlesischer Bahnhof così da poter percorrere quella linea. L'Ostbahnhof fu quindi soppresso ed utilizzato, nei decenni successivi, come ricovero della Croce Rossa.

Nel 1929 all'interno dell'edificio aprì il varietà "Plaza", rilevato nel 1938 dall'associazione nazista Kraft durch Freude.

L'edificio fu distrutto dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Al suo posto sorge oggi la sede del quotidiano Neues Deutschland.
 
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morgana1869
view post Posted on 29/4/2013, 07:45     +1   -1




Villa di Poggioreale





La Villa di Poggioreale fu una villa ubicata a Poggioreale, fuori le mura di Napoli ed uno degli edifici più importanti del Rinascimento napoletano. Era compresa in un'area tra le attuali via del Campo, via Santa Maria del Pianto e le vie nuova e vecchia Poggioreale.

Storia

Nell'area dove sorgeva la villa, vi era l'acquedotto della Bolla (o Volla) che, con il serbatoio chiamato Dogliuolo, dal latino Doliolum o Dolium (vasca), portava le acque del Sarno in città con condutture sotterranee. La valle della zona del Dogliuolo era una distesa di terre paludose, nonostante vari tentativi di bonifica di sovrani angioini ed aragonesi. Pertanto, nel 1485, il re Ferrante I di Napoli provvedette con dispacci regi alla bonifica della zona: realizzò, infatti, dei canali di scolo come il Fosso reale e il Fosso del Graviolo che debellarono la malaria nella capitale.

Nel medesimo periodo, nella zona limitofa del Guasto, sorsero numerose ville di svago della nobiltà napoletana del Rinascimento. Nell'area di Poggioreale, intorno al 1487, il Duca di Calabria e futuro re Alfonso II, acquistando una masseria al "Dogliolo", decise di realizzare una residenza reale extra moenia, forse ad imitazione di quelle che andava realizzando il suo alleato Lorenzo il Magnifico.

Per la costruzione dell'edificio e dei suoi annessi, Alfonso utilizzò la sua autorità per espropriare terreni, spesso senza indennizzo,. giungendo a togliere l'acqua ad alcuni mulini che appartenevano a Gian Battista Brancaccio, poiché passava per il suolo destinato all'edificazione. Il progetto della residenza venne affidato all'architetto fiorentino Giuliano da Maiano che giunto in città nel 1487 con il modello della villa, elaborato a Firenze, iniziò i lavori e continuò a dirigere il cantiere fino alla sua morte, avvenuta nel 1490, quando l'edificio era sostanzialmente completato ed in parte utilizzato. L'opera, fu poi continuata, forse da Francesco di Giorgio e allievi del Da Maiano, diventando il luogo privileggiato per i ricevimenti della corte. Il disegno della villa ebbe notevole successo, tanto che la struttura venne citata anche nel Libro III del trattato di architettura cinquecentesco di Sebastiano Serlio.

Nel 1494, a causa dell'invasione francese condotta da Carlo VIII, il re Alfonso fuggì in Sicilia e dalla villa partenopea raccolse le suppellettili più preziose; di lì a poco l'immobile cadde in abbandono e, in seguito, per far fronte a problemi economici, il re Ferdinando II di Napoli cedette parti della villa (compresi i giardini che vennero poi adibiti a coltivazione).

La struttura, che ormai era decaduta, si ritrovò al centro della battaglia di Odet de Foix per la conquista della città di Napoli. A causa della distruzione dell'acquedotto si scatenò una epidemia di malaria che distrusse l'esercito francese; fu così che i Francesi dovettero ritirarsi e, contemporaneamente, l'area di Poggioreale divenne nuovamente malsana e si dovette aspettare qualche anno per la bonifica dei terreni circostanti.

La villa venne utilizzata anche per gli incontri importanti, come quello di Carlo V del 1535, mentre, a causa dei ripetuti terremoti, nel 1582 fu necessario un consolidamento delle sue strutture.

Nel 1604 cominciò la rinascita del complesso. Il viceré Juan Alonso Pimentel de Herrera, infatti, decise di abbellire il percorso della villa reale, con filiari di alberi e fontane. Tuttavia, con la peste del 1656 il complesso cade nuovamente in rovina.

La collinetta di Poggioreale divenne, da quel momento, luogo di sepoltura per gli appestati e la villa voluta dal re Alfonso II cadde in abbandono e venne ceduta, come attestano i documenti del XVIII secolo, ai Miroballo; uno degli esponenti della famiglia, nel 1789, parla esplicitamente della caduticità del palazzo e del dei suoi giardini ridotti a colture.

Nel 1762, a breve distanza dal sito reale venne costruito il Cimitero delle 366 Fosse ad opera di Ferdinando Fuga, mentre, al principio del XIX secolo venne progettato da Francesco Maresca, Stefano Gasse, Luigi Malesci e Ciro Cuciniello il Cimitero di Poggioreale, che venne eretto sulle precedenti rovine della villa, determinandone la completa cancellazione, tanto che la stessa localizzazione del sedime dell'edificio risulta difficile.

Architettura e arte

La villa fu il punto di arrivo della progressiva conversione alle forme rinascimentale della capitale aragonese, avvenuta sul finire del XV secolo.

Si può ancora farsi un'idea dell'aspetto della villa grazie alla riproduzione nel trattato di Sebastiano Serlio e grazie alla sua fortuna critica che la rese esemplare anche per l'architettura del XVI secolo.

L'edificio principale era caratterizzato da un impianto molto originale, con richiami all'antico adattati alle esigenze contemporanee. La tipologia di base era infatti la villa antica con peristilium, contaminata con esigenze difensive da un castello medievale e con quelle di residenza, svago e rappresentanza legate alle necessità di una corte di fine secolo.

Ne nacque un edificio di dimensioni relativamente contenute, caratterizzato da un corpo principale a base quadrangolare, con quattro ali sporgenti agli angoli, simili a torri angolari, ma di altezza uguale al resto del fabbricato. L'edificio era porticato sia sul lato interno, intorno ad un cortile quadrato, pavimentato con mattonelle di ceramica invetriata, infossato per cinque gradini, che richiamava modelli antichi, quali i teatri e le vasche termali. Il cortile, secondo un modello di Vitruvio, poteva essere coperto con un solaio ligneo per essere sfruttato per feste e rappresentazioni, oppure essere allagato come effetto scenico.

Il disegno che ne fa Serlio, che non vide mai l'edificio, non corrisponde perfettamente al costruito, soprattutto perché rappresenta quattro portici al centro dei prospetti esterni che non furono mai realizzati. Inoltre Serlio non prende in considerazione la copertura lignea che sembra trasformasse il cortile interno in un grande sala centrale. Infine l'edificio non costituiva un quadrato perfetto, ma un rettangolo come risulta dalla pur scarsa documentazione iconografica successiva.

L'edificio principale affacciava su un giardino quadrato antistante e su un grande cortile laterale con edifici di servizio. Il complesso continuava con una loggia su due piani, una peschiera ed aree a giardino, sempre lateralmente rispetto all'edificio principale.

Nell'interno vi erano affreschi realizzati dai più importanti artisti; tra quiesti spiccavano quelli di Pietro e Ippolito del Donzello che rappresentavano episodi della guerra di Alfonso contro i Baroni di pochi anni prima.

Di notevole bellezza erano i giardini all'italiana ornati da esuberanti fontane. Notevole era pure la presenza di sculture, anche antiche, che erano sparse sia nell'edificio che nelle varie parti del giardino. Il progetto dei giardini forse fu dovuto, almeno in parte, a Fra' Giocondo ed a Pacello da Mercogliano. I due seguirono Carlo VIII in Francia per occuparsi, soprattutto il secondo, dei giardini delle residenze reali.

Il complesso era completato da un grande parco, adibito a bandita di caccia, che arrivava al mare.


Villa La Duchesca




Villa La Duchesca fu una villa rinascimentale di Napoli che si ergeva nelle immediate vicinanze di Castel Capuano in una zona di Napoli che ancora conserva il nome "Duchesca".

L'edificio, realizzato sul finire del XV secolo, fu progettato da Giuliano da Maiano, per Alfonso II, allora ancora Duca di Calabria, e fu celebre soprattutto per lo splendore dei suoi giardini. La villa si trovava nell'area di Castel Capuano, con cui era in collegamento grazie a viali interni ai giardini, in parte preesistenti alla villa stessa e strutturati in varie zone, con forme geometriche, fontane e anche con terrazzamenti.

Il nome "Duchesca" risulta generalmente riferito alla figura dalla duchessa Ippolita Sforza, moglie di Alfonso, morta però prima dell'edificazione dell'edificio principale, edificato da Giuliano da Maiano secondo un modello ligneo portato con sé da Firenze nel 1487.[1] Il giardino pare comunque che contenesse vari edifici, anche più antichi, costituendo un complesso con logge e padiglioni destinato ad essere una gradevole residenza per la corte, complementare alla residenza ufficiale di Castel Capuano. La villa venne costruita quasi in concomitanza a quella di Poggioreale anch'essa scomparsa. Entrambe furono importanti elementi di riqualificazione urbanistica per le aree circostanti con bonifiche, impianti viari ed opere pubbliche.

Le decorazioni delle logge della Duchesca, furono create da Giacomo Parmense, Luigi della Bella e Calvano di Padova.

Nonostante non risulti documentata, la sistemazione dei giardini e attribuita a Pacello da Mercogliano, il maestro giardiniere di Alfonso II, e poi di Carlo VIII in Francia.

Le vicende storico-politiche della dianastia aragonese causarono il sostanziale abbandono della villa pochi anni dopo la sua realizzazione che portò come conseguenza la progressiva edificazione privata che rapidamente inghiottì completamente il vasto giardino. Già nella seconda metà del XVI secolo il complesso era in avanzato degrado. Comunque la struttura edilizia, seppur danneggiata sovravvisse sino alla seconda metà del XVIII secolo, progressivamente spogliata dei suoi materiali da costruzione, e scomparve senza lasciare né traccia materiale né rappresentazioni iconografiche.


Chiesa di San Marco (Foggia)





La chiesa, citata nel 1174 e nel 1220 si trovava nel tratturo Castiglione, di fronte all'attuale Chiesa di San Rocco. Non si hanno notizie circa la sua epoca, ad eccezione quella che apparteneva ai Padri di Sant'Aniello di Napoli, e le cause della sua scomparsa.


Chiesa di Sant'Andrea (Foggia)




La chiesa di Sant'Andrea è stata una chiesa di Foggia.

Per la prima volta viene nominata da Papa Clemente III, in una bolla del 20 marzo 1190 . La chiesa, come riportato in un documento del 13 maggio 1214, era situata nel suburbio Manie Porte, ovvero dalle parti della Porta Magna. Non si conosce né la data, né il modo in cui la chiesa è scomparsa.


Chiesa di Sant'Angelo (Foggia)






La chiesa di Sant'Angelo è stata una chiesa di Foggia, demolita nel 1929.

La chiesa era risalente al secolo XII e divenne Vicaria Curata autonoma verso la fine del XVI secolo. All'interno era a forma ellittica, aveva tre altari, quello maggiore e marmoreo dedicato a San Michele Arcangelo, quelli più piccoli e di pietra dedicati a Santa Lucia e a San Donato. L'altare maggiore fu spostato nella Chiesa di San Giovanni di Dio, a causa della demolizione.

Giuridicamente la parrocchia continuò nella nuova chiesa di San Michele Arcangelo il cui edificio venne costruito tra il 1935 e il 1936. Fino all'inaugurazione della nuova chiesa la parrocchia ebbe sede provvisoria presso la chiesa di Sant'Agostino. La nuova chiesa fu ampliata tra il 1986 e il 1989.


Chiesa di Sant'Antonio Abate (Foggia)






La chiesa di Sant'Antonio Abate è stata una chiesa di Foggia, demolita nel 1935.

La chiesa, della prima metà del XIV secolo, era situata all'incrocio tra gli attuali Corso Vittorio Emanuele e Corso Garibaldi, nel largo omonimo (largo Sant'Antonio anche detto "borgo degli scopari") . Affidata alla Confraternita dei Bianchi, fu demolita nel 1935, ed al suo posto fu costruito il palazzo del credito italiano .


Chiesa di Sant'Eleuterio (Foggia)




La chiesa di Sant'Eleuterio è stata una chiesa di Foggia.

La chiesa è stata citata in un documento del 22 ottobre 1174 . Ricitata in un altro documento del 1234, la chiesa non fu mai più citata, e non si hanno più notizie su di essa .


Chiesa di Santa Maria delle Grazie (Foggia)




La chiesa di Santa Maria delle Grazie è stata una chiesa di Foggia.

La chiesa era chiamata anche della Madonna delle Grazie, ma più comunemente era chiamata con nome "Lo Sepolcro".

Era ubicata dalle parti della Porta Arpana, sulla strada per Manfredonia, vicina all'attuale chiesa di San Giovanni Battista.
 
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morgana1869
view post Posted on 29/4/2013, 08:21     +1   -1




Chiesa di San Francesco ad Alto





Storia e descrizione

Secondo la tradizione, il luogo in cui la chiesa fu eretta era stato scelto dallo stesso san Francesco nel 1219, anno in cui era ad Ancona per imbarcarsi per l'Egitto; il suo viaggio era motivato dalla volontà di portare una parola di pace in una terra funestata dalle lotte tra Cristiani e Musulmani. La denominazione "Ad Alto" sarebbe quindi tratta dalle parole stesse del santo di Assisi, che le pronunciò mentre si trovava sulle banchine del porto, indicando il colle Astagno come luogo in cui erigere il primo convento francescano di Ancona.

Inizialmente era di dimensioni ridotte: lo stesso Santo non voleva che le chiese dei suoi frati fossero ricche e troppo ampie. Tornato dall'Egitto e visto che la chiesa realizzata era troppo ampia, nel giro di qualche anno la fece ridurre di dimensioni. Dal 1230 al 1323 la comunità che vi abitò fu la sola famiglia francescana ad Ancona.

L'aumento dei membri della comunità e la loro stessa attività resero necessari ampliamenti sia per la chiesa sia per il convento; i primi lavori avvennero tra il 1422 ed il 1425, al tempo del padre guardiano beato Gabriele Ferretti. Questi, oltre al nuovo dormitorio per i frati, fece aggiungere un nuovo corpo alla chiesa, trasformando l'edificio preesistente in presbiterio; inoltre dotò la chiesa di un portico antistante. Lo stesso beato Gabriele Ferretti venne sepolto nella terra del convento, il 9 dicembre 1456; nel 1489 il corpo fu traslato in un'urna marmorea fatta scolpire dalla sorella, posta a fianco dell'altare maggiore. Nell'occasione la famiglia Ferretti commissionò a Carlo Crivelli la realizzazione del dipinto Beato Gabriele Ferretti in estasi, da porre nella chiesa. Alla fine del XV secolo venne aggiunta alla chiesa un'abside ed una sacrestia; l'aula venne inoltre suddivisa in tre navate da due file di colonne. I lavori durarono nel tempo, perché si hanno notizie su altri interventi ed altre spese, relativamente agli anni 1588 e 1614.

Nel 1520 il mercante raguseo Luigi Gozzi, come segno di gratitudine per la città che lo aveva accolto, commissionò a Tiziano una grande pala d'altare da porre a San Francesco ad Alto: l'Apparizione della Vergine, capolavoro del periodo giovanile del grande pittore cadorino e sua prima opera firmata.

Una descrizione del 1784 offre l'idea della vastità del tempio, visto che vi si dicono presenti ben 15 altari. La chiesa conteneva alcuni capolavori della pittura rinascimentale:
Carlo Crivelli, Madonna col Bambino;
Carlo Crivelli, Beato Gabriele Ferretti in estasi
Tiziano, Apparizione della Vergine (1520), o Pala Gozzi, dal nome del committente.

Dopo l'Unità d'Italia, nel 1863 (l'ultima funzione religiosa vi si tenne il 2 maggio di quello stesso anno), la chiesa venne demanializzata e secolarizzata, la grande aula fu divisa in piani e il campanile fu mozzato al di sopra del piano di calpestio della cella campanaria. Gli arredi, le sculture e i dipinti vennero dispersi in vari luoghi della città: la piccola tavola della Madonna col Bambino di Crivelli e l'Apparizione della Vergine di Tiziano sono ora alla Pinacoteca civica Francesco Podesti (allora appena inaugurata), l'urna del Beato Ferretti al Museo del Duomo, altre sculture al Palazzo degli Anziani, l'altare maggiore in legno dorato nella chiesa di San Francesco alle Scale (dal secondo dopoguerra), le campane nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano, il cui campanile, opera di Godeardo Bonarelli, è l'esatta replica dell'ex campanile del complesso. Il Beato Gabriele Ferretti in estasi purtroppo era stato già venduto dalla famiglia Ferretti ed è ora esposto alla National Gallery di Londra.


Chiesa di San Giacomo (Ancona)





La chiesa di San Giacomo di Ancona, già nota come chiesa di Santa Maria in Valverde, venne gravemente danneggiata in un bombardamento nel 1944 per poi cadere definitivamente in rovina degli anni del dopoguerra. Della costruzione primitiva conserva il campanile a vela con sottostante iscrizione lapidea (le due campane originarie del XIV secolo sono ricoverate nel Museo diocesano della città), mentre i resti dell'interno settecentesco furono decorticati e consolidati nell'ambito delle ristrutturazioni che interessarono il quartiere Capodimonte dopo il sisma del 1972.


Chiesa di San Pietro (Ancona)




La Chiesa di San Pietro sorgeva a monte dell'Arco Ferretti nei pressi della via omonima e venne cancellata da due bombardamenti tra il 1943 ed il 1944. Originaria del XIII secolo, tipologicamente e dimensionalmente aveva analoghe caratteristiche della tuttora esistente chiesa di Santa Maria della Piazza. Presentava una facciata romanica a doppio ordine di archetti con portale romanico (la cui lunetta si è salvata ed è conservata nel Museo Diocesano), pesantemente alterata con incongruenti finestre rettangolari in occasione della ristrutturazione dell'interno ad opera dell'arch. Lorenzo Daretti nel secolo XVIII. Il ripristino del solo prospetto con le originarie aperture rosone-monofore venne effettuato nella seconda metà degli anni '20 del secolo scorso. Attualmente rimane un resto del basamento dell'abside (in parte ricostruito) quale unica testimonianza dell'antica presenza sacra, in quanto l'attuale sito è occupato da uno stabile dell'immediato dopoguerra adibito ad unità immobiliari. Una lapide posta nel 1956 affissa sul detto stabile ricorda l'antica presenza. Una ulteriore memoria, con la rappresentazione dello schema del prospetto, venne affissa a cura del Comune il 25 giugno 2010 di fronte alle vestigia di cui sopra. Le Vestigia sono costeggiate da una strada comunale (via Scosciacavalli) che porta ad una piazzetta ed a quattro autorimesse ed il continuo flusso veicolare ne sta danneggiando l'integrità. Il bene architettonico è sotto la tutela della Soprintendenza.


Chiesa di Sant'Anna dei Greci (Ancona)



La chiesa di Sant'Anna, in origine intitolata a Santa Maria in Porta Cipriana, è una chiesa ortodossa di Ancona oggi scomparsa. Fu edificata nel XIII secolo, sulle fondazioni delle antiche mura greche di Ancona, poco prima dell'ampliamento delle nuove mura delle città nel 1221.

L'interno (18,7 m x 15 m), è suddiviso in tre navate da piccole arcate, di cui la laterale destra risulta più ampia di 25 cm. rispetto alla sua simmetrica. All'epoca della sua costruzione, e ancor prima dell'erezione dell'iconostasi (1531), due pilastri delimitavano la navata dal presbiterio, sopraelevato di 50 cm.

L'abside subì alcune modifiche per adattare l'altare alla liturgia orientale, mentre non subirono mutamenti gli spazi di forma poligonale occupati dalla prothesis e dal diakonikon.

La chiesa ospitava una iconostasi settecentesca attribuita a Francesco Maria Ciaraffoni con alcune icone dipinte da Lorenzo Lotto nel 1551 ossia la Visitazione di santa Elisabetta, Santa Veronica e L'Angelo che regge la testa di Giovanni Battista.

La chiesa, distrutta da un bombardamento aereo durante la seconda guerra mondiale, nell'aprile 1944 è testimoniata da una fotografia in bianco e nero scattata pochi anni prima della distruzione. Dopo il bombardamento si erano salvati l'abside e il campanile, demoliti il 5 maggio 1948, dopo un'accurata rilevazione dell'abside, malgrado l'opposizione della commissione diocesana dell'arte sacra. Le campane originarie del XIV secolo, rimosse dai vigili del fuoco dopo il bombardamento, furono ricoverate nel Museo Diocesano insieme ad altre testimonianze ecclesiastiche di siti anconetani distrutti o scomparsi nelle modificazioni urbanistiche.

Si conservano dell'originario arredo alcune icone tardo-bizantine, oggi custodite dal museo diocesano di Ancona. Non abbiamo invece nessuna notizia dei tre quadri di Lorenzo Lotto inseriti nel primo registro dell'iconostasi, e non si conosce come siano andati smarriti. L'antica presenza dell'edificio è testimoniata da una lapide del 1956 affissa sul dirimpetto Palazzo Acciajoli.



Basilica di Fano







La basilica di Fano è un edificio, non più esistente, della città romana Fanum Fortunae (oggi Fano) colonia fondata o ingrandita da Augusto.

La sua importanza è dovuta in quanto unica opera attribuita a Marco Vitruvio Pollione,architetto e teorico vissuto nel I secolo a.C., autore del trattato De architectura, opera fondamentale divenuta il fondamento teorico dell'architettura occidentale, dal Rinascimento fino alla fine del XIX secolo. Nei dieci libri dell'opera, dedicata ad Augusto, l'architetto Vitruvio parla soltanto di un solo progetto proprio: la basilica di Fanun Fortunae, descritta nel V libro, di cui nulla resta e la cui ubicazione è tuttora incerta, anche se sappiamo affacciarsi sul foro[1]. Il trattato vitruviano è giunto nel Medioevo in un'unica copia priva di illustrazioni: pertanto fin dal XVI secolo si è cercato da parte di molti autori di ricostruire la conformazione della basilica dando luogo ad immagini diversissime. Parallelamente numerosi architetti hanno cercato di avvicinarsi al modello vitruviano nelle proprie opere o nella disposizione di particolari elementi architettonici.

Vitruvio descrive un grande edificio, inserito in un complesso edilizio più vasto che domina la piazza del foro. La basilica ha tre navate di cui quella centrale più alta che alcuni hanno immaginato coperta a volta.



Abbazia di Santa Maria della Matina




Storia

L'abbazia fu fondata da Roberto il Guiscardo e dalla moglie Sichelgaita di Salerno su richiesta di Papa Niccolò II intorno al 1065, quale monastero benedettino. Il 31 marzo, la chiesa fu, per ordine di Papa Alessandro II, dedicata a Santa Maria; la relativa cerimonia fu officiata da Arnolfo arcivescovo di Cosenza e dai vescovi Oddone di Rapolla e da Lorenzo di Malvito alla presenza di Roberto e Sichelgaita e dell'abate del monastero Abelardo. All'abbazia fu donato dal Guiscardo parte del territorio prima facente parte della diocesi di Malvito, il cui vescovo fu ricompensato con la somma di trenta schifani d'oro; oltre a ciò fu riccamente dotata dai normanni ed ebbe vari privilegi sia da papi che da re, che la resero ricca e potente. Il 18 novembre 1092 papa Urbano II, promotore della prima crociata, visitò l'abbazia. Già Alessandro II aveva posto l'abbazia sotto la diretta autorità papale, cosicché Matina compare nella parte più antica del Liber censuum, come indicato nella redazione del ciambellano Cencio. La fondazione imperiale conobbe una decadenza che la fine del XII secolo non interruppe. Gioacchino da Fiore rifiutò con decisione la proposta del re Tancredi di Sicilia di trasferire a Matina, da Fiore, il proprio monastero, essendo l'antica abbazia «allora in stato di grave declino». Le speculazioni della letteratura cistercense più antica, ossia che Matina fosse cistercense dal 1180, vengono ripetute acriticamente dal Bedini, ma sono contraddette da documenti di archivio della famiglia Aldobrandini. Nell'ottobre del 1221, su richiesta dell'abate di Sambucina e con il permesso di Papa Onorio III ed dei vescovi locali competenti (Andrea di San Marco Argentano e Luca di Cosenza), la Matina diventa ufficialmente un monastero cistercense dipendente da Sambucina. L'atto diventa effettivo nel febbraio del 1222 con il consenso dell'imperatore Federico II e, dopo il completamento nel giugno 1222, viene confermato dal papa. Il nome comunemente usato rimase Matina, talvolta con delle aggiunte quali de Matina Sambucina o dictum sambucina Matina. Dal 1410 il monastero fu dato in commenda, cosa che ne provocò l'inesorabile declino. Nel 1633 aderì alla congregazione Cistercense calabro-lucana. Nel 1652 il monastero fu soppresso da papa Innocenzo X mentre la commenda rimase in vigore fino all'eversione della feudalità del 1809, dopodiché divenne di proprietà statale. Successivamente gli edifici e i terreni furono donati al generale Luigi Valentoni che la trasformò in un'azienda agricola, la proprietà rimase ai discendenti di questi fino alla fine del XX secolo.

Architettura

Nel XVII secolo gli edifici che componevano l'abbazia erano ancora intatti. Attualmente della chiesa rimangono solo alcune tracce. Tra le parti meglio conservate il parlatorio, lo scriptorium, la scala che porta ai piani superiori e la cappella decorata, antica sala capitolare gotica, che presenta tre navate con volte a crociera che ricordano quelle dell'abbazia di Casamari.



Monastero dei Tre Fanciulli




Il Monastero dei Tre Fanciulli (Trium Pueroum in lat. nome completo “Santa Maria dei Tre Fanciulli”) nota soprattutto come chiesa dell' A-Patia, il nome della località nella quale è ubicata, è una piccola chiesa di campagna nel comune di San Giovanni in Fiore. Nonostante le ridotte dimensioni, l'edificio ha una lunga e articolata storia.

Il nome del monastero risale all'antica tradizione che racconta come i monaci Basiliani vollero costruire il monastero sul luogo dove tre fanciulli, perduti nella boscaglia del luogo, si salvarono da un incendiò che scoppiò all'improvviso, grazie all'intervento della Madre di Dio. Lo stesso nome del luogo sulla quale sorge il monastero, "A-Patia", deriverebbe dal greco paios – paidea ovverro fanciullo.

Ad oggi del complesso monastico, resta solo la chiesa, mentre i restanti edifici attigui al luogo di culto sono andati perduti.

I Monaci Basiliani

La storia del monastero è legata principalmente all'esodo dei monaci Basiliani che dall'oriente sono arrivati in Italia, ed in Calabria in particolare. In Calabria, infatti, questi monaci realizzarono un numero considerevole di fondazioni, sia come monasteri che come cenacoli (abitazioni per monaci), molti dei quali possono essere ancora ammirati. Il dominio dei Bizantini in Calabria, favorì lo sviluppo dell'ordine Basiliano, ma quando Roberto il Guiscardo mise fine a questo dominio, cessò anche lo sviluppo dei Basiliani.

Storia

Non si sa l'esatta data della fondazione del monastero, di certo di sa che esisteva prima del 1200. Questa data, però, probabilmente si fa riferire, a quello che è l'attuale edificio, che con molta probabilità, fu costruito su un edificio di culto, probabilmente un'abbazia risalente a prima dell'anno 1000. La località "A-Patia", apparteneva in quel tempo alla diocesi di Cerenzia, i cui arcivescovi vedevano di buon grado l'arrivo di monaci fuori le mura, poiché intendevano sviluppare le terre vicine e dare aiuto ai contadini del luogo. Ai monaci Basiliani appena arrivati, vennero concesse le realizzazioni di tre monasteri. Il primo di questi, è appunto quello intitolato a Santa Maria dei tre Fanciulli, realizzato su una collina dalla quale si può ammirare la valle crotonese sottostante, attraversata dal fiume Neto.

Vita dei monaci Basiliani

I monaci Basiliani dei Tre Fanciulli si dedicarono inizialmente solo all'agricoltura, mentre solo successivamente cominciarono ad ampliare i loro orizzonti economici. Cominciarono ad allevare del bestiame che ben presto diventerà numerosissimo, aiutati dalla gente del luogo e da donazioni terriere che provenivano da fuori. Anche l'arcivescovo di Cerenzia contribuì alla donazione di terre, che favorivano lo sviluppo economico del monastero.

La rivalità con l'Abbazia Florense

Quando Enrico VI concesse a Gioacchino da Fiore e ai monaci florensi vaste terre della Sila e della pre-sila, molte di queste terre anche se lontane decine di chilometri, erano da anni sfruttate dai monaci basiliani, che le utilizzavano per il pascolo. La concessione di Enrico VI delimitava nuovi confini, relegando i monaci dei Tre Fanciulli in un territorio piuttosto limitato per quanto riguarda il loro numeroso allevamento. Convinti di essere stati depauperati, poiché possedevano da secoli quelle terre, fecero un ricorso scritto all'imperatrice Costanza, che però pretese di ottenere documenti scritti che attestassero ciò che i monaci stavano avanzando. Le ragioni avanzate dai monaci non furono ritenute idonee, e quando Enrico VI morì, l'imperatrice confermò la donazione che il marito aveva fatto ai monaci florensi. Per mitigare la situazione difficile che si stava creando, Gioacchino decise di riconoscere parte dei terreni ai confratelli basiliani. Quando però anche l'imperatrice Costanza cessò di vivere, i basiliani non persero tempo nel rivendicare con maggiore forza, i loro territori, inizialmente invadendo e danneggiando i campi dei florensi, ma poi agendo in maniera sempre più determinata, saccheggiando i fienili, il chiostro e le officine, ed infine commettendo vere e proprie violenze contro i confratelli florensi. Dopo continui e ricercati compromessi, tra cui la concessione da parte dei florensi di utilizzare molti territori in cambio di beni materiali, con lo sviluppo dell'ordine florense e il decadimento di quello basiliano, il monastero dei Tre Fanciulli, nel 1218 attraverso una bolla papale di Onorio III, venne aggregato definitivamente al monastero florense di San Giovanni in Fiore.


La chiesa prima del grande restauro

Fino al secolo scorso, come molte chiese ed edifici importanti del circondario, questa chiesa viveva in uno stato di profondo degrado. Nel 1965 il parroco che fu designato a prenderla in gestione, grazie a forte pressioni costrinse il Genio Civile di Cosenza ad effettuarvi degli importanti lavori di restauro, per far ritornare l'edificio al culto. Tali lavori, però, eliminarono completamente importanti elementi originari, a scapito della ricerca di una maggiore funzionalità dell'edificio. L'antico edificio possedeva un grande chiostro con un ingresso ad arco a tutto sesto, oggi completamente scomparsi. Non si rilevano tracce neanche delle possenti mura che circondavano l'edificio, descritte da Giacinto Ippolito nel viaggio che intraprese nella località dell'A Patia nel 1925. Due vasti fabbricati sorgevano vicino alla chiesa, tutt'ora andati perduti.

La chiesa oggi

La chiesa presenta ancora oggi, molti elementi dello stile basiliano, come la modesta e semplice struttura e i conseguenti materiali utilizzati. Sono evidenti, però, anche elementi e influenze architettoniche romaniche. L'attuale chiesa sorge dove un tempo vi era l'antica abbazia dei “Trium Puerorum”. I lavori di restauro consistettero:
nel completo rifacimento della copertura a capriate;
della intonacatura di tutte le pareti;
della stabilizzazione delle pareti esterni;
del recupero e restauro dell'altare;
del recupero della tela raffigurante il Miracolo della Vergine;
dell'allargamento delle due monofore laterali;
del rifacimento della pavimentazione;
dell'apertura di un piccolo rosone sopra il portale di ingresso;
dell'abbattimento dell'arco e della semicupola che si trovavano sopra l'altare;
realizzazione di tre alte monofore sul muro dell'altare;
copertura di due botole che conducevano alle cripte poste sotto il monastero;

La chiesa venne inoltre ammobiliata e adornata di un'acquasantiera, fu dotata di un piccolo e semplice campanile e riparata da un cornicione perimetrale. Dopo il 1965 e con ulteriori restauri del 1977, la chiesa venne completamente recuperata. L'unico elemento che non fu oggetto di restauro fu il muro perimetrale sinistro, notevolmente più grosso di quello destro, che sostenuto da contrafforti in muratura, rimane l'unico elemento originario dell'antico tempio basiliano.

Gli antichi tesori

Secondo gli studiosi, la chiesa possedeva molti beni, reliquari sacri e moltissime tele, che con molta probabilità, andarono ad arricchire le chiese del circondario. L'edificio attuale è ad unica navata, ben conservato, con il tetto a capriata romanica. All'interno della chiesa si può ammirare una grande tela del 1600, raffigurante il miracolo della vergine.

Come raggiungerla

La chiesetta dista circa 15 km dal centro abitato di San Giovanni in Fiore. Per raggiungere la chiesa basta percorrere la ex 107 che dal centro silano, e più precisamente dal quartiere periferico di “Palla Palla”, porta ai centri della pre-sila crotonese. La chiesa dista pochi chilometri dal paese di Caccuri.
 
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morgana1869
view post Posted on 30/4/2013, 09:35     +1   -1




Abbazia di Leno





L'abbazia di Leno, o Badia leonense, era un antico complesso monastico benedettino fondato nel 758 dal re longobardo Desiderio nel territorio dell'attuale comune di Leno, nella Bassa Bresciana. Abbattuta per volere della Repubblica di Venezia nel 1783, oggi dell'antica abbazia rimangono solo frammenti lapidei, conservati in larga parte nel museo bresciano di Santa Giulia, mentre in loco sono stati rinvenuti dei tumuli grazie agli scavi archeologici avviati di recente per iniziativa di associazioni locali che incentivano la valorizzazione dell'estinta badia e del territorio lenese.


Storia

Fin dalla fondazione il monastero di Leno fu chiamato ad Leones, appellativo che secondo la tradizione deriverebbe da un sogno di re Desiderio. Narra infatti la leggenda che l'allora duca longobardo, stanco dopo una faticosa caccia in una zona paludosa nei pressi di Leno, si addormentasse. Una serpe, sbucata dal nulla, gli strisciò accanto e andò ad attorcigliarglisi attorno al capo. Il valletto che scortava il duca non lo svegliò temendo che, se lo avesse fatto, il duca si sarebbe agitato e la bestia avrebbe potuto morderlo; poco dopo la serpe si allontanò. Al risveglio Desiderio raccontò al servo di aver sognato una situazione simile a quella accadutagli realmente. Nel sogno, però, la serpe gli aveva mostrato un luogo particolare; il servitore indicò allora il punto in cui il rettile si era rifugiato. I due iniziarono a scavare in quel punto e rivennero tre leoni d'oro, o marmorei secondo altre fonti.

Da questo episodio deriverebbe l'aggettivo leonense che avrebbe contrassegnato l'abbazia fatta poi erigere in quel luogo da Desiderio, una volta divenuto re




Secondo Jacopo (o Giacomo) Malvezzi, la fondazione del monastero sarebbe derivata non dal ritrovamento di statue leonine, ma da un sogno, occorso a Desiderio presso Leno durante una battuta di caccia, in cui si presagiva la sua futura incoronazione a re dei Longobardi.


Il cenobio sorse nell'VIII secolo, in un'epoca di fioritura del monachesimo italiano. I monaci che vi abitavano erano stati fatti arrivare appositamente da Montecassino affinché diffondessero anche in quell'area la regola benedettina. Agli abati furono elargite numerose concessioni regie e papali che accrebbero, nel corso del Medioevo, il prestigio del cenobio lenese e lo resero un importante centro culturale, economico, religioso e, per i comuni dei dintorni, anche politico. L'abbazia raggiunse l'apice del suo sviluppo nell'XI secolo, cui fece seguito un progressivo decadimento del complesso monastico e del suo prestigio.

Con l'introduzione della commenda nel 1479 si può far iniziare un secondo periodo dell'esistenza del monastero, caratterizzato dal nuovo tipo di giurisdizione degli abati commendatari ma che vide comunque la continuazione di quella parabola discendente che si arresterà solamente nel 1783, anno dell'abbattimento del complesso monastico.
Nel corso dei secoli la chiesa abbaziale così come lo stesso convento furono più volte ricostruiti a seguito di incendi e altri gravi danni subiti, con il risultato di allontanarne sempre più la struttura architettonica da quella originale desideriana.

Le origini

Gli anni che precedettero la fondazione del monastero di Leno furono caratterizzati dalla lotta per il trono longobardo, scatenatasi in seguito alla morte di Astolfo, tra Desiderio duca di Tuscia e Ratchis, fratello di Astolfo. Il duca, dapprima in svantaggio, cercò il sostegno dei Franchi e del papato promettendo a quest'ultimo territori in Emilia e nelle Marche. Per accattivarsi ancor più lo Stato della Chiesa promosse importanti iniziative monastiche, specialmente nel Settentrione, stanziando a favore dei vari ordini monastici ingenti quantità di denaro e fondando anche nuovi edifici religiosi, come nel caso dell'abbazia di San Benedetto di Leno e del monastero di Santa Giulia a Brescia.

Il cenobio lenese sarebbe sorto nel luogo dell'omonimo centro abitato, che aveva iniziato a costituirsi grazie soprattutto all'edificazione di una pieve, dedicata al Battista; i lavori di costruzione terminarono poco dopo l'ascesa al trono di Desiderio (758) che, oltre a partecipare alla cerimonia d'inaugurazione in compagnia della consorte e di un nutrito gruppo di vescovi, provvide a dotarla di un cospicuo patrimonio immobiliare, che annoverava beni sparsi in tutta la Lombardia orientale,[8] sul lago di Como e 58 paesi o feudi (tra i quali San Martino dall'Argine) posti nel bresciano, cremonese, milanese e mantovano.

Il monastero sorse accanto a un chiesa preesistente, dedicata al Salvatore, alla Vergine Maria e all'arcangelo Michele, in cui i frati avrebbero officiato le messe e conservato le reliquie. Queste, che erano state portate nel bresciano da un gruppo di dodici monaci, avviatori dell'esperienza monastica lenese e provenienti direttamente da Montecassino, annoveravano il radio del santo iniziatore dell'ordine, Benedetto, e i resti dei Santi Vitale e Marziale, donati dal papa a Desiderio stesso e da questi cedute al nuovo cenobio.

Nel 774, al crollo dell'egemonia longobarda in Italia per mano dei Franchi, il monastero visse momenti di preoccupazione per il venir meno del monarca fondatore, ma ben presto ci si rese conto che il re straniero, Carlo Magno, come difensore del Cristianesimo aveva tutto l'interesse a preservare l'integrità degli enti monastici, tanto da concedere agli abati di Leno il controllo sulla corte, oggi mantovana, di Sabbioneta. Nel corso degli anni il patrimonio immobiliare del monastero si accrebbe sempre più non solo per donazioni fatte da persone vicine alla corte imperiale, ma anche e soprattutto per lasciti di privati. Già agli albori del IX secolo il cenobio di Leno risultava legato da rapporti economici e spirituali a quello transalpino, ben più celebre, di Reichenau, sito nei pressi di Costanza, e fu ben presto elevato al rango di abbazia imperiale, come testimonia la nomina dell'abate Remigio ad arcicancelliere dell'imperatore Ludovico II.

Il medesimo sovrano, per esplicito intervento dell'abate suo funzionario, riconfermò alla comunità benedettina i beni elargiti dai suoi antenati, la esentò dal versamento delle tasse e decretò che i confratelli potessero eleggere direttamente il rettore del cenobio, riscuotere e trattenere i prelievi fiscali dei loro possessi fondiari; il diploma prevedeva inoltre che nessun uomo al di fuori dell'abate potesse giudicare un residente nei domini del monastero.

Lo splendore


Nel X secolo, caratterizzato dalle ripetute incursioni in Italia degli Ungari, i monaci di Leno provvidero a fortificare l'area attorno all'abbazia con palizzate e torri e cintarono la curtis di Gottolengo. Nel 938 i possedimenti del cenobio si allargarono ulteriormente con l'inclusione di Gambara. Vent'anni più tardi con i diplomi di Berengario II e Adalberto II i vasti possessi benedettini spaziavano dal Veronese alle Valli di Comacchio e dal Modenese al Bresciano. Nell'elenco dei beni era compresa anche curtis Bonzaga, l'attuale Gonzaga in provincia di Mantova

Nel 983 si verificò la prima occupazione del cenobio da parte di una banda di briganti locali, che furono ricacciati dall'intervento di Ottone III. Nel 999 venne emanata la prima bolla pontificia, quella di Silvestro II, che garantiva al monastero il regime di libertas, già stabilito nei precedenti provvedimenti regi e imperiali, arricchiva i possedimenti includendovi la corte di Panzano e confermava all'abate il diritto di appellarsi a qualsivoglia vescovo, evitando così di ricorrere alla diocesi bresciana per la consacrazione del crisma e dei monaci.

L'XI secolo fu il periodo di massimo splendore dell'abbazia. Infatti, nel 1014, il diploma di Enrico II rappresentò per il cenobio di San Benendetto il maggior elenco di beni mai registrato, con possedimenti sparsi per ben novantacinque località di tutto il Settentrione. Cinque anni più tardi l'abate Odone recepì le regole riformate dei Cluniacensi, che in quel periodo si stavano diffondendo anche nel Bresciano, come testimonia l'edificazione dell'abbazia di Rodengo-Saiano a metà del secolo.

Nel 1030 iniziarono ad acuirsi i dissidi con la cattedra di Brescia a causa dei tentativi del vescovo di sostituirsi alla giurisdizione spirituale e in seguito anche temporale dell'abate.L'abbazia fu retta dal 1035 al 1075 da due monaci bavaresi provenienti da Niederalteich, i quali ampliarono la chiesa desideriana e riaffermarono il ruolo del cenobio a scapito della diocesi. Nel 1078 papa Gregorio VII vietò a qualsiasi laico di impossessarsi del monastero e amministrare le terre senza l'autorizzazione dell'abate, inoltre confermò i privilegi e le prerogative fiscali e religiose dei confratelli.
La giurisdizione ecclesiastica della ricca abbazia di Leno pare si estendesse oltre i confini del proprio territorio e giungesse, intorno al 1107, a comprendere anche il monastero benedettino di San Tommaso Apostolo di Acquanegra, territorio situato tra il Chiese e l'Oglio, che i monaci avevano bonificato.

La decadenza

Nel secolo successivo iniziò la parabola discendente del monastero benedettino, processo che avrebbe condotto alla cessione in commendam del cenobio, avvenuta sul finire del XV secolo. Dopo un periodo di relativa quiete, attorno al 1135 il monastero fu distrutto da un incendio, presumibilmente di origine dolosa. Nel 1144 abbiamo nota di un'ingerenza della diocesi bresciana negli affari della badia, quando la cattedra insediò un suo preposto nella parrocchia di Gambara, al tempo dipendente direttamente dall'abate di Leno. La questione relativa al controllo della sede gambarese avrà fine solo nel 1195, a seguito di un processo con esiti non esplicitamente favorevoli per ambo le parti, ma sostanzialmente a vantaggio del vescovo di Brescia.

Nel 1145 i confratelli ultimarono i lavori per la riparazione dei danni causati dall'incendio, mentre sembra che durante il 1148 papa Eugenio III abbia soggiornato lungamente nel monastero, fatto in cui è possibile intravedere un tentativo dell'abate Onesto di riaffermare il ruolo del cenobio. In quest'ottica di rilancio si colloca pure il provvedimento papale di Adriano VI (1156) che ridiede prestigio all'abbazia a scapito della diocesi bresciana e attribuì importanti privilegi agli abati.

Iniziò intanto progressivamente a concretizzarsi la frammentazione del dominatus abbaziale con la trasmissione del potere amministrativo su svariate e cospicue proprietà del Settentrione a numerosi feudatari; le prime entità comunali che andavano affermandosi nei dintorni del cenobio, tra cui Gottolengo, Gambara, Ghedi (1196), nonché Leno stesso, avanzavano invece le prime rivendicazioni di autonomia dalla giurisdizione dell'abbazia. Per quasi un ventennio il monastero, che venne anche incendiato, patì le campagne militari di Federico Barbarossa, ma questi, al termine dei suoi scontri con i comuni della Lega Lombarda, concesse ai monaci, schieratisi dalla sua parte, un importante diploma, effimera riconferma del potere del cenobio.

Nel frattempo il contrasto tra la diocesi bresciana e l'abbazia lenese andava acuendosi: si colloca in questo periodo, alla fine del XII secolo, una testimonianza emblematica di questo vero e proprio scontro perpetuo tra cattedrale e abbazia per il controllo delle decime e la giurisdizione delle chiese rurali. Si tratta di una deposizione giudiziaria di Montenario, canonico dell'abbazia in quegli anni, riportata nel Dell'antichissima badia di Leno pubblicato nel 1767 da Francesco Antonio Zaccaria, della quale però non ci è giunto l'originale. Montenario, riferendosi al proprio cenobio, dice:

« Non ho mai udito che la chiesa di Leno sia stata sottomessa al vescovo di Brescia o che abbia battezzato con la sua autorità. Una volta, tuttavia, mi sono recato al sinodo della Chiesa bresciana con il mio maestro Martino , e in quell'occasione ho sentito che è stata chiamata "pieve di Leno" quando il prete Martino ha letto la lista nella quale erano registrate le pievi della Chiesa bresciana. All'udire quelle parole, però, come se fosse stato improvvisamente turbato, il vicedomino Giovanni esclamò: "Dio ci aiuti! Morirà mai questa stoltezza? Dal tempo che dura ormai vi tornano solo i cani!" »
(Francesco Antonio Zaccaria, Dell'antichissima badia di Leno, Venezia 1767, p. 178)

Dalla testimonianza si deduce come, per la comunità di Leno, il definire "pieve" l'abbazia, forte dell'indipendenza dalla diocesi costantemente confermata da papi e imperatori, fosse considerato un affronto. Il XII secolo si concluse con il rettorato di Gonterio, uomo di fiducia dell'imperatore, che operò una totale ricostruzione della chiesa abbaziale nel tentativo di ribadire il prestigio dell'Ordine a Leno.

Il Duecento si aprì in modo drammatico con una sollevazione del popolo di Leno, il quale riuscì a impadronirsi del monastero scacciando i monaci, i quali però riuscirono, con le armi, a riconquistarlo nel 1209. Nel medesimo anno l'abate Onesto decise la costruzione di un nuovo ospedale, dedicato ai Santi Bartolomeo e a Antonio, gestito dai benedettini, a disposizione della comunità. Per far fronte ai debiti economici furono attuate numerose vendite fondiarie e nel 1212 la Santa Sede delegò il vescovo di Cremona, Sicardo, come curatore degli affari economici del monastero lenese.

Seguì il lungo e funesto abbaziato di Epifanio, uomo dissoluto e disonesto, che lasciò in deplorevole stato non solo le finanze, ma anche i libri e gli oggetti sacri della badia tanto da dover far intervenire il papa che lo depose negli anni trenta del XIII secolo. Negli anni successivi, caratterizzati dalla lotta tra Guelfi e Ghibellini, gli abati di Leno si schierarono ora da una parte ora dall'altra, accentuando sempre più la miseria della comunità monastica che, per mantenersi, ricorse sempre più spesso ad affitti e a vendite, dilapidando ulteriormente l'ormai ridimensionato patrimonio fondiario.

Nel secolo seguente aumentano le contese di natura giurisdizionale e fiscale tra il monastero e la comunità di Leno, mentre la miseria dell'abbazia fu ulteriormente accresciuta da una razzia ad opera dei Visconti nel 1351. Seguì il lungo abbaziato di Andrea di Taconia, proveniente da Praga e cappellano di Carlo IV, che resse le sorti della badia barcamenandosi nelle diverse angherie per cercare di mantenere almeno il prestigio e la dignità del cenobio.
Questo abate soggiornò spesso lontano da Leno, tanto che il seggio venne occupato da due usurpatori: uno di questi, Ottobono, dopo la morte dell'abate boemo (1408) si coalizzò con i Veneziani durante la conquista del Bresciano e quando la città venne conquistata dalla Serenissima egli ottenne dal doge e dal papa la direzione del cenobio lenese (1434), confermata per altro, nello stesso anno, da un'importante bolla pontificia.

Nel 1451, alla morte di Ottobono, divenne abate Bartolomeo Averoldi. Egli dapprima (1471) intrecciò contatti con la riformata Congregazione di Santa Giustina di Padova, nel tentativo di contrastare la caduta del monastero di San Benedetto di Leno e aggregarlo alla Congregazione, come già aveva fatto la bresciana abbazia di Sant'Eufemia; poi, più interessato all'avanzamento personale che al benessere della comunità benedettina, in cambio dell'arcivescovado di Spalato, con il benestare del papa diede in commenda nel 1479 il cenobio lenese al nobile veneziano Pietro Foscari. Questo evento sancì la definitiva fine del ruolo egemone di Leno come monastero imperiale e aprì le porte a un'ulteriore, triste e lenta decadenza della comunità monastica.

La fine


Dopo la cessione in commenda del monastero ne ressero le sorti per lo più personaggi della nobiltà veneziana e bresciana come i Foscari, i Vitturi e i Martinengo I commendatari furono per lo più interessati ai titoli ricevuti con la nomina ad abate piuttosto che dall'effettiva organizzazione della vita monastica, anche in relazione al fatto che spesso essi esercitavano contemporaneamente la carica di vescovo o altre prelature di rilievo, lasciando così a sé stesso il monastero.

Caso a parte fu l'abbaziato di Girolamo Martinengo (1529-1567) che fece edificare nuove stanze per i frati e caseggiati a uso lavorativo e impiantò, presumibilmente, un vigneto. Nel frattempo proseguivano i contrasti tra la comunità benedettina e le cittadinanze locali, in particolare Ghedi, per la giurisdizione di numerosi fondi ad uso agricolo, che si risolsero spesso con la vittoria dei comuni. A testimonianza del cattivo stato in cui versava il cenobio sono le direttive emanate da Carlo Borromeo a seguito della visita apostolica occorsa nel marzo 1580, che imponeva di pareggiare il pavimento, curare il tabernacolo, procurare un crocifisso, imbiancare la chiesa...

Nel Seicento e nel Settecento la direzione della badia fu ancora appannaggio di patrizi veneziani come i Basadonna, i Morosini, i Barbarigo e i Querini. In particolare Angelo Maria Querini, che ricoprì il ruolo di abate commendatario nella prima metà del XVIII secolo, si limitò solamente a percepire le rendite derivanti dal monastero (circa 260 fiorini d'oro) e paradossalmente, mentre a Brescia per sua iniziativa era in allestimento la Biblioteca Queriniana, non si curò affatto di salvaguardare il copioso archivio lenese e lasciò cadere in rovina gli edifici abbaziali. Nel 1758 è nominato abate commendatario Marcantonio Lombardi, che incaricherà Francesco Antonio Zaccaria di compiere un'accurata indagine storica e architettonica circa il cenobio lenese.

Il lavoro dell'erudito venne pubblicato a Venezia nel 1767 col titolo Dell'antichissima badia di Leno. Nel frattempo nel 1759 era stata pubblicata la raccolta di bolle e diplomi indirizzate al monastero di Leno da parte di Giovanni Ludovico Luchi. Lombardi sarà l'ultimo abate nella storia dell'abbazia: alla sua morte (1782), i rimanenti beni dell'istituto monastico furono incamerati dalla Repubblica di Venezia, che trovandosi in un periodo di difficoltà cercò di finanziarsi abolendo le commende, e nell'anno successivo, 1783, con decreto senatoriale venne dichiarata ufficialmente soppressa l'abbazia.

L'ormai ex monastero fu acquistato, assieme al terreno su cui sorgeva, dalla famiglia Dossi, i quali chiesero e ottennero dal governo veneto l'autorizzazione a procedere con la demolizione degli edifici abbaziali: il luogo divenne cava di spoglio per i lavori alla costruzione della nuova Parrocchiale di San Pietro. Si chiudeva così la storia dell'abbazia, durata poco più di un millennio. I Dossi edificarono quindi in prossimità dell'antico cenobio una villa e mantennero il terreno a prato; la villa venne a sua volta abbattuta nel 1873 e sostituita dall'attuale Villa Badia.

Gli scavi archeologici



I resti rinvenuti nella campagna di scavi 2003-2004. Si distinguono chiaramente le tre fasi edilizie della chiesa abbaziale:
A) Fondazione della chiesa desideriana (VIII secolo);
B) Innesto della chiesa II di Wenzeslao (XI secolo);
C) Ispessimento della fondazione preesistente operato da Gonterio per la chiesa III (XII secolo).
Risale al 1990, all'interno di un ampio progetto archeologico nella Bassa Bresciana promosso dall'Università di Brescia, la prima proposta di condurre scavi nell'area in cui sorgeva l'antico monastero benedettino di San Benedetto di Leno, ma l'iniziativa non ebbe successo. Solo nel 2002, dopo l'acquisto del sito Villa Badia (circa 6500 m²) da parte di un istituto di credito locale, sono iniziate le prime prospezioni geofisiche con metodo GPR o georadar. I dati confermarono la presenza di gruppi di strutture laterizie sepolte a più livelli di profondità; l'anno successivo, operando in base ai dati delle ricognizioni scientifiche e alle mappe settecentesche, iniziò la prima campagna di scavi, conclusasi nel 2004.

I lavori degli archeologi si circoscrissero ad un'area di 680 m² e riportarono alla luce parte del muro perimetrale della chiesa abbaziale, distinta in tre fasi, le fondamenta della cripta, una tomba dipinta, la base dell'antico campanile e pochi resti di edifici abbaziali. A ovest della chiesa abbaziale fu invece rilevata dal georadar la presenza di strutture altomedioevali databili tra la fine del IV e VI secolo; la nuova area si estende probabilmente fuori dall'area indagabile di Villa Badia, sotto l'attuale Parrocchiale, nell'area dell'antico castello, ed era forse separata dal monastero da un fossato artificiale, predisposto dagli abati per difendersi dagli Ungari nel X secolo.

Nel 2010 è stata intrapresa una seconda campagna di scavi archeologici che ha portato alla luce le fondamenta di una piccola chiesetta e molteplici sepolture nei suoi dintorni. I dati emersi sono ancora in fase di studio, ma sembrano avvalorare la tesi di un insediamento preesistente la fondazione del monastero di San Benedetto.

Chiesa I


La prima chiesa dell'abbazia di San Benedetto venne fondata pochi anni prima dell'istituzione del monastero stesso per iniziativa di Desiderio, attorno al 756, forse in previsione dell'erezione del cenobio, avvenuta due anni dopo. L'esistenza di questo primitivo edificio è stata confermata dagli scavi archeologici i quali, oltre a metterne in luce le fondamenta poi inglobate nella ricostruzione di Gonterio del XII secolo, hanno portato al ritrovamento di una sepoltura con croci dipinte databile all'VIII-IX secolo. Le misure, stimate nel corso degli scavi, sono dai 16 ai 24 metri di lunghezza e 12 di larghezza. L'edificio presentava inoltre il tradizionale orientamento sull'asse est-ovest

La chiesa terminava ad oriente con il presbiterio e l'altare ed era probabilmente triabsidata allo stesso modo delle chiese monastiche di fondazione desideriana, quali San Salvatore a Brescia o San Salvatore a Sirmione e come, d'altra parte, lascia intendere la triplice dedicazione dell'edificio sacro al Salvatore, a Maria e all'arcangelo Michele. Non dimostrabile, ma assai probabile, l'esistenza sin da questa prima fase della cripta, sufficientemente motivata dal conferimento di importanti reliquie e dalle verosimili analogie, anche in questo caso, con le altre chiese desideriane prima nominate.

Chiesa II



La seconda chiesa abbaziale risale all'XI secolo e sorse per iniziativa dell'abate Wenzeslao (1055-1068). L'intervento dell'abate si concretizzò in un semplice raddoppio a occidente della chiesa desideriana, che ne aumentò la lunghezza di circa 28 metri, impostato su un'unica navata, terminante in un'ampia abside con presbiterio rialzato, dove forse veniva somministrato il battesimo, e una cripta sottostante provvista d'altare. Si accedeva a quest'ultima probabilmente per mezzo di due scalinate laterali alla scalinata principale che invece conduceva all'altare soprastante.

La cripta era costituita da quattro navatelle, scandite da 15 esili colonnine e provvista sia di un ingresso che la metteva in diretta comunicazione con l'esterno sia di seggi in muratura nell'emiciclo absidale che lasciava pensare all'esistenza di un coro per i frati. Non si può sapere con certezza se questo prolungamento della chiesa I a occidente abbia finito col determinare due diversi ambienti sacri, comunicanti tramite l'antico ingresso alla chiesa, o piuttosto con la creazione di un grande edificio sacro dall'ambiente unitario tramite l'abbattimento della facciata della struttura desideriana.

Con l'edificazione della seconda chiesa sorse, sul lato perimetrale meridionale di questa, anche un massiccio campanile che lasciava intendere i connotati plebani del monastero, avvalorando la tesi dell'esistenza di un battistero. Andrea Breda, nel 2007, ipotizza, sulla base delle dimensioni delle rinvenute fondamenta della torre campanaria, che questa dovesse essere paragonabile a quella della basilica di San Zeno a Verona. Il campanile, così come la chiesa II, ebbe comunque vita breve, essendo già scomparsa all'inizio del XII con la costruzione della grande chiesa di Gonterio.

Chiesa III


L'ultima fase architettonica della chiesa abbaziale, quella poi giunta fino al Settecento, è databile al XII secolo, operata su volere dell'abate Gonterio.. La costruzione dell'edificio, seppur rispettando l'orientamento del precedente edificio e ricalcandone alcuni lineamenti, comportò la completa demolizione della chiesa desideriana e dell'ampliamento di Wenzeslao. L'edificio si presentava in forme abbastanza inusuali ma imponenti, lungo quasi 50 metri e largo più di 25, diviso in due aree nettamente distinte.

La prima era la grande aula riservata ai fedeli, suddivisa in tre navate tramite grandi piloni quadrilobati di 1,80 m di diametro, tre per lato. Seguiva un lungo presbiterio concluso da un'abside semicircolare, riservato invece ai monaci. Nell'ultimo tratto, il presbiterio era anche fortemente rialzato e nello spazio sottostante si apriva una grande cripta, probabilmente destinata alla venerazione delle reliquie di san Benedetto e dei santi Vitale e Marziale e ancora esistente nella seconda metà del XVI secolo.

Non si è ovviamente a conoscenza delle decorazioni pittoriche e lapidee che un tempo dovevano adornare l'edificio: gli unici frammenti di rilievo giunti fino a noi provengono dal portale principale della chiesa o "porta regia", scolpito nell'ambito del cantiere di Gonterio e ancora intatta alla fine del Settecento. I resti consistono in parte della lunetta sovrastante l'architrave, conformata in una successione di archetti con una figura umana al centro, probabilmente Gesù, e in tre leoni: due di essi sono oggi conservati all'ingresso della Parrocchiale di Leno mentre il terzo, uno dei due stilofori che sostenevano le colonne del protiro, si trova all'interno del municipio del paese

Gli altri edifici abbaziali



Il resto del complesso abbaziale può essere ricostruito sulla base di una mappa dell'Archivio di Stato di Venezia risalente alla fine del Settecento, forse a poco prima della demolizione, che illustra in pianta i vari ambienti. Si riconoscono la chiesa a sud allineata sull'asse est-ovest, con abside a est, seguita a nord dagli altri edifici, in particolare il grande chiostro che appare però conservato solamente su due ali.

A nord-est si scorge un piccolo edificio absidato, identificabile con uno dei due oratori, di santa Maria e di san Giacomo, presenti nell'abbazia in aggiunta alla chiesa. Verso ovest si estende un grande vigneto impiantato nel Cinquecento, che sostituì probabilmente altre strutture precedenti. Sempre nel XVI secolo era poi stato inaugurato dall'abate commendatario Girolamo Martinengo, a sud della chiesa abbaziale, un palazzo con strutture di servizio e nuove celle per i monaci, che tutt'oggi esiste come edificio a scopo abitativo conosciuto col nome di Badia Vecchia.

I dati archeologici sono comunque esigui e non c'è nulla che confermi con esattezza l'esistenza di una biblioteca, di uno scriptorium o di una scuola per i pueri oblati, benché siano tutte strutture dall'esistenza plausibile, almeno durante il periodo di massimo splendore dell'abbazia, vista la rilevanza del monastero in epoca medioevale. In quest'ambito si ascrive la speculazione degli studiosi circa un codex, oggi conservato alla Biblioteca Queriniana di Brescia, presumibilmente originario del cenobio lenese.

Le prerogative del monastero

Sin dai primi anni della sua esistenza il monastero di San Benedetto era stato largamente dotato di beni e possedimenti. L'abbazia si configurava come un cenobio imperiale o Reichklöster non solo per l'eminenza del fondatore, ma soprattutto per il ruolo svolto dai monaci all'interno della politica imperiale. Gli imperatori, aldilà di larghe concessioni fondiarie, attribuirono agli abati del monastero diritti come l'esenzione fiscale, la libera elezione degli abati, la facoltà di nominare un avvocato che a sua volta incaricasse due giudici di amministrare la giustizia nelle curtes dipendenti da Leno e ancora la titolarità esclusiva delle decime riscosse sui terreni di proprietà abbaziale.
I privilegi papali, oltre a riconfermare alcune concessioni imperiali, ne garantivano altre di natura spirituale molto importanti. Anzitutto l'abate di Leno poteva essere consacrato solamente dal papa; il rettore del monastero aveva inoltre facoltà di ricorrere a qualsiasi vescovo per la consacrazione dei canonici e del crisma, svincolandosi così dall'obbligo di rimettersi al presule bresciano, e anche il diritto, durante i concili romani, di portare la mitra e vesti episcopali. Le bolle papali assicurarono agli abati anche la possibilità di istituire mercati ed edificare castelli e chiese sui territori di proprietà abbaziale. In definitiva, il monastero e tutte le sue pertinenze divennero una sorta di enclave all'interno della diocesi di Brescia.
Questo regime d'esenzione e privilegi iniziò ad affievolirsi progressivamente a partire dal XII secolo, al termine della lotta per le investiture.

La vita monastica e le attività dell'abbazia



I monaci benedettini, da sempre considerati grandi bonificatori di aree paludose, quando giunsero a Leno non ebbero bisogno di intraprendere grandi opere di drenaggio. Infatti gran parte dell'area della Bassa Bresciana era già stata bonificata dai Romani, sicché si limitarono a prosciugare solamente esigue zone paludose.
L'enorme quantità dei terreni di proprietà del monastero di San Benedetto veniva ridistribuita ai contadini, che li lavoravano per conto degli abati, dando loro parte del raccolto (decima) che consisteva essenzialmente nel frumento; i fondi abbaziali erano organizzati in curtes, amministrate per conto di delegati laici oppure dai monaci stessi Si praticava intensamente anche l'allevamento e la viticoltura, con la realizzazione di canali ad uso agricolo. Il disboscamento rese Leno un punto focale per il commercio del legname in tutto il circondario; le terre ottenute con il taglio dei boschi divennero nuovi campi coltivabili oppure pascoli per ovini e bovini, ma consistenti aree boschive vennero mantenute dal momento che queste rivestivano un'enorme importanza economica per attività come la caccia o l'allevamento dei suini, che necessitava di grandi quantità di ghiande. I lavori manuali e agricoli erano considerati attività per i servi, mentre i monaci si dedicavano per lo più a mansioni manageriali, culturali, assistenziali, religiose e al più artigianali. Vi erano infatti monaci che si dedicavano alla trascrizione dei codici nello scriptorium, all'istruzione degli oblati, alla cura dei malati e dei forestieri nello xenodochio e nell'ospedale, e frati artigiani come fabbri, calzolai, falegnami o cuochi.
Come monastero imperiale gli abati avevano importanti compiti nell'ambito dell'ordinamento pubblico per conto del sovrano, impegno ricompensato dall'imperatore stesso che garantiva la sicurezza e la quiete del complesso monastico.
Cospicuo, almeno fino a tutto il IX secolo, era il numero dei confratelli, superiori a un centinaio. Di questi almeno un terzo doveva essere costituito da fanciulli, i cosiddetti pueri oblati, affidati dai genitori all'abate affinché ne curasse l'istruzione e il sostentamento promettendo in cambio la presa dei voti minori del piccolo. Sembra confermata l'esistenza nel monastero di San Benedetto di Leno di una scuola per l'istruzione di questi fanciulli, ma dall'inizio del XII secolo l'oblazione dei fanciulli venne moderata e regolamentata e ciò si tradusse in un drastico calo del numero dei monaci lenesi.
I monaci ebbero a carico anche la cura pastorale dei loro possedimenti, come ben testimonia la lite per Gambara. Essi somministravano i sacramenti nelle chiese esterne di loro giurisdizione come quella lenese di San Giovanni o ad Ostiano e forse anche nella chiesa abbaziale.La comunità monastica di Leno e le sue dipendenze offrivano ricovero ai poveri e ai pellegrini, dato che trova riscontro nell'esistenza di un hospitale su due piani e di grandi dimensioni che ospitò, peraltro, un'assemblea giudiziaria presieduta da Federico Barbarossa nel 1185. Nel 1209 venne inoltre iniziata la costruzione di un ospedale per l'assistenza ai malati.

I possedimenti dell'abbazia, sparsi per tutto il Settentrione, rendevano necessario un rapporto continuo e stabile con la sede abbaziale di Leno. Una via di comunicazione fondamentale per l'economia del monastero fu il fiume Oglio, che affluendo nel Po metteva in diretto contatto il Bresciano con l'Adriatico. Sempre sfruttando questo importante corso d'acqua veniva importato nell'entroterra il sale estratto presso Comacchio, località in cui gli abati di San Benedetto possedevano delle saline. Il mercato della Badia, seppur originatosi e sviluppatosi nel contesto curtense, era un'economia relativamente aperta, i cui principali scambi commerciali erano effettuati con le città di Verona, Brescia e Pavia, località dove peraltro erano site delle strutture di proprietà del cenobio come la bresciana chiesa di San Benedetto. Inoltre si ha nota di proprietà lenesi nell'area della Lunigiana e della Val di Magra, importante area di transito dei pellegrini della Via Francigena e della Via degli Abati dai quali riscuoteva i dazi di pedaggio e offriva loro ricovero.

Le testimonianze superstiti

Oltre alle strutture emerse durante gli scavi archeologici compiuti sul sito dell'abbazia, è giunto fino a noi un gruppo composto da circa un centinaio di frammenti di varia natura, soprattutto lapidei e provenienti dall'originale decorazione plastica e architettonica degli edifici monastici. Questi frammenti, recuperati direttamente dalle strutture dell'abbazia in via di demolizione o riconosciuti come provenienti da Leno solo successivamente, oppure ancora recuperati durante gli scavi del XX secolo, sono per la maggior parte conservati nel museo di Santa Giulia a Brescia e in luoghi pubblici o collezioni private di Leno.

Per la maggior parte di essi è praticamente impossibile risalire all'originaria collocazione, trattandosi soprattutto di piccoli frammenti ormai del tutto estraniati dal contesto per il quale erano stati predisposti: si tratta, per la maggior parte, di piccoli capitelli, basi di colonnine, frammenti di cornici o residui di complessi plastici decorativi più ampi. Tra i pezzi più rilevanti dal punto di vista storico, artistico e documentaristico si ricordano i resti del portale della chiesa abbaziale, alcune iscrizioni funerarie, una lunetta lavorata a bassorilievo e due Madonne col Bambino in stucco, ma di provenienza incerta. La maggior parte dei frammenti è datata alle prime fasi del complesso monastico (VIII-X secolo), mentre le altre, le più consistenti, sono da ascrivere al XII-XIII secolo, ai rifacimenti operati da Gonterio. Altri pezzi, più tardi, sono distribuiti dal XV al XVII secolo.

Cronotassi degli abati di Leno

È di seguito proposta la successione degli abati che ressero le sorti dell'abbazia secondo Zaccaria. e secondo Ferrante Aporti.

Abati regolari

Ermoaldo (759-790), bresciano, si alleò con Potone, duca di Brescia, poi ucciso, per ripristinarlo nella signoria della città.
Lantperto (790-796 circa), proveniente dall'Abbazia di Montecassino.
Amfrido (796 circa-800), nominato vescovo di Brescia.
Badolfo o Baldolfo (800-815 circa), Carlo Magno gli donò le terre di Sabbioneta.
Ritaldo (815 circa-840 circa)
Remigio (840 circa-869 circa)
Magno (869 circa-?)
Alberto (939-958)
Donnino (958-981), accettò in permuta da Azzo, conte di Modena e Reggio, alcuni suoi beni con le terre di Gonzaga già di proprietà dell'abbazia.
Ermenolfo (981-999), nel 994 dovette subire i soprusi del bandito Raimondo che fu cacciato dall'abbazia solo nel 996 con l'arrivo dell'imperatore Ottone III.
Liuzzone (999-1015)
Andrea (1015-1019), deposto da papa Benedetto VIII.
Odone (1019-1036)
Richerio (1036-1038), di origini germaniche, era amico dell'imperatore Corrado II.
Riccardo Gambara, (1038-1060)
Wenzeslao (Guenzelao, secondo lo Zaccaria) (1060-1078)
Artuico (1078-1104 circa)
Tedaldo (1104 circa-1146), sotto la sua reggenza, nel 1137, l'abbazia subì un violento incendio.
Onesto I (1146-1163), provvide alla sistemazione dell'abbazia incendiata e della chiesa che fu consacrata da papa Eugenio III.
Lanfranco Gambara, abate intruso (1163-1168).
Alberto da Reggio (1168-1176)
Daniele (1176-1178)
Gonterio Lavello Lungo (1178-1209). Nel 1205 gli abitanti di Leno si ribellarono contro la signoria degli abati.
Onesto II (1209-1227)
Epifanio (1227-1230)
Pellegrino (1230-1241 circa)
Giovanni (1241 circa-1248)
Gulielmo (1248-1297), da Parma.
Pietro Baiardi (1297-1307), da Parma.
Uberto da Palazzo (1307-1312)
Aicardo (1312-1339), da Parma.
Pietro Pagati (1339-1366), da Ghedi. Gli Umiliati di Brescia si unirono ai frati dell'abbazia portando in dote i loro beni.
Giovanni Griti (Gritti) (1366-1370)
Andrea di Tacovia (1370-1407), da Tachov (Boemia).
Ottobono conte di Langosco e di Mirabello, usurpatore (1402-1451 poi legittimato dal papa nel 1434). Sotto la sua reggenza, nel 1434, avvenne la cessione di San Martino dall'Argine a Gianfrancesco Gonzaga, primo marchese di Mantova.
Antonio di Rozoaglio, usurpatore (1403-1434 deposto dal papa).
Bartolomeo Averoldi, letterato. (1451-1479 riceve la cattedra di Spalato).

Abati commendatari

Pietro Foscari, cardinale (1479-1486).
Francesco Vitturi (1586-1512)
Vittore Vitturi (1512-1513)
Francesco della Rovere, vescovo di Vicenza (1513-1516).
Antonio del Monte, cardinale (1516-1529).
Girolamo Martinengo (1529-1567)
Ascanio Martinengo (1567-1583)
Girolamo Martinengo (1583-1591)
Giovanni Francesco Morosini, cardinale (1591-1595).
Gianfrancesco Morosini (1595-1628)
Gianfrancesco Morosini, patriarca di Venezia (1628-1679).
Pietro Basadonna (1679-1690)
Marcantonio Barbarigo (1690-1706)
Francesco Maria Barbarigo (1706-1714)
Cornelio Maria Francesco Bentivoglio, cardinale (1714-1733).
Nereo Corsini, cardinale (1733-1734).
Angelo Maria Querini, cardinale e vescovo di Brescia (1734-1758).
Marcantonio Lombardi, vescovo di Crema (1758-1782).

Note

1.^ Cornelio Adro ed Elia Capriolo, in Signori 2002, op. cit., pp. 303-304.
2.^ La leggenda della fondazione dell'Abbazia. URL consultato in data 20 agosto 2010.
3.^ Malvezzi 1732, op. cit., col. 847c.
4.^ Baronio 2002, op. cit., pp. 46-49.
5.^ Breda 2006, op. cit., p. 118.
6.^ Azzara 2002, op. cit., pp. 27-30.
7.^ Guerrini 1987, op. cit., p. 30.
8.^ Baronio 2002, op. cit., p. 35,
9.^ Aporti, op. cit., pp. 80-81.
10.^ Azzara 2002, op. cit., pp. 21-22.
11.^ Bonaglia 1985, op. cit., p. 116-117.
12.^ a b Baronio 2002, op. cit., p. 34.
13.^ Picasso 2001, op. cit., p. 473.
14.^ Baronio 2002, op. cit., pp. 34-35.
15.^ Cirimbelli 1993, op. cit., p. 40 vol. 1.
16.^ Baronio 2002, op. cit., p. 35.
17.^ Ragni, Morandini, Tabaglio, Leonardis, op. cit., p. 12.
18.^ Cirimbelli 1993, op. cit., p. 43 vol. 1.
19.^ Cirimbelli 1993, op. cit., p. 44 vol. 1.
20.^ Baronio 2002, op. cit., pp. 40-41.
21.^ Pierino Pelati, Acque, terre e borghi del territorio mantovano. Saggio di toponomastica, Asola, 1996.
22.^ Cirimbelli 1993, op. cit., p. 46 vol. 1.
23.^ Zaccaria 1767, op. cit., pp. 80-82 e p. 91.
24.^ Baronio 2002, op. cit., pp. 56-57.
25.^ a b Cirimbelli 1993, op. cit., p. 48 vol. 1.
26.^ Guerrini 1947, op. cit., p. 372.
27.^ Breda 2006, op. cit., pp. 121-131.
28.^ a b c Constable 2002, op. cit., pp. 79-147.
29.^ Leandro Zoppè, Itinerari gonzagheschi, p.31, Milano, 1988.
30.^ a b Cirimbelli 1993, op. cit., p. 52 vol. 1.
31.^ Zaccaria 1767, op. cit., p. 29.
32.^ Cirimbelli 1993, op. cit., p. 53 vol. 1.
33.^ Zaccaria 1767, op. cit., pp. 120-122.
34.^ Gavinelli, op. cit., p. 359.
35.^ Cirimbelli 1993, op. cit., p. 60 vol. 1
36.^ Anno del primo documento attestante l'esistenza del comune di Ghedi.
37.^ Cirimbelli 1993, op. cit., p. 55 vol. 1.
38.^ Archetti 2002, op. cit., p. 104.
39.^ a b Archetti 2007, op. cit., p. 167.
40.^ La dura affermazione è di derivazione biblica, per un'analisi in dettaglio si veda Archetti 2007, op. cit., p. 168.
41.^ Archetti 2007, op. cit., p. 168.
42.^ Cirimbelli, op. cit., p. 58 vol. 1.
43.^ Zaccaria 1767, op. cit., p. 35.
44.^ Cirimbelli 2003, op. cit., p. 61 vol. 1.


Cristo benedicente tra i santi Vitale e Marziale





Cristo benedicente tra i santi Vitale e Marziale è un bassorilievo in marmo databile alla fine del XII secolo e conservata nel museo di Santa Giulia di Brescia, nella sezione "L'età del Comune e delle Signorie - Strutture del potere ecclesiastico".


Storia

L'esecuzione della lunetta è da collocare alla fine del XII secolo, nell'ambito del grande progetto dell'abate Gonterio che, in questi anni, stava ricostruendo radicalmente la chiesa abbaziale, demolendo il primitivo edificio fondato da re Desiderio nel 758 e il successivo ampliamento dell'abate Wenzeslao dell'XI secolo per l'erezione di un tempio dalle dimensioni imponenti. Il portale principale della nuova chiesa, anch'esso realizzato durante il medesimo cantiere, recava una lunga iscrizione dedicatoria, tramandataci grazie a una copia settecentesca, recante l'anno 1200, termine entro il quale si deve far rientrare la conclusione dei lavori.

Non è comunque nota l'originaria collocazione della lunetta, anche se verosimilmente doveva far parte del corredo lapideo monumentale introdotto da Gonterio, forse un ingresso minore, frontale o laterale, della nuova chiesa abbaziale oppure ad uno dei due oratori presenti nel monasterio, dedicati alla Madonna e a san Giacomo. Non è comunque da escludere, dato il soggetto iconografico, che possa provenire da un sacello interno alla chiesa o alla cripta, dedicato ai due santi raffigurati, le cui reliquie erano state donate alla primitiva comunità religiosa da re Desiderio, suo fondatore.

Il manufatto rimane in loco nei secoli successivi, mentre il cenobio leonense vede lentamente affievolire i suoi poteri in una parabola discendente che lo porterà ad essere definitivamente soppresso dalla Repubblica di Venezia nel 1783, dopo un lungo periodo di decadenza. Gli edifici del monastero, chiesa compresa, vengono abbattuti e utilizzati come cava di materiale per la nuova chiesa parrocchiale: la maggior parte delle opere lapidee viene distrutta, venduta o trasferita altrove.

La lunetta in questione entra a far parte della collezione dei Musei Civici durante il XIX secolo e confluirà nella raccolta del museo di Santa Giulia a Brescia alla fine del Novecento. Con l'apertura del museo nel 1998, il pezzo si trova stabilmente esposto nella sezione "L'età del Comune e delle Signorie - Strutture del potere ecclesiastico" assieme ad altre opere lapidee provenienti da Leno, tra cui un frammento dell'antico portale principale.

Descrizione

La lunetta si è conservata integralmente ed è mancante solo di una sottile sezione della cornice superiore, tagliata via in epoca imprecisabile. All'interno di questa spessa fascia di contorno sono disposti Gesù, in posizione centrale, nell'atto di benedire affiancato da san Vitale a sinistra e san Marziale a destra. I due santi, entrambi inginocchiati in gesto di venerazione, sono riconoscibili grazie alle due didascalie inferiori, iscritte su una sottile cornice basamentale, dove appunto si leggono i nomi "S. VITALIS" e "S. MARCIALIS".

Le due lettere alfa e omega sono invece iscritte ai lati del capo di Cristo, simboleggianti l'inizio e la fine della vita e dei tempi, secondo un'iconografia ricorrente all'epoca, mentre san Marziale reca un libro aperto verso l'osservatore recante l'iscrizione "EGO SUM VIA VERITAS ET VITA". Le tre figure sono vestite con ricche e lunghe tuniche, le cui pieghe sono particolarmente accentuate nell'immagine di Gesù.


Stile

La lunetta è da collocare tra gli episodi salienti delle testimonianze della scultura romanica bresciana del XII secolo, della quale poco è sopravvissuto fino ai nostri giorni. Sebbene non sia possibile risalire con certezza alla bottega di produzione né, tanto meno, all'autore dell'opera, Saverio Lomartire, nel 2002, vi riconosce la tecnica esecutiva e la resa espressiva di un maestro formato nel cantiere di maestro Niccolò alla basilica di San Zeno a Verona.


Abbazia di San Colombano






L'abbazia di San Colombano è un monastero che venne fondato da San Colombano nel 614 a Bobbio, in provincia di Piacenza, ed un tempo sottoposto alla sua regola monastica e all'Ordine di San Colombano.

Attualmente la basilica è una parrocchia del vicariato di Bobbio, Alta Val Trebbia, Aveto e Oltre Penice della diocesi di Piacenza-Bobbio.

Sorge nel centro del tessuto urbano della cittadina, che si formò poco per volta attorno alla vasta area occupata dal monastero.

Essa fu per tutto il Medioevo uno dei più importanti centri monastici d'Europa, facendone fra il VII ed il XII secolo una Montecassino dell'Italia settentrionale; infatti è resa famosa dallo scriptorium, il cui catalogo, nel 982, comprendeva oltre 700 codici e che dopo la dispersione in altre biblioteche conservò 25 dei 150 manoscritti più antichi della letteratura latina esistenti al mondo.

Divenne abbazia matrice dell'ordine monastico la cui potenza si estendeva sia in Italia sia in Europa grazie a numerose abbazie e monasteri fondati dai suoi monaci fin dall'epoca longobarda. In Italia del nord si creò rapidamente il feudo monastico di Bobbio, poi sostituito dalla "contea vescovile di Bobbio".

Vi si tengono le funzioni religiose solo nei giorni festivi. La festa annuale è il 23 novembre, festa del santo patrono di Bobbio.


Storia

L'origine della Sede di Bobbio, in verità della città stessa, risale alla creazione di un monastero da parte del santo irlandese, Colombano, nel 614. Nel 568 il nord Italia era stato invaso dai Longobardi, guidati da Alboino. L'orda semiariana, ovunque passasse, lasciava una scia di distruzione e di crudeltà. Ma, alla lunga, il nuovo re longobardo, Agilulfo, divenne meno ostile e, gradualmente, anche non negativamente disposto nei confronti della Chiesa cattolica. La regina Teodolinda, che aveva sposato nel 590, era una fervente cattolica; quest'ultima aveva una grande influenza sul consorte, che si convertì grazie alle predicazioni di Colombano. Fin dal giorno del suo battesimo, Agilulfo mostrò grande zelo verso la conversione dei suoi sudditi e, a questo scopo, donò a San Colombano una chiesa in rovina ed una terra devastata nota come Ebovium che, prima della conquista da parte dei Longobardi, aveva fatto parte del Patrimonio di San Pietro. Colombano lasciò il suo cuore in questo luogo appartato mentre, allo scopo di istruire i Longobardi, scelse per sé stesso e per i suoi monaci la solitudine. Da un lato di questa piccola chiesa, che era stata dedicata a San Pietro, sorsero ben presto le mura di un'abbazia. Questo fu il nucleo di quella che sarebbe diventata la biblioteca più famosa d'Italia che si basò sui manoscritti che Colombano aveva portato dall'Irlanda e sui trattati di cui egli stesso fu autore.

Il monaco fondatore del cenobio di Bobbio morì in questo borgo, ma la sua eredità giunse in mani degne, a partire da Sant'Attala (615-627) e San Bertulfo (627-640). Entrambi furono grandi per santità ed erudizione, ed entrambi ereditarono lo spirito apostolico di Colombano. E ci fu davvero bisogno di queste figure per contrastare l'arianesimo, che divenne temibile con il re ariano Rotari (636-652). Arioaldo, l'immediato predecessore di Rotari, che divenne cattolico, prima della sua conversione, fece uccidere Bladulfo, un monaco di Bobbio, perché non lo aveva salutato in quanto ariano. Si narra che Attala riportò Bladulfo in vita e liberò Arioaldo da una possessione diabolica, il castigo per il suo crimine, e che questo duplice miracolo fece convertire Arioaldo. Nel 628, quando Bertulfo si recò in pellegrinaggio a Roma, papa Onorio I esentò Bobbio dalla giurisdizione episcopale, rendendo l'abbazia immediatamente soggetta alla Santa Sede (nullius dioeceseos). Con il successivo abate, Bobuleno, fu introdotta la Regola benedettina. In un primo momento la sua osservanza fu facoltativa ma, con il passare del tempo, essa superò la più austera regola che era stata in uso fino a quel momento, così Bobbio entrò a far parte della Congregazione di Monte Cassino. Nel 643, su richiesta di Rotari e della regina Gundeperga, papa Teodoro I concesse all'abate di Bobbio l'uso della mitra e degli altri simboli pontificali. Si è anche affermato che, già nel VII secolo, Bobbio avesse un vescovo chiamato Pietro Aldo, ma, secondo vari eminenti studiosi, tra i quali Ferdinando Ughelli e Pius Bonifacius Gams, la Sede di Bobbio non fu fondata prima di altri quattro secoli, tuttavia una ricerca di fine Ottocento ha dimostrato che il nome del suo primo vescovo era veramente Pietro Aldo (Savio, 158).
Dal VII secolo in poi, in mezzo a diffuse turbolenze e ignoranza, Bobbio rimase una casa di pietà e di cultura. Grazie agli sforzi dei discepoli di Colombano, un numero sempre crescente di Longobardi fu ricevuto in seno alla Chiesa. Tuttavia, nella prima metà del VII secolo, la grande regione compresa tra Torino, Verona, Genova e Milano si trovava in una situazione di alta irreligiosità, dove riaffioravano anche fenomeni di idolatria. In realtà la situazione si protrasse fino al regno dell'usurpatore Grimoaldo (662-671), egli stesso un convertito, quando la maggior parte della popolazione si convertì al cattolicesimo. Da quel momento l'arianesimo scomparve dall'occidente. Gli storici dell'abbazia considerano come una delle sue principali glorie la parte di rilievo che ebbe nella parte finale della lotta a questa eresia. Il nipote di Teodolinda, Ariperto I (653-661), restituì a Bobbio tutte le terre che erano appartenute al Patrimonio di San Pietro. Ariperto II (702-712), nel 707, confermò la restituzione a papa Giovanni VII. Tuttavia i Longobardi presto si reimpossessarono delle terre ma, nel 756, Astolfo (749-756) fu costretto da Pipino il Breve ad abbandonare le terre di pertinenza di Bobbio. In seguito, verso la fine del IX secolo, l'abate Agilulfo (883-896) decise di spostare l'intero complesso cenobitico più a valle, iniziando la costruzione di un nuovo monastero. Nel 1153, Federico Barbarossa confermò attraverso due diversi documenti vari diritti e beni all'abbazia. Così accadde che agli abati, per secoli, furono riconosciuti grandi poteri temporali.

La fama di Bobbio raggiunse persino l'Irlanda, dove la memoria di Colombano era ancora venerata. Il successore di Bobuleno fu Cumiano, che aveva lasciato la sua sede in Irlanda per diventare monaco a Bobbio. L'abate Gundebaldo lasciò all'abbazia la sua preziosa biblioteca consistente in circa 70 volumi, tra i quali il famoso Antifonario di Bangor. Un catalogo del X secolo, pubblicato da Ludovico Antonio Muratori dimostrava che, in quel periodo, ogni ramo del sapere, divino ed umano, era rappresentato in questa biblioteca. Molti dei suoi libri sono andati perduti, il resto è disperso e forma il tesoro delle collezioni che li possiedono. Nel 1616 il cardinale Federico Borromeo recuperò, per la Biblioteca Ambrosiana di Milano, 86 volumi, tra cui il famoso "Messale di Bobbio" scritto intorno al 911, l'"Antifonario di Bangor" ed una parte della versione della Bibbia di Ulfila in lingua gotica. Nel 1618 26 volumi della biblioteca dell'abbazia furono donati a papa Paolo V per la Biblioteca Vaticana. Molti altri furono inviati a Torino dove, oltre a quelli conservati nei reali archivi, 71 si trovavano presso la Biblioteca Universitaria, fino al disastroso incendio del 26 gennaio 1904. Come gli studiosi di età più tarda dovettero molto ai manoscritti di Bobbio, così fu per quelli del X secolo. Gerberto di Aurillac, per esempio, il futuro papa Silvestro II, divenne abate di Bobbio nel 982 e qui, con l'aiuto dei numerosi antichi trattati che vi erano conservati, compose il suo celebrato lavoro sulla geometria. In effetti, sembra che in un momento in cui la lingua greca era quasi stata dimenticata in tutta l'Europa occidentale, i monaci di Bobbio leggessero Aristotele e Demostene nella loro lingua originale.

Nell'anno 1014 l'imperatore Enrico II, in occasione della sua incoronazione a Roma, ottenne da papa Benedetto VIII l'erezione di Bobbio a sede vescovile. Pietroaldo, il primo vescovo, era stato abate di Bobbio dal 999 e molti dei suoi successori vissero per lungo tempo nell'abbazia nella quale molti di loro erano già stati monaci. Secondo l'Ughelli ed altri, nel 1133 Bobbio divenne sede suffraganea di Genova; il Savio, per la prima volta, trovò menzione di questa subordinazione in una bolla pontificia di papa Alessandro III datata 19 aprile 1161. Di tanto in tanto sorsero controversie tra il vescovo ed i monaci perciò, nel 1199, papa Innocenzo III pubblicò due bolle in cui restituiva all'abbazia poteri spirituali e temporali ma, al contempo, autorizzava il vescovo a deporre un abate se questi non gli avesse obbedito.

La comunità dei monaci dell'Ordine di San Colombano venne sciolta a Bobbio da papa Niccolò V il 30 settembre del 1448, successivamente subentrarono i monaci benedettini della Congregazione di Santa Giustina di Padova.

Nel 1803 i soldati francesi tolsero ai monaci l'abbazia e la chiesa di San Colombano; ciò che resta dell'abbazia è ora utilizzato come scuola comunale e la chiesa dove riposano le reliquie dei santi Colombano, Attala, Bertulfo, Cumiano ed altri è diventata una chiesa parrocchiale, servita dal clero secolare. Gli altari ed i sarcofagi siti nella cripta presentano bellissimi ornamenti tipici dell'arte irlandese

Complesso abbaziale


Il complesso abbaziale del monastero si compone di numerosi edifici: la Basilica e la piazza San Colombano, il corridoio-cavedio con l'abitazione abbaziale, il chiostro interno con il Museo della Città ed i giardini interni, il Museo dell'Abbazia nella zona dell'antico Scriptorium di Bobbio, il porticato con il giardino di Piazza Santa Fara, l'ex chiesa delle Grazie e vari edifici diventati oggi privati o rimasti pubblici come le ex carceri ed il tribunale oggi ostello.

Basilica di San Colombano

Costruita tra il 1456 ed il 1522, sopra i resti della chiesa conventuale anteriore al 1000.

La Basilica rinascimentale presenta numerosi affreschi all'interno dei quali è stata collocata una fitta serie di citazioni dalla Sacre Scritture. Un attento esame di queste citazioni rivela come una sola sia la citazione a cui è stato volutamente attribuito il massimo rilievo sulle pareti della Basilica, tanto da rivelarsi la vera "chiave di lettura" dell'intera serie di brani biblici.
Si tratta del versetto 6,63 del Vangelo secondo Giovanni, un versetto tutto volto a sottolineare il "primato dello Spirito", che così recita: «È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho detto sono spirito e vita».
Questa citazione, che costituisce il "cordolo spirituale" dell'intera basilica, invita a riconsiderare tutti i riferimenti alla carne, al sangue e al sacrificio di Cristo sotto tale particolare angolazione.
Questa scelta assume inoltre sfumature particolarmente significative se letta in rapporto alla complessa situazione vissuta dalla Chiesa nel periodo in cui la Basilica fu decorata. Oltre a costituire un forte invito alla conversione e a una riforma della Chiesa ispirata dalla Spirito, è da valutare se tale scelta si ispiri anche a correnti religiose dell'epoca come il movimento dell'Evangelismo, o se sia frutto del confronto con le idee proprie della Riforma protestante, confronto caldeggiato da alcuni elementi di spicco della Congregazione Cassinese. Occorre evidenziare come, proprio in base a questo versetto, lo svizzero Zwingli arrivò in quegli stessi anni a distaccarsi dalla concezione cattolica dell'Eucaristia. Per questi motivi ben si addice a questa chiesa la definizione di "Basilica dello Spirito" .

Anche gli affreschi che decorano le navate interne, le due navate minori ed il transetto, eseguiti da Bernardino Lanzani e da un suo aiutante intorno agli anni (1527)- 1530, riprendono e sviluppano con spunti originali il tema della centralità dello Spirito già evidenziato nelle scelta delle citazioni.
Come già in alcuni lavori eseguiti a Pavia, il Lanzani si lascia ispirare da alcune opere di Albrecht Durer, come sembra evidente nella suggestiva scena del Noli me tangere con Maria Maddalena ai piedi di Gesù risorto, affrescata nella volta centrale.

Sopra il portale d'accesso e sotto il portico detto Paradiso vi sta la scritta, monito dei templari: terribilis est locus iste (questo luogo è terribile), stante ad indicare un luogo sacro, mistico e misterioso da non profanare, pena la morte. Il Coro ligneo in stile gotico è del 1488.

Subito all'interno della chiesa vi è, a sinistra, la vasca battesimale del VII secolo, secondo la leggenda dono della regina Teodolinda allo stesso San Colombano e dove lui stesso celebrò il primo battesimo (un tempo era collocata nella cripta).

L'abside è stranamente rettangolare ed asimmetrico ed è slegato al resto della chiesa. Esso fu costruito negli anni 1456-1485, sostituendolo al precedente di forma ovale.

Nella cripta vi sono:
la cappella maggiore, con il mosaico pavimentario di San Colombano dell'XI secolo.
la cripta vera e propria, con il sarcofago di S. Colombano al centro, opera di Giovanni de' Patriarchis (1480), il sepolcro di Sant'Attala (2º abate), e il sepolcro di San Bertulfo (3º abate), con le loro transenne marmoree longobarde usate come lastre tombali sopra gli antichi affreschi, la cancellata transenna in ferro battuto del X secolo e la cappella di San Colombano a sinistra con la statua bianca del santo in grandezza naturale ed un antico affresco della Madonna dell'Aiuto.

Esternamente:
la Torre del Comune costruita nel 1341 ed abbattuta nel 1532;
la Torre campanaria della fine del IX secolo;
 
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morgana1869
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Basilica di San Giovanni Battista (Monza)





La basilica di San Giovanni Battista era una chiesa di Monza, fondata dai Longobardi alla fine del VI secolo. Di essa rimangono pochi resti archeologici e soprattutto la descrizione tramite alcune fonti scritte; al suo posto è stato in seguito eretto, tra il XIII ed il XIV secolo, l'attuale Duomo di Monza.





Storia

La chiesa fu fondata intorno al 595 dalla regina Teodolinda come cappella palatina del Palazzo Reale monzese, residenza estiva della corte longobarda. Secondo Paolo Diacono, la regina scelse Monza, già sede di un palazzo di Teodorico il Grande, perché attratta dal clima e dalla salubrità del borgo; vi consacrò quindi l'edificio, che dotò di «molti oggetti d'oro e d'argento» e «di terre». La basilica era certamente già consacrata nel 603, quando l'abate Secondo di Non vi celebrò il battesimo del figlio di Teodolinda e Agilulfo, Adaloaldo.

Nel 652 accolse le spoglie di re Rotari. La basilica rivestì anche un importante ruolo simbolico e sacro nell'immaginario longobardo, legata a diverse leggende. Paolo Diacono riferisce di una visione avuta dal figlio e successore di Rotari, Rodoaldo: a causa della sua empietà - aveva profanato la tomba del padre per invidia e per sottrarne i tesori - fu visitato in sogno da Giovanni Battista in persona, che gli interdì l'ingresso nella basilica. Da allora, ogni volta che Rodoaldo tentò di varcare la soglia della chiesa, una forza misteriosa lo colpì alla gola e lo rigettò indietro. La basilica venne anche ricordata nella profezia comunicata, ai tempi di Grimoaldo, da un eremita all'imperatore bizantino Costante II, che mirava alla riconquista dell'Italia: il monaco lo informò infatti che i Longobardi erano invincibili poiché protetti da san Giovanni, proprio grazie alla decisione di Teodolinda di costruire la basilica in suo onore.

La medesima profezia prediceva la rovina dei Longobardi, quando la devozione verso il santo e la sua basilica sarebbe venuta meno. E infatti Paolo Diacono, che compose la sua Historia Langobardorum dopo la caduta del Regno longobardo, constatò:

(LA)
« Quod nos ita factum esse probavimus, qui ante Langobardorum perditionem eandem beati Iohannis basilicam, quae utique in loco qui Modicia dicitur est constituta, per viles personas ordinari conspeximus, ita ut indignis et adulteris non pro vitae merito, sed praemiorum datione, isdem locus venerabilis largiretur » (IT)
« E questo fatto noi l'abbiamo visto avverarsi, noi che, prima della rovina dei Longobardi, abbiamo veduto la chiesa del beato Giovanni, che è posta nella località di Monza, amministrata da persone vili, al punto che quel luogo venerabile era concesso a indegni e ad adulteri, non per i meriti di vita, ma per i donativi pagati »
(Paolo Diacono, Historia Langobardorum, V, 6)

L'edificio è stato distrutto tra XIII e XIV secolo insieme all'attiguo Palazzo Reale, per far posto all'attuale Duomo di Monza.

Architettura


Della costruzione longobarda sono rimasti soltanto pochi materiali edilizi; fonti scritte testimoniano tuttavia che la basilica era a tre navate ed era preceduta da un atrio quadriportico..

Scavi archeologici sembrano confermare che l'antica basilica longobarda fosse nella metà orientale dell'attuale duomo, con probabile pianta triabsidata cruciforme

Del periodo longobardo sono tuttora visibili due lastre marmoree scolpite a graffito incastrate nella facciata e una torre ad est della sacrestia, alta più di venti metri e che fu usata come campanile fino al 1606. Nel Museo del Duomo sono anche conservate tegole del tempio.

Lavori eseguiti nel 1988 ai piedi della Cappella di San Giovanni decollato hanno consentito di ritrovare una lastra marmorea riutilizzata per il pavimento. La lastra era probabilmente la base o il piano di un altare alto medievale e presenta cinque incavi con residui di piombo fuso: ai quattro angoli erano la sede di pilastrini di sostegno, mentre l'incavo centrale conteneva forse un reliquiario. È probabile che la lastra, oggi conservata nel chiostrino del Museo del Duomo, appartenesse all'altar maggiore dell'Oraculum di Teodolinda.


Basilica di San Giovanni Battista (Pavia)



Storia

La chiesa fu eretta nella capitale del Regno longobardo nella prima metà del VII secolo - la data precisa è incerta; potrebbe risalire agli ultimi anni del regno di Arioaldo (626-636) o ai primi di quello del suo successore, Rotari (636-652) - per iniziativa della regina Gundeperga, figlia di Agilulfo e Teodolinda e moglie prima di Arioaldo, e poi di Rotari. Secondo Paolo Diacono, Gundeperga decise l'opera per imitazione di quanto fatto dalla madre a Monza, con la fondazione di una chiesa ugualmente intitolata a san Giovanni Battista, protettore particolare dei Longobardi. La nuova basilica pavese fu riccamente adornata dalla sovrana, che vi sarebbe poi stata sepolta, «con oro, argento e paramenti». La costruzione di una basilica cattolica di tale importanza proprio nella capitale del regno testimonia la tolleranza dei sovrani ariani Adaloaldo e Rotari nei confronti del cattolicesimo, ancor prima della conversione della totalità dei Longobardi al credo romano.

Nel 689, durante le ultime fasi della guerra civile tra re Cuniperto e l'usurpatore Alachis, duca di Trento, il custode della basilica ticinese, Seno, tentò una mossa disperata per salvare la vita al suo sovrano, in procinto di scendere nella decisiva battaglia di Coronate, proponendogli di vestire la sua armatura e prendere il suo posto sul campo; il re cedette e il chierico fu ucciso dall'usurpatore, prima che questi a sua volta cadesse per mano dell'esercito condotto dallo stesso Cuniperto, accorso in battaglia. Seno fu seppellito con grande onore davanti alle porte delle basilica. È possibile che la chiesa abbia ospitato anche le spoglie di Rotari, anche se è più probabile che la «basilica di San Giovanni Battista» ricordata da Paolo Diacono sia da identificarsi con l'omonima basilica monzese.

Basilica di San Pietro in Ciel d'Oro






La basilica di San Pietro in Ciel d'Oro (in coelo aureo) è una basilica situata a Pavia, eretta in epoca longobarda (VIII secolo) e in seguito ricostruita in stile romanico (XII secolo).




Storia

La tradizione vuole che la basilica sia stata fondata dal re longobardo Liutprando per ospitare le spoglie di sant'Agostino, comprate in Sardegna da pirati saraceni, che le avevano trafugate da Ippona, attualmente in Algeria.

Da giovane studiò e si formò come monaco Paolo Diacono, storico e poeta dei Longobardi.

Dopo il 1000, in epoca comunale i monaci lasciarono il cenobio pavese a causa dei disordini e si trasferirono sull'Appennino ligure, dando vita al monastero di Pietramartina di Rezzoaglio; a Pavia rimasero attive due chiese dedicate al santo irlandese Colombano fino al XVI secolo.

Come gran parte delle chiese pavesi, fu ricostruita in epoca romanica, alla fine del XII secolo. Si trovava nella parte nord del centro storico, all'interno di una zona chiamata Cittadella, cinta da mura, che serviva per attività militari (la zona si trova molto vicina al Castello Visconteo). Il nome della basilica è dovuto al fatto che le volte erano affrescate di blu e ricoperte di stelle in foglia d'oro. Ai lati della chiesa si trovavano due conventi; quello a nord era occupato dai canonici lateranensi, quello a sud dai monaci agostiniani.

Nel 1796 le truppe al seguito di Napoleone Bonaparte entrarono in città e spogliarono la chiesa, che fu sconsacrata e usata come stalla o deposito, mentre i frati venivano cacciati ed i conventi affidati ai militari. L'Ottocento fu deleterio per l'edificio: la navata destra fu abbattuta e l'aula rimase aperta all'esterno, con gravissimi danni per gli affreschi sopravvissuti. Di fronte a questo stato, la "Società Pavese per l'arte Sacra" trattò con l'esercito il riacquisto della basilica e dell'antico convento degli agostiniani, avvenuto nel 1884. I lavori di restauro durarono molti anni e si conclusero nel 1901, con la riconsacrazione della basilica. Le spoglie di sant'Agostino, che erano state trasferite nel Duomo, furono riportate nella chiesa, assieme all'arca trecentesca destinata ad accoglierle. Attualmente, la chiesa è officiata dai monaci agostiniani, che sono tornati ad occupare l'antico convento.


Architettura


Della chiesa longobarda rimangono pochissimi resti, nascosti sotto la ricostruzione romanica. San Pietro in Ciel d'Oro si presenta, così, come molte altre chiese pavesi dell'epoca: un edificio in mattoni, a tre navate con transetto, abside e cripta.

La facciata a capanna è scandita da due contrafforti che la dividono in tre zone, corrispondenti alle navate interne; il contrafforte di destra, più spesso, ospita una scala interna che permette di accedere al tetto. La sommità è coronata da una loggetta cieca e da un motivo ad archi intrecciati. La pietra (arenaria) è usata solo per le parti più importanti, come il portale, le finestrelle e gli occhi di bue. Lungo i contrafforti si notano le tracce di un antico nartece, o forse di un quadriportico, che precedeva l'ingresso alla chiesa.

L'interno è scandito da quattro campate, coperte da volte a crociera (tranne la prima, coperta da una volta a botte). Dopo l'arco trionfale, si apre il transetto, che, contrariamente a quello di San Michele Maggiore non sporge rispetto al corpo principale, ma occupa la profondità delle tre navate. Sia i due bracci del transetto che il presbiterio sono chiusi, ad est, da absidi; il catino di quella centrale, più grande delle altre due, è decorato da un affresco novecentesco, che riprende un antico mosaico, distrutto nel 1796.

La cripta occupa lo spazio del presbiterio e del coro ed è collegata alla navata principale ed alle due laterali da quattro scale; è un ambiente semplice, chiuso ad est da un'abside, scandito da colonne che reggono volte a crociera, le quali sostengono, a loro volta, il pavimento dei due ambienti superiori. Sia la cripta che la navata destra non sono originali, ma sono rifacimenti in stile del tardo Ottocento.

Nel presbiterio, prima del coro, si trova l'Arca di Sant'Agostino, un capolavoro marmoreo del Trecento, scolpito dai maestri comacini. Si tratta di un'opera gotica, divisa in tre fasce: in basso, uno zoccolo contenente l'urna con i resti del santo; al centro, una fascia aperta, con la statua di Sant'Agostino dormiente e, in alto, l'ultima fascia, poggiata su pilastrini e coronata da cuspidi triangolari. L'intera opera è decorata da più di 150 statue, che raffigurano angeli, santi, e vescovi, e da formelle con la vita del santo.

Oltre a quella di sant'Agostino, la chiesa ospita le tombe del mercenario condottiero Facino Cane, di Severino Boezio nella cripta, e di Liutprando, alla base dell'ultimo pilastro della navata destra.

Della presenza del corpo di Boezio presso San Pietro in Ciel d'Oro tratta Dante nel canto X del Paradiso, ove si trova scritto:

« Lo corpo ond’ella fu cacciata giace
giuso in Cieldauro; ed essa da martiro e da esilio venne a questa pace »



Basilica di Sant'Ambrogio (Pavia)








La basilica di Sant'Ambrogio (basilica beati Ambrosii confessoris) era una basilica di Pavia, fondata dal re dei Longobardi Grimoaldo nel VII secolo e ora distrutta.





Storia

Fu fondata a Pavia, capitale del Regno longobardo, da re Grimoaldo poco prima ("dudum") della sua morte, avvenuta nel 671, e accolse la sepoltura dello stesso sovrano. La fondazione di una basilica intitolata a sant'Ambrogio, duro oppositore dell'arianesimo, da parte di un sovrano ariano come Grimoaldo suscita problemi storiografici; sebbene sia stata avanzata l'ipotesi di una conversione del re al cattolicesimo negli ultimi anni di regno, l'assenza di altre conferme e il fatto stesso che Paolo Diacono, sempre attento a esaltare - quando possibile - la fede cattolica dei suoi re, non dica nulla di esplicito a tale proposito inducono la storiografia a estrema prudenza

Architettura

A Pavia esistettero due chiese intitolate a sant'Ambrogio: Sant'Ambogio Maggiore o "de Curti Archiepiscopi e Sant'Ambrogio Minore. La prima sorgeva nel rione di Porta San Pietro al Muro, mentre la seconda era presso la basilica di San Michele Maggiore. Non è chiaro a quale delle due corrispondesse l'edificio di fondazione longobarda: anche se maggioritaria è l'identificazione con Sant'Ambrogio Minore, non sono mancate ricostruzioni che privilegiavano invece Sant'Ambrogio Maggiore.
 
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morgana1869
view post Posted on 3/5/2013, 07:13     +1   -1




Casa del Senato




La Casa del Senato, noto anche come Palazzo Longobardo, è un edificio storico di Torino, uno dei pochi di epoca medievale. Di grande interesse documentario, è uno degli edifici abitati più antichi della città.


Cenni storici

Costruito con molta probabilità su un preesistente edificio pubblico di epoca romana, o comunque con materiale di quell'epoca, si presume sia stato sede dei duchi torinesi durante la dominazione longobarda. In seguito è stato sede della Vicarìa, insieme alla casaforte di Porta Fibellona[4]. Nel corso dei secoli ha subito notevoli rimaneggiamenti e, dagli scavi diretti da Riccardo Brayda nel corso del restauro del 1890, si è potuto constatare che l'edificio era probabilmente dotato di una torre merlata angolare di epoca medievale, oggi scomparsa. A seguito dei danni riportati a causa dei bombardamenti dell'ultimo conflitto mondiale, gli spazi interni sono stati quasi completamente ricostruiti, mantenendo la sola facciata. Nel 2011, dopo decenni di degrado, il palazzo è nuovamente interessato da un serio progetto di restauro da parte della Soprintendenza ai Beni Architettonici e per il Paesaggio.

Descrizione

Ubicato tra l'antica piazza delle Erbe (oggi piazza Palazzo di Città) e il Duomo, l'edificio sorge nel cuore medievale di Torino. Dell'impianto originario della costruzione, si possono ancora notare la base in pietra e tracce delle tipiche finestre ogivali, sostituite nel XVI secolo da più ampie finestre a crociera in cotto. Tali elementi architettonici furono riportati alla luce da Riccardo Brayda a fine Ottocento, nell'ambito del progetto di rivalutazione delle antichità della città. L'edificio, con i suoi quattro piani fuori terra, è particolarmente alto per l'epoca a cui risale e questo è un'ulteriore conferma del ruolo istituzionale che ricoprì in epoca medievale e, probabilmente, dell'importanza del precedente edificio romano; il quarto piano, tuttavia, è stato aggiunto in epoca seicentesca. Essendo stato sede della Vicarìa, l'edificio conserva ancora profonde segrete nei tre piani sotterranei, l'ultimo del quale è accessibile soltanto tramite alcune botole. Un graduale decadimento e ulteriori rimaneggiamenti, come ad esempio le aperture al livello stradale, sono stati operati nel corso del Novecento per ospitare locali commerciali oggi dismessi.

Il restauro

Dopo decenni di incuria e già gravemente danneggiato dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, la Soprintendenza ai Beni Architettonici e per il Paesaggio ha deciso l'intervento di recupero di questo edificio, che rappresenta una delle poche testimonianze medievali della città; il cantiere è stato allestito nel novembre del 2011. Gli interventi si concentreranno sul necessario recupero e consolidamento della facciata cinquecentesca ma è previsto anche l'inserimento di una torre in corrispondenza dell'angolo con via Conte Verde, come richiamo alla precedente torre merlata, ormai scomparsa.


Chiesa di Santa Maria in Pertica








La chiesa di Santa Maria in Pertica (Sancta Maria ad Perticas) era una chiesa di Pavia, fondata dai Longobardi nel VII secolo e ora distrutta. È nota solo attraverso scavi, ricostruzioni e da alcuni disegni; tra questi, uno schizzo della pianta di Leonardo da Vinci e una dettagliata incisione settecentesca.




Storia

Fondata nel 677, quando Pavia era la capitale del Regno longobardo, dalla regina Rodelinda, era una delle architetture più interessanti della città. Presso la chiesa avvennero anche incoronazioni regie, come quella di Ildebrando nel 735. La chiesa sorgeva nel luogo di un antico sepolcreto longobardo caratterizzato dalla presenza di perticae, aste sormontate da immagini di uccelli di origine pagana, esempio quindi di sincretismo o sintesi religiosa attraverso il riutilizzo in chiave cristiana di un luogo sacro pagano.

Architettura

La chiesa aveva una pianta circolare con un deambulatorio che formava un anello delimitato da sei colonne. Il corpo centrale, a differenza delle basiliche a pianta rotonda di Bisanzio o di Ravenna (per esempio, San Vitale), era estremamente slanciato. Pare che la chiesa fece da modello per architetture successiva come la Cappella Palatina di Aquisgrana o la chiesa di Santa Sofia a Benevento.

L'incisione settecentesca, realizzata dall'architetto Veneroni su incarico del marchese Pio Bellisoni, «ci dà un'idea del monumento e degli edifici annessi nel 1772, cioè poco prima della distruzione, ma ce lo presenta profondamente trasformato con un'altissima cupola sostenuta da sei colonne, una specie di ambulacro, un grande presbiterio, ed un lungo corridoio d’ingresso senza ornamenti di sorta».
 
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morgana1869
view post Posted on 3/5/2013, 07:51     +1   -1




Chiuse longobarde




Le Chiuse longobarde erano uno dei sistemi di fortificazione che in epoca antica furono realizzati all'imbocco delle valli alpine allo scopo di impedire l'invasione della Pianura padana da parte delle popolazioni del resto d'Europa.

Ereditate e consolidate dai Longobardi, le Chiuse longobarde situate allo sbocco della Val di Susa sono diventate celebri per la battaglia che vi fu vinta da Carlo Magno, all'inizio della sua campagna d'Italia, contro il re longobardo Desiderio nel 773, ripresa da Alessandro Manzoni nell'Adelchi (atto II, scena III). Una lapide a ricordo dell'evento è stata posta al centro del cosiddetto "Castello del Conte Verde", nel comune di Condove (Torino). Secondo la leggenda, Carlo Magno vi sarebbe giunto seguendo il cosiddetto "Sentiero dei Franchi", su cui sarebbe stato poi impostato l'attuale sentiero escursionistico.

Le chiuse alpine (in latino: Clusae) solo in rari casi erano vere muraglie in pietra: più spesso si trattava di insiemi di strutture difensive minori, disposte in modo da rafforzare gli ostacoli naturali già esistenti.

Archeologia


|Il comune di Chiusa di San Michele è stato da sempre identificato come territorio sede delle fortificazioni. Il motivo è da ascrivere alla conformazione orografica della Val di Susa, che qui presenta uno dei punti più stretti del suo tratto iniziale, precisamente quello lungo la linea immaginaria con orientamento sud-nord che va dalla frazione Borgo Pracchio di Chiusa di San Michele sul versante sud della valle, alla zona del Castello del Conte Verde in comune di Condove sul versante nord della valle.

Se tradizionalmente venivano lette come longobarde alcune mura costruite lungo il rio Pracchio di Chiusa di San Michele, la cui origine non è però meglio precisata, una costruzione sempre posta lungo tale linea immaginaria, ma nei pressi della centrale piazza della Repubblica, ha sollevato gli interrogativi degli archeologi. Nell'ambiente sottostante a una cappella sconsacrata, detta di San Giuseppe, sono state rinvenute mura antiche, di incerta datazione, ma che possono far pensare a una fortificazione altomedioevale, si ipotizza una torre con quattro torrette angolari. Si tratta di un ambiente quadrato, con ai quattro angoli smussature che fanno pensare a piccole torrette di due metri di diametro.


Complesso episcopale del patriarca Callisto




Il complesso episcopale del patriarca Callisto sorgeva a Cividale del Friuli (Udine) e costituiva il principale complesso religioso della capitale dell'importante Ducato del Friuli. L'insieme fa parte del sito seriale "Longobardi in Italia: i luoghi del potere", comprendente sette luoghi densi di testimonianze architettoniche, pittoriche e scultoree dell'arte longobarda, inscritto alla Lista dei patrimoni dell'umanità dell'Unesco nel giugno 2011.

Storia

Il complesso fu edificato al tempo del patriarca Callisto, che nel 737 aveva spostato la sede episcopale da Cormons a Cividale, e comprendeva la basilica, il Battistero di San Giovanni Battista e il Palazzo patriarcale. Gli scavi archeologici hanno restituito solo poche tracce delle opere architettoniche, ma hanno consentito di recuperare alcuni tra i manufatti più raffinati della scultura longobarda, come il Fonte battesimale del patriarca Callisto e l'Altare del duca Rachis.

I resti del battistero furono riportati alla luce agli inizi del XX secolo, sotto l'attuale duomo cinquecentesco, mentre i resti del palazzo si trovano al di sotto del palladiano Palazzo dei Provveditori veneti, oggi sede del Museo archeologico nazionale.


Castello ducale di Bisaccia







Il Castello ducale di Bisaccia è il castello federiciano di Bisaccia, paesino in provincia di Avellino; si trova a pochi passi dalla cattedrale. Fu costruito dai Longobardi intorno alla seconda metà dell'VIII secolo. Distrutto dal sisma del 1198 il maniero fu ricostruito verso la fine del XIII secolo da Federico II di Svevia. Ai tempi di Federico II il feudo apparteneva a Riccardo di Bisaccia. Nel XVI secolo fu trasformato in residenza signorile.
Descrizione

Sul portone c'è lo stemma della famiglia Pignatelli d'Egurant che tenne il castello dalla fine del XVI agli inizi del XIX secolo. La struttura muraria è costituita da grossi ciottoli fluviali misti a blocchi di calcare squadrati e malta durissima. Nel castello sono presenti una cisterna con depuratore e tubi fittili, per il deflusso delle acque, una torre alta 12 metri e larga 8 metri e le rovine di una piccola chiesa absidata. Le stanze del castello sono 42.


Storicamente il castello di Bisaccia era uno strategicamente importante bastione di controllo, che faceva parte di una linea difensiva che aveva la funzione di proteggere i territori della Puglia occidentale e settentrionale. Questa linea di difesa, che correva lungo la via Appia e la Via Traiana e di cui facevano parte, oltre alla fortezza di Bisaccia, quella di Sant'Agata di Puglia e quella di Ariano Irpino, fu opera del catapano bizantino Basilio Boioanne, che la realizzò nel corso della sua riorganizzazione amministrativa della "Capitanata occidentale". Il castello di Bisaccia in quell'epoca si chiamava castrum Byzacium o Byzantii ed era un avamposto difensivo bizantino.


I Normanni

I primi documenti che attestano l'esistenza del castello sono di epoca normanna, anche se già i Longobardi intorno alla seconda metà dell'VIII secolo avevano costruito una primitiva fortezza.

Sotto i Normanni Bisaccia divenne un feudo governato da un feudatario. I feudatari vincolavano al feudo i contadini, che venivano venduti insieme al feudo (i cosiddetti servi della gleba). Vi erano due tipi di patti agrari tra feudatario e contadino:
1.le concessioni enfiteutiche erano dei patti in cui il contadino riceveva un pezzo di terreno da coltivare e in cambio doveva pagare un canone annuo.
2.il pastinato era invece un altro tipo di patto che differiva dalle concessioni enfiteutiche per il fatto che i contadini pagavano il canone solo se il feudo era pienamente produttivo. Al termine del contratto il feudo veniva diviso tra il proprietario e il coltivatore oppure il contadino riotteneva la concessione alle condizioni pattuite.

A Bisaccia veniva praticato il pastinato, che diede tra l'altro il nome a una frazione di Bisaccia, Pastina. Il pastinato fece sì che il castello di Bisaccia divenisse un centro di popolamento intorno al quale sorgevano nuove abitazioni, favorendo tra l'altro la diffusione della piccola proprietà contadina.

Nel 1198 un potente sisma distrusse il castello. In seguito al matrimonio tra la regina dei normanni Costanza d'Altavilla e l'imperatore Enrico VI, le corone di Sicilia e del Sacro Romano Impero vennero unificate nelle mani di Federico II, re di Sicilia e Sacro Romano Imperatore.

Ricostruzione del castello ad opera di Federico II

Nel 1246 il Signore di Bisaccia Riccardo I venne privato del suo feudo dall'Imperatore Federico II in quanto reo di congiura. Federico II ricostruì il castello usato anche come prigione.

Federico II visitò Bisaccia nel 1250, come risulta dalla Historia Diplomatica Friderica II:

« 28 junii [1250].
In campis prope Bisacciam.
Fratri Benedicto procuratori honorum quondam Petri De Vinea proditoris mandat quod monasterio cassinensi restituat quamdam petiam terrae quam Nicolaus Rufulus dudum magister camerarius Terrae laboris eidem monasterio resignaverat »
(Historia Diplomatica Friderica Secundi, p. 435.)

Secondo la tradizione locale, Federico II usava il castello di Bisaccia come residenza di caccia: nei suoi pressi, infatti, vi era il Formicoso, colle ribattezzato da Federico II "Monte Sano" ("Mons Sanum"), dove, a quanto pare, l'Imperatore svevo praticava la caccia del falcone. Sarebbe stato inoltre sede saltuaria della scuola poetica siciliana.

Nel 1254 il castello di Bisaccia fu proprio il luogo dove l'Imperatore Manfredi, figlio di Federico II e braccato dall'esercito del Papa, si rifugiò e si salvò. Morto Manfredi nella battaglia di Benevento (1266), Riccardo II riottenne Bisaccia in quanto avolo del Riccardo I cospiratore contro Federico II.

Il castello di Bisaccia sotto gli Angioini e gli Aragonesi (1266-1503)

Il feudo passò a Guglielmo di Cotignì, alla morte del quale il figlio Ruggiero ereditò il feudo ma, essendo ancora minorenne, venne affidato a vari tutori: Pietro de Narra (marito della sorella), Francesco di Montefusco, Nicola di Gesualdo. Diventato maggiorenne (1294) Ruggiero ottenne pieno potere.

Nel frattempo nel 1282 la Sicilia si era rivoltata (vespri siciliani) e si liberò dal giogo angioino passando agli Aragonesi. Gli Aragonesi si impadronirono in seguito anche del regno di Napoli, Bisaccia compresa. Nel 1419 il castello apparteneva ad Albanese Picciolo. Il suo successore, Giacomo Della Marra, si ribellò alla corona: fallì e venne punito con la perdita del feudo. Il feudo e il castello vennero assegnati dai sovrani aragonesi al capitano di ventura Giacomo Piccinino. L'8 settembre 1462 il re Ferrante I d'Aragona, saputo che Giacomo Piccinino era passato dalla parte del nemico (il duca Giovanni d'Angiò) donò il feudo di Bisaccia a Pirro del Balzo, duca di Venosa.

Periodo spagnolo (1503-1707)

Nel 1503 Bisaccia divenne dominio spagnolo. Il 6 giugno 1504 Bisaccia, che era di proprietà reale (Federico d'Aragona aveva infatti sposato la proprietaria del feudo, Isabella del Balzo), venne venduta a Niccolò Maria De Somma. Nel 1518, morto De Somma senza eredi, il castello e il feudo di Bisaccia passò alla regia corte che assegnò il feudo al milite Giuliano Buccino. Il 29 luglio 1532 il feudo venne ceduto, per i servigi resi alla corona, ad Alfonso Avalos de Aquino, marchese del Vasto.

Nel 1533 il castello venne venduto per 3500 ducati a Giovan Battista Manso. Nel 1567 il feudo passò a Giulio Manso che morì nel 1571, lasciando il feudo al figlio minorenne Giovanni Battista Manso II sotto la tutela dell'ava Laura Manso. Quest'ultima, trovatesi in difficoltà economiche per i debiti accumulati dal nipote, fu costretta a vendere all'asta (1571) il feudo di Cuculo (Cuccari). A Gian Battista rimase comunque il castello, nel quale ospitò nel 1588 l'amico Torquato Tasso; come il Tasso, anche Gian Battista era un letterato, anche se di minor successo
.

Torquato Tasso a Bisaccia

Verso la fine del 500' il castello di Bisaccia apparteneva a Giovan Battista Manso, amico del celebre poeta Torquato Tasso. Quest'ultimo, giunto a Napoli, si lasciò prendere dalla malinconia per le sue precarie condizioni di salute e per le ristretezze economiche a cui si aggiunsero le polemiche letterarie religiose sulla Gerusalemme liberata da parte dei pedanti. Fu così che accettò l'invito dell'amico G.B. Manso di accompagnarlo nel suo feudo di Bisaccia, dove poteva acchetarvi alcune discordie sorte tra quei suoi vassalli (cap. IV della Vita). A Bisaccia, dove si trattenne per il mese di ottobre e novembre 1588 il Tasso trovò grandissimo sollievo e, come si apprende da una lettera di Manso al principe di Conca, si diede alla caccia, mentre, quando le condizioni del tempo erano cattive, passava lunghe ore udendo suonare e cantare.

E poiché il Tasso credeva nell'esistenza degli spiriti, il conte di Bisaccia lo persuase di averne a familiare uno; questo spirito amoroso come racconta il Tasso nel dialogo Il messaggero, che lo visitava nei suoi sogni, gli appariva sotto la figura di un giovanetto dagli occhi azzurri, simili a quelli che Omero alla dea d'Atene attribuisce.

La permanenza del Tasso a Bisaccia è ricordata in un dipinto di Bernardo Celentano e nei versi di una poesia di Luigi Conforti; e Armando Ciollaro, in un articolo pubblicato sul Roma, propose che i già citati versi venissero scritti sulla facciata del castello. Il famoso critico letterario Francesco De Sanctis, che aveva visitato il castello di Bisaccia e ammirato il panorama da una finestra, scrisse:

« [...] E mi fermai in una [stanza] che aveva una vista infinita di selve e di monti e di nevi sotto un cielo grigio. Povero tasso! pensai; anche nella tua anima il cielo era fatto grigio. Che vale bella vista quando entro è scuro? »
(Francesco De Sanctis)

Ducato di Bisaccia

Nel 1600 il re Filippo II di Spagna elevò a ducato Bisaccia per i meriti di Ascanio Pignatelli (primo duca di Bisaccia) e i servigi resi alla corona da suo padre Scipione, marchese di Lauro.

Elenco dei duchi di Bisaccia nel periodo spagnolo
1600-1601: Ascanio Pignatelli
1601-1645: Francesco Pignatelli
1645-1681: Carlo Pignatelli
1681-1719: Francesco Pignatelli (II)

I Pignatelli soggiornavano nel castello di Bisaccia, la loro residenza signorile. Il terremoto del 1690 semidistrusse il castello, ma i danni vennero riparati.

Periodo austriaco e borbonico (1707-1805)

Con la pace di Ulthrecht, il regno di Napoli passò agli austriaci.

Sotto la dominazione austriaca, furono duchi di Bisaccia (oltre a Francesco):
Procopio Pignatelli (1719-1743)

Tra il 1731 e il 1739 l'Austria fu coinvolta nella guerra di successione polacca. Nel 1734, con la battaglia di Bitonto, i Regni di Napoli e Sicilia ritornano formalmente indipendenti, dopo oltre due secoli di dominazione politica prima spagnola e poi austriaca. Sul trono di Napoli e Sicilia si insediarono i Borboni.

In questo periodo furono duchi:
Procopio Pignatelli (1719-1743)
Guido Felice Pignatelli (1743-1755)
Casimiro Pignatelli (1755-1802)
Giovanni Armando Pignatelli (1802-1809)

Nel 1769, dopo un terribile incendio, il castello venne via via abbandonato dai nobili feudatari. Molte stanze danneggiate dall'incendio non vennero riparate. Verso la fine del XVIII secolo il duca di Bisaccia concesse ai cittadini del luogo di costruire nuove abitazioni nel terreno occupato dal fossato.

L'eversione del feudalesimo


Dopo la vittoria di Austerlitz del 2 dicembre 1805, l'imperatore francese Napoleone Bonaparte promosse l'occupazione del napoletano, condotta con successo dal Gouvion-Saint Cyr e dal Reynier, e dichiarò quindi decaduta la dinastia borbonica. L'imperatore dei francesi nominò quindi il fratello Giuseppe Re di Napoli. Sotto un'amministrazione prevalentemente straniera, composta dal còrso Cristoforo Saliceti, Andrea Miot e Pier Luigi Roederer, furono tentate e attuate, riforme radicali quali l'abolizione del feudalesimo.

« La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque che vi siano stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili. »
(legge di eversione della feudalità del 2 agosto 1806.)

Con questa legge, secondo il prof Bevilacqua, «d'un colpo, l'intera giurisdizione che per secoli aveva attribuito ai baroni un potere quasi assoluto su uomini, terre, castelli, città, fiumi, strade, mulini venne cancellata. In virtù di essa i feudatari, privati degli antichi diritti speciali sulle popolazioni, furono trasformati in semplici proprietari dei loro possedimenti, mentre tutte le altre realtà territoriali, non più sottoposte a usi o a prerogative particolari, vennero a cadere sotto la legge comune del nuovo stato.»

L'8 marzo 1809, l'ottavo duca di Bisaccia Giovanni Armando Pignatelli morì senza lasciare eredi; il feudo e il titolo di duca di Bisaccia vennero quindi devoluti alla corte regia.

I La Rochefoucauld

Nel 1815, con la sconfitta di Napoleone e di Gioacchino Murat, i Borbone tornarono sul trono di Napoli. Il titolo di duca di Bisaccia, rimasto vacante per circa un quarantennio, venne assegnato, il 16 maggio 1851, a un lontano parente del re di Napoli Ferdinando II: Carlo Maria Sosthènes de la Rochefoucauld-Doudeauville.

Nel 1860 il generale sabaudo Giuseppe Garibaldi conquistò il Regno delle due Sicilie, e dunque Bisaccia, che fu annesso al Regno di Sardegna, che poi nel 1861 cambiò nome in Regno d'Italia.

Il terremoto del 1910 danneggiò il castello:

« La stabilità del castello ha sofferto alquanto i danni del terremoto e si notano vari segni di deperimento, la vecchia torre quadrata, di m 7,90 di lato è ridotta ora a circa 75 m di altezza, presenta uno strapiombo verso ponente del 4%, avendo notato nei primi quattro metri un allontanamento dalla verticale presso la base di 6 centimetri e per tutta l'altezza di circa 60 cm. Essa presenta varie lesioni verticali sulle quattro facce del prisma, molte pietre sono sconnesse e slegate: in peggiori condizioni trovansi le facce a sud ed est. Nel resto tutto il fabbricato è stato lievemente dissestato. Tutti i muri sono attraversati da lesioni verticali o leggermente oblique, più appariscenti negli attacchi dei muri trasversali con i longitu¬dinali e sulle piattabande dei vani di luce e di porta, con distacco dei pavimenti e dei soffitti di legno. In peggiori condizioni tro¬vasi il muro a sud, dove lo strapiombo raggiunge il 2% circa ed il distacco del pa¬vimento un centimetro. Nella sala da pran¬zo e nel salone sono più sensibili i distac¬chi, meno nell'anticucina dove il corpo avanzato della cucina fa da contrafforte. Il pavimento del salone è lievemente ribassato verso il muro a sud.
In eguali condizioni trovasi la parte nord del fabbricato, dove però le lesioni sono più appariscenti a causa dei soffitti ad incannucciate, cui aderisce poco l'intonaco. L'alloggio nuovo, a piano superiore, presenta le medesime lesioni degli ambienti a sud ed ha pure bisogno di restauro il corridoio sul portone d'ingresso.

Il muro del rivestimento della scarpata del castello trovasi in buone condizioni: occorrono lievi riparazioni presso la grondàia del muro a nord e sulla faccia ad ovest. Occorre invece demolire perché pericolante il resto della loggetta (metri sette, circa), prospiciente ad ovest e ricostruire saltuariamente i parapetti del giardino e dell'orticello »


L'11º duca di Bisaccia Edouard François Marie de La Rochefoucauld (Parigi, 4 febbraio 1874 - 8 febbraio 1968) vendette il castello nel 1956. L'attuale 15º duca di Bisaccia è suo nipote Armand-Sosthènes de La Rochefoucauld, duca di Doudeauville, duca di Estrées e duca di Bisaccia (1944-oggi).

Attualmente il castello ducale è di proprietà del comune (dal 1977) che lo utilizza per varie mostre e eventi; ultimamente è stato inaugurato al suo interno il Museo civico archeologico di Bisaccia che mostra vari reperti archeologici tra cui quelli della tomba della principessa.
 
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