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Abbiamo spedito James Webb, il più grande telescopio mai costruito, nello spazio: ecco come trasformerà l'astrofisica

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view post Posted on 25/12/2021, 19:06     +1   -1
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Guardiano del male

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Dopo vent'anni di gestazione, alle 13:20 il telescopio spaziale più complesso mai realizzato è decollato dalla Guyana Francese. Abbiamo chiesto perché rivoluzionerà la conoscenza dell'Universo all'astrofisica Patrizia Caraveo, premio “Enrico Fermi” 2021


James Webb Space Telescope è partito. Dopo tre rinvii negli ultimi dieci giorni e più di vent’anni di attesa, oggi, sabato 25 dicembre, quando in Italia erano le 13:20, il più grosso e complesso telescopio spaziale mai costruito si è staccato dalla sua rampa di lancio a Kourou, in Guyana Francese, ed è stato spinto oltre l’atmosfera da un razzo Ariane 5 Eca. In questo momento, In questo momento, galleggia verso la sua destinazione operativa, il punto lagrangiano L2, a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra.

James Webb Space Telescope, che gli addetti ai lavori chiamano, non senza polemiche, Jwst, ha solo iniziato un viaggio lungo e rischioso, che nei prossimi sei mesi potrebbe fallire in ogni momento. Un viaggio, però, che promette di inaugurare una nuova era dell’astrofisica e della nostra conoscenza dell’Universo. Dopo aver dispiegato le sue componenti in orbita e averle collaudate, James Webb comincerà infatti a guardare a oltre 13 miliardi di anni luce da noi, nel tentativo di spiegare uno dei misteri irrisolti dell’astrofisica moderna: capire come e quando la Via Lattea e le altre galassie si siano formate.

Progetto congiunto della Nasa, dell’Agenzia spaziale europea (Esa) e di quella canadese (Csa), James Webb è l’oggetto a esclusivo uso scientifico più costoso mai spedito oltre l’atmosfera: i suoi costi ammontano a 11,75 miliardi di dollari (calcolo dell’inflazione compreso) e il suo sviluppo ha attraversato due decenni.

Viste le sue dimensioni (simili a quelle di un campo da tennis), per essere lanciato il telescopio è stato ripiegato nell’ogiva dell’Ariane 5. Adesso comincerà ad aprire, come i petali di un fiore, le sue componenti (come raccontato qui, alcune con elementi costruiti da Leonardo, in Italia): il primo sarà il pannello solare, seguito dalle antenne e dai cinque strati dello scudo termico. Per ultimi saranno dispiegati lo specchio secondario e i sei segmenti laterali di quello primario, da 6,5 metri di diametro (due volte e mezzo quello di Hubble, la “rockstar” degli osservatori orbitanti), un’ampiezza che permetterà di raccogliere in tempi relativamente brevi i fotoni emessi anche dagli oggetti più lontani e meno luminosi. A quel punto, fra circa sei mesi, James Webb dovrebbe cominciare a inviare a Terra le prime immagini, da cui la comunità scientifica si aspetta una rivoluzione.

Dell’importanza della missione, abbiamo parlato con Patrizia Caraveo, dirigente di ricerca all’Istituto nazionale di astrofisica (l’Inaf), impiegata all’Istituto di astrofisica spaziale e fisica cosmica di Milano, premio “Enrico Fermi” 2021 e testimone della nascita del progetto Jwst, in cui fu coinvolta per conto dell’Esa fino al 2000.

Caraveo, James Webb Space Telescope aumenterà di oltre un fattore mille il numero delle galassie osservabili nel primo miliardo di anni di vita dell’Universo; quale attesa c'è, nella comunità scientifica, per i dati che spedirà a Terra?

“L’attesa è palpabile e le aspettative sono, letteralmente, alle stelle. Con il suo specchio di 6,5 metri di diametro, tenuto perennemente in ombra, e un piano focale raffreddato a temperature bassissime, Jwst sarà in grado di osservare nell’infrarosso vicino e lontano permettendoci di vedere i primi oggetti che si sono formati nell’Universo.

Conquistare l’infrarosso è una dura battaglia, ma è un passo fondamentale perché l’espansione dell’Universo, oltre ad “allungare” lo spazio, allunga la lunghezza d’onda della radiazione emessa dalle stelle e dalle galassie facendola scivolare dal visibile, dove naturalmente emettono le stelle, nell’infrarosso, una lunghezza d’onda più lunga del rosso, alla quale né i nostri occhi né i telescopi ottici (come Hubble, ndr) sono sensibili. Il processo di arrossamento, che gli astronomi chiamano redshift, è tanto maggiore quando più guardiamo indietro nel tempo, quando l’Universo aveva dimensioni molto più piccole di quello attuale. Nelle immagini più profonde del telescopio Hubble (il famoso Hubble Deep Field) si intravedono piccole macchie rossastre che pensiamo essere dovute alle prime galassie formatesi nell’Universo. Hubble, però, si ferma al rosso mentre Jwst le potrà osservare in infrarosso e sarà in numero molto maggiore. Mappare, quindi poter studiare, e come auspicabile capire, come si sono formate le prime strutture dell’Universo, qualche centinaio di milioni di anni dopo il big bang, è un sogno che i cosmologi inseguono da decenni”.

I primi 26 minuti della missione, il vero e proprio lancio, non ne hanno esaurito i rischi, che continueranno per i prossimi mesi: quali saranno le fasi più rischiose e perché?

“Nei primi 29 giorni di missione, mentre il satellite è in viaggio per raggiungere il suo punto di lavoro a un milione e mezzo di chilometri da noi, bisognerà aprire il telescopio, che è stato ripiegato con ogni cura per essere inserito nell’ogiva di Ariane 5. È la procedura più complicata mai fatta nello spazio: si tratta di una sequenza di 344 manovre, ognuna delle quali è considerata un single point failure. Nessuna può essere sbagliata.

Bisognerà anzitutto dispiegare l’antenna, per permettere le comunicazioni con il centro di controllo, poi si aprirà la struttura che deve reggere il parasole grande come un campo da tennis e, di seguito, i suoi vari strati, composti di un materiale plastico speciale. Sarà quindi la volta del telescopio, che deve aprirsi e posizionare i suoi 18 esagoni di berillio ricoperto d’oro con altissima precisione. A questo punto James Webb Space Telescope sarà arrivato a destinazione, in L2, un punto dove la combinazione delle forze in gioco lo lascerà indisturbato a svolgere il suo lavoro. Una volta finite le 344 manovre di dispiegamento, occorrerà mettere alla prova gli strumenti durante una fase di calibrazione e test che durerà circa sei mesi.

Dopo potrà iniziare il programma di osservazione, che partirà con la fase chiamata “Ers”, cioè “Early Release Science”, che servirà a fare apprezzare da tutta la comunità astronomica le possibilità straordinarie offerte dall’osservatorio spaziale”.

Perché è importante studiare le prime le prime galassie e capire come si siano evolute?

“Perché ci sono ancora molti punti irrisolti. Sappiamo che nel centro di tutte le galassie risiede un buco nero supermassivo (intendo milioni, o perfino miliardi di masse solari), ma non abbiamo ancora capito come si formi. In altre parole, è nato prima il buco nero o la galassia?

Forse i buchi neri sono stati prodotti dal collasso di stelle supermassive formatesi all’inizio dell’Universo, oppure sono stati prodotti direttamente durante il big bang? Pensiamo poi siano cresciuti nel centro delle galassie inglobando materia, ma ancora non abbiamo prove. Contiamo su James Webb Space Telescope per chiarirci le idee e speriamo ci permetta di vedere anche le esplosioni delle prime stelle, che erano certamente diverse da quelle che studiamo nella nostra galassia per l’ottimo motivo che erano fatte solo di idrogeno, l’unico elemento disponibile. Le prime stelle devono essere stati rappresentanti della categoria fast and furious. Le stelle massive bruciamo rapidamente il loro carburante e vivono per tempi molto più brevi delle stelle normali come il Sole”.

wired_placeholder_dummyGli esagoni dello specchio primario di Jwst (foto: Nasa)



Quando potrebbero arrivare i primi dati utili da James Webb Space Telescope?

“Durante i sei mesi di validazione in orbita ci saranno di certo le immagini della prima luce degli strumenti. È un momento cruciale per tutti gli strumenti (sia al suolo, sia in orbita). Per James Webb Space Telescope lo sarà ancora di più. Poi ci saranno la Ers e la prima scienza, al di là delle press releases. Almeno sei mesi di pazienza”.

Il telescopio potrà fornire informazioni anche sull'eventuale formazione di vita extraterrestre nella nostra galassia?

“L’infrarosso è una lunghezza d’onda ideale per studiare gli esopianeti. Non si tratta di vederli direttamente, ma di studiare come la luce della stella venga alterata quando il pianeta le transita davanti. In questo modo Jwst potrà indagare la composizione dell’eventuale atmosfera di pianeti interessanti, perché hanno dimensioni simili alla Terra e orbitano a una distanza tale da ricevere abbastanza energia per avere acqua liquida sulla superficie. Noi veniamo dall’acqua e quindi siamo convinti che la vita abbia bisogno di acqua. Quello che si cerca sono le biosignatures, cioè le firme delle molecole prodotte dal metabolismo degli esseri viventi. Sulla Terra sono ossigeno, ozono e metano, dei buoni punti di partenza. Glia astronomi hanno compilato una lista di 65 pianeti interessanti e contano di imparare strada facendo. Nessuno ha una ricetta preconfezionata”.

Ci sono voluto vent’anni per realizzare l'osservatorio. Perché?

“Perché si tratta di un progetto ambizioso e difficile, che fa cose che non sono mai state fatte prima nello spazio. John Mather, premio Nobel per la fisica, ha detto che è stato necessario inventare dieci nuove tecnologie e ognuna di queste ha posto problemi imprevisti”.

Lei è stata testimone della nascita di Jwst: quali erano i suoi presupposti e cosa è cambiato da allora?

“Per essere brutale, quello che è cambiato in modo radicale sono il prezzo della missione e la data di lancio. Sono stata coinvolta a fine anni ‘90 in un studio di un possibile contributo dell’Esa al computer di bordo, una parte molto importante di una missione spaziale, che però la Nasa decise di tenere sotto il suo diretto controllo.
Da allora ho seguito il progetto dall’esterno, per la sua valenza astronomica e senza prendere parte alla sua costruzione.
La National Academy, nel 2001, sponsorizzò ufficialmente il progetto il cui costo era stimato in un miliardo di dollari, una cifra importante ma decisamente inferiore al costo di Hubble, quindi chiaramente irrealistica, forse figlia di quella cultura dell’ottimismo che induce a sottovalutare le difficoltà e dunque i costi.

Appena dato il via al progetto, sul fronte Nasa, si è verificato quello che era facile prevedere: un significativo aumento dei costi. Si stava rivelando tutto molto più difficile del previsto e, nel 2009, la nuova programmazione Nasa stimava il costo a 5 miliardi con una data di lancio nel 2014. Purtroppo si era solo all’inizio di una lunga storia di ritardi, conditi da aumenti di costo significativi. A novembre 2011, il Congresso confermava il progetto con un costo totale di 8 miliardi. A maggio 2021, secondo le stime dello Us Government Accountability Office (GAO), il prezzo era salito a 9,7 miliardi, praticamente il doppio rispetto alle stime del 2009, con la data di lancio ritardata di sette anni”.

photo5Il Jwst di fronte alla porta della Camera A, un'enorme stanza in cui viene praticato il vuoto e dove si conducono test a bassissima temperatura (foto: Nasa/Esa)



A proposito di Hubble, adesso che ne sarà?

“Continuerà le operazioni finché i suoi sistemi reggeranno: in orbita dal 1990, sono una tecnologia di fine anni 70. Hubble è un telescopio che ha dato moltissimo all’astronomia e che continua a essere richiestissimo. Sono sicura che, utilizzato in sinergia con James Webb Space Telescope, (Hubble nel visibile e James Webb nell’infrarosso), non smetterà di stupirci”.

Tornando ai costi, James Webb Space Telescope è la singola struttura spaziale esclusivamente scientifica più costosa mai costruita: fra i 10 e i 12 miliardi di dollari. Che cosa risponde a chi, scettico, lamenta un prezzo così importante?

“Sono certa che le tecnologie sviluppate per realizzare Jwst saranno utili in altri settori, ai quali magari non si era pensato. La tecnologia degli specchi a incidenza radente, che è stata sviluppata per le grandi missioni di astronomia X, adesso è utilizzata per stampare chip ultra compatti e ultra performanti. Quando Riccardo Giacconi, premio Nobel per la fisica nel 2002, progettò il primo specchio capace di focalizzare i raggi X non pensava certo ai chip dell’elettronica.

Oltre all’utilità, sulla quale non ho dubbi, c’è l’avanzamento della conoscenza. Chi non si pone domande sull’origine dell’Universo, oppure sulla possibilità che pianeti extrasolari simili alla Terra possano ospitare la vita? Ne sono sicura: James Webb darà delle risposte”.


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